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Diario di Carlo Pere, sconosciuto piccolo-grande eroe, ex internato e testimone dell’orrore nazista. Ingegnere all’Ilva. Il dono della moglie


Diario di un piccolo-grande sconosciuto eroe ex-internato testimone dell’orrore nazista. Carlo Pere, ‘I miei vent’anni’. Editrice STUDIO64

di Benito Poggio

Ci sono date che non si devono dimenticare: 25 aprile 1945, data della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, divenuta Festa nazionale; 11 aprile 1945, data della Liberazione di Buchenwald da parte delle Forze Statunitensi; 27 gennaio 1945, data della Liberazione di Auschwitz da parte dell’Armata Rossa, designata nel 2005 dall’ONU come “Giorno della Memoria” per commemorare la liberazione dei campi di concentramento e la fine dell’Olocausto.

Le tre date storiche contrassegnano la definitiva vittoria sul Nazifascismo che aveva lasciato inorridita l’umanità intera per aver disseminato la civilissima Europa di orribili atrocità, sottoponendo a torture milioni di deportati nei lager, trasformandoli in larve umane. Si pensi che i prigionieri che venivano considerati abili e costretti ai lavori forzati per le industrie tedesche ammontava solo al 25%; vecchi e madri con bambini, pari al 75%, erano condannati a morire di stenti o nei forni crematori.

I lager più noti si trovavano in Polonia, Germania, Austria, ma anche in altre nazioni e perfino, voluti da Mussolini, in Italia: Bolzano, Fòssoli, Grosseto, Risiera di San Sabba e in Puglia. Ma, come mi spiegò l’ex-deportata Liana Millu (1914-2005), di cui ebbi la fortuna di diventare amico e accompagnarla nelle scuole a narrare i suoi trascorsi, non c’erano solo i “campi di concentramento, di sterminio e di lavoro forzato” citati, ce n’erano altri meno noti e dei quali di rado si è venuti a conoscenza.

Non tutto è noto dell’orrore nazista: ci sono “piccoli-grandi eroi” di cui si ignorano le torture patite, ma che via via qualcuno porta alla luce. Ad esempio, prima che la moglie Giuliana Dell’Era e la figlia Gabriella, che abitano a Genova nel mio quartiere, mi facessero omaggio del suo diario, ignoravo del tutto la tremenda odissea attraversata dal ventenne Carlo Pere nato a Taranto nel 1923, uno dei militari italiani internati a Dornbirn dopo l’8 settembre 1943. Chiamato in Marina, il giovane Allievo Ufficiale di Complemento, con altri 500 commilitoni, si ritrovò a Brioni (poi luogo di vacanza del dittatore Tito), di fronte a Pola, dove – ma lui rifiutò – “fu invitato dal sindaco, amico del suo papà, a collaborare con i Tedeschi”.

Iscritto all’Università di Padova, Carlo Pere, scomparso nel 2006, dopo il Ginnasio a La Maddalena, aveva seguito il padre a Venezia ove “frequentò con merito il Liceo Classico Foscarini”. A quel tempo ignorava che sarebbe entrato a far parte del grande teatro della Storia come “KG”: Krieg Gefangen (Prigioniero di Guerra), internato dapprima nel lager di Markt Pongau, gestito con insolita crudeltà dalle spietate SS affiancate da ringhiosi e focosi cani-lupo aizzati con brutalità contro i detenuti, vittime per giunta del sadismo dei kapò.

Superata l’iniziale paura, il giovane Carlo Pere rischiò di finire, per scelta casuale, in uno dei più orrendi campi di sterminio in Germania: Dachau o Buchenwald o in Polonia: Auschwitz, Birkenau, Mauthausen o Treblinka. Per sua fortuna, con un’altra quarantina venne destinato al campo di lavori forzati, “a Dornbirn, nel Voralberg, incantevole paese situato in un triangolo fra Svizzera, Austria e Germania”. Il lager – ove rimase per più di un anno – era contornato da un recinto di filo spinato che racchiudeva tre baracche in cui i prigionieri vegetavano animalescamente “chiusi come bestie” e in cui vi erano castelli di legno non certo per riposare, ma almeno per stravaccarsi sfiniti dalla stanchezza dopo 12 ore di massacrante e ininterrotto lavoro fino allo stremo delle forze, infreddoliti, vittime di violenze gratuite e sottonutriti con “una gammella di acqua sporca, detto tè, per colazione alle sei del mattino; brodaglia di rape per pranzo; tozzo di pane nero per cena”… dopo due o tre ore di coda al freddo.

È il 15 aprile 1945 quando, dopo esitazioni per paura e ottenuto un lasciapassare su “carta rossa”, per il nostro Carlo Pere inizia il periglioso e travagliato ritorno a casa. Dapprima in treno verso Innsbruck, poi a Bressanone fino al prelevamento da parte dei Partigiani sull’altopiano di Asiago,… ma quale gioia ad essere “rifocillato con pane, minestra e vino”! E quale gioia quando gli indicarono un camion diretto alla sua amata Venezia: là aveva intravisto per l’ultima volta le sorelle e la mamma affacciata alla finestra (alla quale dedicherà un’affettuosa poesia) con in braccio il fratellino Giacomo di 4 anni.

Per sua grande fortuna riuscì a superare ben tre posti di blocco: “Chi sei? Da dove vieni”; il giovane impaurito rispose in dialetto e loro, vistolo magro e in pessime condizioni: “Poareto, va’ a casa!”. Giunse alle due di notte del 23 aprile 1945: suonò il campanello e la mamma gridò: “L’è Carlo! L’è Carlo!” Fece persino in tempo ad aiutare un ragazzo tedesco che, con la cartolina precetto, andava a presentarsi al comando nazista di Venezia: gli parlò da amico, lo dissuase e, nonostante tutti i maltrattamenti e le persecuzioni che aveva subìto dai malvagi Tedeschi, il giovane Carlo Pere, con generosità, gli comunicò l’indirizzo di casa sua nel caso si fosse trovato in difficoltà o per qualsiasi altra evenienza.

Se sono venuto a conoscenza di questo “piccolo-grande eroe sconosciuto”, il quale a guerra finita ha vissuto e ha lavorato come ingegnere all’ILVA di Genova, lo devo soprattutto alla figlia Gabriella, mamma di Maddalena, che abita nel mio stesso palazzo. Il prezioso “Diario”, titolato “I miei vent’anni. 1943-1945.” è una “piccola storia” individuale che, secondo me, ha tutto il diritto di entrare a far parte della “grande storia” dell’umanità. Si tratta di un agile libretto di una settantina di pagine, corredato da alcune foto d’epoca e da diversi significativi disegni dell’autore stesso che bene rendono le condizioni di estrema sofferenza in cui era venuto a trovarsi. Tra essi è sconcertante lo schizzo della “latrina comune”, una fossa di 10 metri per 4, dove qualche prigioniero “per suicidio o per incidente” ebbe l’atroce sventura di cadere dentro l’accumulo immondo di feci fino a morirne.

Nell’ultimo periodo della sua prigionìa, grazie alla sua abilità nel disegno tecnico, Carlo Pere divenne l’assistente dell’ingegnere-capo del lager, ottenendo del cibo in più che generosamente condivideva con gli altri deportati. Oltre alla tragica narrazione, il diario contiene una dozzina di poesie e un poema sulla nascita della “Bellezza”: vi si può cogliere un forte sentire lirico, espresso con una particolare scelta di vocaboli e di forme classico-arcaiche a riprova della formazione culturale dell’autore ventenne. La volontà di esprimere liricamente i propri sentimenti in una situazione così tragica, dà la misura della forza salvifica e consolatoria della poesia: a dire che le SS potevano, sì, torturare il corpo, ma la mente e lo spirito sono insopprimibili: il “Diario” di Carlo Pere, questo sconosciuto piccolo-grande eroe, lo dimostra con particolare efficacia.

Benito Poggio

*Carlo Pere, I miei vent’anni, Editrice STUDIO64


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B. Poggio

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