Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Savona, Spotorno, Albissola: La linea ligure della poesia. Sbarbaro fu orfano a 5 anni. Barile è stato presidente Dc della Provincia. Conferenza al Circolo Dante Alighieri


Siamo alla fine dell’800 ed in Francia nasce il Decadentismo, movimento artistico e letterario di valenza europea che si prefigge la liberazione dalla mentalità e dalla cultura del Positivismo  (la ragione in primis è considerata come strumento di indagine della realtà) e come reazione al Naturalismo. Conferenza nei locali della Società Dante Alighieri in Via Quarda Superiore 21, a Savona.

di Gianfranco Barcella

Camillo Sbarbaro a Spotorno

Il termine perde l’intrinseco significato spregiativo e afferma  valori opposti: si dissolvono i connotati  della  corrente di pensiero che proclama il declino morale ed estetico e matura la consapevolezza di una cultura nuova della raffinatezza, che esalta i nostri sensi. Parliamo di amoralità, di estetismo e soprattutto di simbolismo. La matrice filosofica non è più il razionalismo di Comte, padre del Positivismo ma l’intuizionismo di Bergson, il quale concepisce il tempo come  frutto di intuizione, altra facoltà altrettanto utile per disvelare la verità. Il tempo cronologico si manifesta in una dimensione lineare: si nasce, si vive e si muore in una successione di avvenimenti. Ma in “Alice nel paese delle Meraviglie”, si pone questa domanda: “Quanto è il per sempre?” “Talvolta é un secondo”, é la risposta. Anche la memoria le esperienze, le emozioni generano il concetto di tempo e in questo campo la ragione oggettiva difficilmente può competere perché prevalgono i limiti del mondo soggettivo. E dalla sfera del  <personale>  nasce così la letteratura autobiografica, la narrazione dell’io come protagonista del romanzo.

Aristotele ha definito il tempo come espansione della consapevolezza dell’uomo All’individuo dei Romantici che si distingue  per l’accensione e la forza dei sentimenti, succede l’uomo decadente che vive, nutrito  dalla raffinatezza delle sensazioni, che sostituisce la passione impetuosa con l’analisi introspettiva di se stesso, senza alcun freno morale e intellettuale, fino a giungere alla confusione tra voluttà e misticismo e alle più torbida involuzione etica. Il poeta non si esprime più con il linguaggio tradizionale, ma tende a descrivere intuizioni spesso sfuggenti, tra loro collegate da musicali cadenze, usando metrica e sintassi collegate alla musicalità del testo ed usa il tempo per dare un ordine alle cose.

Il nuovo poeta rifiuta le forme chiuse, governate da precise norme ritmiche  come il sonetto e preferisce il verso libero rispetto a quello tradizionale, accettando solo una metrica sua, per una forma tutta sua che spesso si configura in una prosa ritmica. Ne consegue una poesia nuova, in cui abbandona le analogie, ed i simboli come pure una ricercatezza espressiva che confluisce talvolta nella musicalità pura. Si crea la squisitezza estetizzante della forma. Con “Le fleurs du mal” di Charles Baudelaire, i Decadenti degli Anni ’80 hanno un sistema di tematiche da valorizzare: dal punto di vista sociale, un forte spirito di rivolta borghese, l’orientamento dell’arte verso le zone oscure della nevrosi e dei comportamenti anomali: malinconie, ossessioni, dissipazioni, rifugio nei paradisi artificiali, spinte autodistruttive, erotismo morboso, gusto dell’irrazionale e intreccio tra vita e letteratura. Dal movimento disordinato dei Decadenti, tra il 1885/86 si stacca il gruppo dei Simbolisti.

Il poeta Moreas pubblica sul “Figarò” il manifesto del Simbolismo, sottolineando che l’innovazione reale della poesia contemporanea non sta tanto nell’eclettico Decadentismo, ma nella scoperta del linguaggio poetico simbolico come chiave di lettura della realtà. In esso è rappresentata come una foresta di simboli tra loro corrispondenti che racchiudono le chiavi per aprire la porta dei significati universali. Riprendono una concezione romantica della funzione del poeta come interprete della realtà, suffragata dalla filosofia idealistica. In modo diversi ma non discordanti, l’uno che identifica il poeta, nel veggente l’altro assegnando alla musicalità del verso il potere di suggerire la realtà impalpabile.

Verlaine e Rimbaud sviluppano la poetica baudelariana fino a diventare i massimi rappresentanti  della scuola simbolista. Come si accennava in precedenza il Decadentismo deriva dal Romanticismo di cui esalta le tendenze estreme  e più distruttive, ponendo al centro della propria concezione estetica la funzione veggente della poesia, che interroga il fondo misterioso e nascosto della realtà, decifrandone i legami segreti  e le corrispondenze simboliche (Corrispondance, Corrispondenze, è il titolo del sonetto di Baudelaire, testo cardine del Simbolismo.

In generale, sviluppa l’attenzione all’ignoto e al mistero con sensibilità patologica: il suo ambiente tematico prediletto è la geografia psicologica dell’individuo, complicatissima e raffinata, molto più esasperata che nell’opera romantica. Nella concezione decadente troviamo già accennati, parecchi motivi della cultura novecentesca: la coscienza della crisi dell’uomo moderno, le prime intuizioni di una società radicalmente mutata dopo la rivoluzione industriale, la difficoltà dell’intellettuale a riconoscersi in un ruolo sociale, la disgregazione dell’individuo  nella sua interiorità e  l’emergere delle profondità interiori. Si afferma dunque a livello europeo  la poetica decadente che rifiuta le tecniche letterarie fondate sul valore logico e razionale della parola e ricerca tecniche nuove che facciano leva sugli elementi evocativi e sulle suggestioni foniche per penetrare nella zona misteriosa dell’inconscio.

Chi conosce un poco  l’intricata  e contraddittoria  situazione della letteratura italiana negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, delle sue strade solo tentate, delle mosse appena accennate sulla scacchiera poetica non può ignorare “Pianissimo” il libro di Camillo Sbarbaro pubblicato nel 1914 nelle edizioni della Voce. La poesia di esordio si presenta al lettore come una importante rivelazione;  “Taci anima stanca di godere/e di soffrire (all’uno e all’altro/ vai rassegnata)./ Nessuna voce tua odo se ascolto:/ non di rimpianto per la miserabile/giovinezza non d’ira o di speranza,/ e neppure di tedio./Giaci come/ il corpo, ammutolita, tutta piena/ d’una rassegnazione disperata./ Noi non ci stupiremmo,/ non è vero, mia anima, se il cuore/si fermasse sospeso se ci fosse/il fiato… Invece camminiamo, camminiamo io e te come sonnambuli/.E gli alberi son alberi, le case/ sono case,le donne/ che passano sono donne, è tutto è quello/ che è, soltanto quel che é/. La vicenda di gioia e di dolore/ non ci tocca. Perduta ha la sua voce/ la sirena del mondo, e il mondo è un grande/ deserto./ Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso./” E’ il manifesto dell’estraniazione del poeta e dell’uomo dal mondo. Si ritrova in compagnia solo della sua anima disperata (Vedi sotto il profilo iconico, l’Urlo di Munch). Questa poesia, proprio perché vera poesia acquista una valenza universale. Resta la condizione generale anche dell’uomo del nostro tempo ed i versi di Sbarbaro hanno dunque valore profetico. E’ l’alter ego del d’Annunzio di Maia che canta la lode della vita, anzi esattamente esalta la capacità della comunicazione per eccellenza (Nessuna cosa/mi fu aliena/nessuna mi sarà / mai, mentre comprendo, /Laudata  sii, Diversità delle creature, sirena/del mondo!” Il linguaggio della poesia sbarbariana  persuade molto di più il lettore di oggi, così lontano dai fuochi artificiali delle fantasie superomistiche. Rivela una dimensione interiore che mancava e viene poi simboleggiato dal verso famosissimo di Eugenio Montale:”Spesso il male di vivere ho incontrato>.

E’ quanto andavano realizzando in quegli anni Rebora e Boine che definisce la poesia sbarbarariana, <solo del presente>, nel rifiuto della storia. Proprio Boine e Rebora, più direttamente impegnati di Sbarbaro nella rivista letteraria <La Voce>avevano fatto dell’interiorità il loro punto fermo, il loro campo d’indagine che li avrebbero salvati dalle seduzioni più superficiali del Decadentismo.

Sbarbaro a mio avviso, si deve considerare comunque vociano, anche se la collaborazione alla rivista, iniziata nel gennaio del 1913 si è limitata all’invio di alcune poesie e poche prose liriche. Sbarbaro ricorda così  un suo incontro con Papini, che è bene ricordare, suggerì il titolo Pianissimo anziché Sottovoce come  aveva proposto il Nostro, e non lo coinvolse totalmente tra i collaboratori della rivista. Sbarbaro lo sottolinea in una lettera: “La mia compagnia anche allora non fu di letterati”. Forse lo divideva da loro, l’impegno ideologico, la fede nella cultura e nelle idee del tempo (si era passati dall’esaltazione del concetto di Nazione, tipicamente romantico a quello di Nazionalismo che portò alla prima Guerra Mondiale).

Sentiva che non avrebbero mai risolto i suoi dissidi interiori. Per contro l’ambiente vociano lo affascinò probabilmente  per il suo carattere bohèmien, per la sua accoglienza e il sostegno che vi trovava l’artista, per l’aria di libertà e di autonoma ricerca che vi respirava. Ma qualcosa di profondo, una vocazione alla quale si sentiva costantemente chiamato, gli impediva di integrarsi nel gruppo dei collaboratori della rivista, di dare importanza alle loro idee e battaglia affinché possano trionfare; era il suo modo di obbedire all’interiorità che lo distingueva anche dagli stessi Boine e Rebora. Questa sua solitudine esistenziale ed ideologica lo mise così in una posizione relativamente periferica rispetto alle battaglie letterarie d’avanguardia.

A Genova, infatti dove Sbarbaro viveva, i contatti con Firenze e con la letteratura militante italiana erano promossi dalla “Riviera Ligure”, la rivista dei fratelli Novaro, composta da pochi fogli, allegati alle lattine d’olio, prodotto nell’imperiese, alla quale collaborò fin dal settembre del 1912. E’ sufficiente ricordare i nomi di alcuni collaboratori per precisare il senso di questo rapporto con la cultura italiana: Palazzeschi, Saba, Boine, Govoni, Papini, Campana e Ungaretti, peraltro un cospicuo numero di vociani. Sbarbaro scrisse anche su<Lacerba> dal giugno 1913. Anzi dallo stile lacerbiano egli si lasciò chiaramente influenzare durante la composizione dei primi Trucioli; è il solo momento in cui la sua attività sul piano dello stile può confondersi con quella di una <scuola>, ma anche questa esperienza non fu in grado di incrinare la sua condizione di solitudine di <isola nell’infinito mare della poesia>.

Potremmo compararlo alla figura emblematica di Dino Campana. Il primo libriccino di versi di Camillo Sbarbaro si intitolò Resine e fu pubblicato nel 1911 a spese di un gruppo di compagni di liceo. Fu seguito da Pianissimo, tre anni dopo. Quando uscì l’opera,  Eugenio Montale su “L’Azione”, Genova 10 Novembre 1920, ne rileva l’intensità e la forte originalità dell’espressione e ne identifica il centro dell’ispirazione, nell’amore dello <scarto>, nella poesia degli uomini falliti e delle occasioni mancate, per il poeta che solo così di sente pienamente vivo. Il riferimento all’Albatros del <Le fleurs du mal> di Baudelaire è evidente.

Sbarbaro fu definito da Montale<l’estroso fanciullo> opinione certamente sorprendente. Se analizziamo l’aggettivo <estroso> rileviamo che significa<capriccioso, bizzarro, ricco di fantasia e di inventiva>. E non si addice pienamente alla personalità di Sbarbaro ma “Fanciullo” compare anche nell’Epigramma a lui dedicato nella raccolta montaliana, “Ossi di seppia” del 1927. Fanciullo deve essere inteso con riferimento a Pascoli e a quel che di pascoliano si trova nella poesia di Sbarbaro.

Gina Lagorio scrittrice

Gina Lagorio, profonda studiosa <dell’estroso fanciullo>. (Celebre la sua monografia dal titolo: “Sbarbaro, un modo spoglio di esistere” edita per i tipi di Garzanti) opportunamente ricorda a pag.19 dell’opera citata quanto lo stesso Sbarbaro scrive in <Cartoline in Franchigia>: “Pascoli, che tu ami tanto, io scusa, non lo sopporto” In realtà lo stesso Sbarbaro in “Fuochi fatui” fece propria la definizione di <estroso fanciullo>, paragonando la propria facilità di stupirsi a quella di un bambino ammesso a far man bassa in un negozio di giocattoli. E’ questo a parer mio, un’indicazione preziosa per aiutare a far conoscere  questo poeta al lettore di oggi, che raramente, ancora oggi viene proposto nelle scuole, e apprezzare la sua acuta sensibilità nell’affrontare gli aspetti della vita quotidiana.

Sbarbaro ha fatto poco e nulla per mostrarsi alla platea del lettore. Osserva ancora Gina Lagorio: “Far poesia, ma in punta di piedi, lasciar detto di sé. Ma senza iattanza: questa è stata l’umiltà di Sbarbaro che non era rassegnazione o peggio scarsa conoscenza di sé. Solo non voleva adeguarsi alla morale del gregge, estraneità non umiltà, anzi con la pletora vociante e vanesia dei letterati, egli non valeva aver niente in comune”.  Facile dunque riassumerne la biografia di Sbarbaro, priva di fatti eclatanti. Persa a soli cinque anni la madre che morì di tubercolosi, il piccolo Camillo ebbe forti legami d’affetto con il padre che ricorda in bellissimi versi,  con la sorella  e con la zia; per quest’ultima, a conclusione delle edizione definitiva delle Poesie, compone una lirica commovente e a mio avviso imprescindibile per comprendere il particolare <tono> della sua voce interiore: “Ti chiamavi Maria, ma il nostro cuore ti chiamava Benedetta/tu che morta nostra madre, venisti sedicenne a sostituirla e ci accompagnasti sino a questa età….  guardare dall’ombra in cui ti tenevi  i figli di tua sorella con occhi luccicanti di amore  e di ingenuo straziante orgoglio”.Per la sorella scrive i seguenti versi: “Forse un giorno, sorella, noi potremo/ritirarci sui monti, in una casa/ dove passare il resto della vita. Sarà il padre con noi se anche morto/. Noi lo vedremo muoversi per casa. E allora capirà tutto il dolore/ che traversammo uniti per la mano, /tu, la vita, sorella, senza amore/io la vita sorella, senza inganni./” Il tono intenso diretto della lirica, la straordinaria essenzialità di alcune espressioni (occhi luccicanti di amore e di ingenuo straziante orgoglio sono tutte peculiarità della voce interiore di Sbarbaro. La sua esistenza si può sintetizzare con pochi tratti di penna.

Per tutta la vita Sbarbaro gravitò su Genova e su Savona. Nato a Santa Margherita Ligure nel 1888 si trasferì con la famiglia prima a Varazze e poi nel 1904 a Savona ove frequentò il Liceo Classico “G. Chiabrera”, conseguendo la licenza liceale nel 1908. Entrò nel mondo del lavoro, impiegandosi presso l’ILVA; nel 1911 pubblicò la sua piccola raccolta poetica, Resine, apprezzata dalla critica. Partito volontario con la Croce Rossa Italiana all ‘inizio della Prima Guerra Mondiale e nel 1917 venne richiamato alle armi. Scrive in proposito a Barile che soltanto due cose ha fatto forzatamente nella sua esistenza: il servizio militare durante il quale ha portato onestamente il suo zaino di fante e la vita d’ufficio, quella di onesto impiegato. Dal 1941 al 1945 si trasferì a Spotorno, ove ritornò poi nel 1951 e vi risiedette sino alla morte.

Per ritornare alla sua opera, molta  critica italiana ha considerato Pianissimo come il primo libro di Sbarbaro una promessa in attesa del capolavoro, malgrado una certa discontinuità espressiva, una certa approssimazione della versificazione e la non sempre risolta riduzione della sofferenza personale nello sconforto universale, limiti peraltro sottolineati anche da Montale stesso. Boine così scrive sulla lirica di Sbarbaro: “Mi pare d’essere innanzi a una di quelle poesie su cui i letterati non sanno né possono dissertare a lungo, ma di cui si ricordano gli uomini nella vita loro per i millenni”.Intuiva  cioè quanto poco fosse legato alla contingenza questo Sbarbaro e quanta verità si raccogliesse in questo rovesciamento della figura mitica, incarnata nella sua storia che al di là delle intenzioni dell’autore, era diventata la storia di tutti.

Angelo Barile, poeta e democristiano, è stato presidente della Provincia di Savona eletto dai cittadini.

Tutto questo ha riscontro anche sul piano della vita privata se prendiamo in considerazione lo scambio epistolare di Sbarbaro con l’amico Angelo Barile (Le lettere tra i due sono raccolte nel volume di Sbarbaro dal titolo Cartoline in franchigia, Firenze 1966) Sbarbaro scrive nel 1913, a proposito dei motivi ispiratori della poesia di Trucioli: “ Dopo le ore di creazione, così rare e seguite da nausee e da aridità, non vedo splendere che quelle liberatrici dell’ebrezza e i cinque minuti con le puvres petites putains (con che affetto le nomino!) spaventate. Così scopro l’ardore d’una fede di scomparire prima che la fine mi raggiunga; che nessuno sappia più nulla di me e se possibile  io dimentichi anche il mio nome.  Ma sono cose che per farle, bisogna non parlarne, altrimenti si è ridicoli e si continua ad essere poeti i quali credono di aver fatto quello che hanno detto”.

Ed ecco il tema dell’indifferenza dell’anima, in una lettera del 21 giugno 1913:< con arrivare volevo dir molto meno dell’esprimermi interamente e dell’esperimentare tutto. Volevo dire vivere senza dovermi privare di quel tutto che chiamo vita… A proposito del mio presentimento di non aver lunga vita, mi chiedi se mi curo. Mi curo certo; ma conservarmi alla mia amarezza è prolungarla; preferisco augurarmela corta. Solo formalmente sono oggi diverso dall’autore di Resine. Con una differenza; l’anno scorso mi sentivo, moralmente in un pozzo.. Quest’anno, no: non ho più nausee, rimorsi, non faccio più proponimenti, tutto mi è diventato uguale e mi pare sia peggio…>.

Solo la creazione e qualche volta l’alcool sembrano poterlo strappare da questa angoscia, patita come vuoto, non certo il lavoro d’ufficio che <ingrettisce, acciacca, storpia moralmente>: “Come uscii da quel purgatorio? Una sera rincasando annunziai raggiante a mia sorella che il peggio era passato. L’indomani infatti scrissi i versi che si chiudono con E venne la sera… E piansi di contentezza. Da allora è un mese, sono casto e sobrio; ma dopo quello sgorgo, mi sono di nuovo ammutolito e la privazione è tremenda”..

Ma l’immagine poetica di questo vuoto va ben oltre la dimensione privata e per quanto il rapporto sia fortemente mediato, è ricollegabile a quel vuoto, che nascosto dai fragori dannunziani e nazionalistici è il frutto del disorientamento generale della borghesia, proprio nel momento in cui il Paese si trova alla vigilia di una tragica svolta della guerra delle cui dimensioni catastrofiche sta per prenderne coscienza. Le smaglianti e chiassose manifestazioni futuristiche sfiorano spesso il cuore della condizione borghese dell’uomo del tempo e nulla più. Accade invece che colui che vive alla periferia del corso ufficiale degli avvenimenti, scavando dentro la propria solitudine, riesca a costruire un’immagine dell’uomo così essenziale da apparire come la condizione esistenziale dell’umanità del tempo. Si respira un’atmosfera di vuoto che è proprio del mondo poetico di Sbarbaro. Esso è anche il vuoto, il caos di Boine e Rebora, forse storicamente più consapevoli di Sbarbaro, ma non molto diversamente da lui alla ricerca di una soluzione dentro i confini della soggettività.

Torna alla mente a tal proposito ciò che ha scritto Adorno: “Molto induce a credere che l’opera d’arte attuale colpisca la società tanto più esattamente quanto meno tratta di essa”. In sintesi Sbarbaro descrive la sua condizione come una verità che nessun evento sociale ed umano possa scuotere come fosse già fuori dal tempo. Ed è l’attualità della sua denuncia che ancora ci ammalia. Anche nella produzione poetica successiva a quella di Camillo Sbarbaro è raro imbattersi in un autore così risolutamente deciso a rifiutare la storia, accogliendo nel proprio intimo solo la propria solitudine, acconsentendo ad una interpretazione solamente della sua semplice ed individuale vicenda. Sbarbaro pone la sua condizione esistenziale come una verità che nessun evento sociale e umano può scardinare e rivelare perché già fuori dal tempo. Sbarbaro coglie l’autenticità dell’esistenza nella sua solitudine e non nei deliri nazionalistici del suo tempo, osannati da D’Annunzio.

Da questa premessa gnoseologica comincia la sua avventura di esiliato dal mondo  tra uomini che non comunicano, incarnandosi nell’immagine del sonnanbulo.”Talor, mentre cammino sotto il sole/………Un improvviso gelo mi coglie/ Un cieco mi par d’essere, seduto/ sopra la sponda d’un immenso fiume/. Scorrono sotto l’acque vorticose,/ ma non le vede lui: il poco sole/ ei si prende beato. E segli giunge talora mormorio d’acque, lo crede/ ronzio d’orecchi illusi./ Perchè a me par, vivendo questa mia povera vita un’altra rasentarne/come nel sonno, e che quel sonno sia/la mia vita presente./ Come uno smarrimento allor mi coglie,/ uno sgomento pueril. / Mi seggo/tutto solo sul ciglio della strada,/ guardo il misero mio angusto mondo/e  carezzo con man che trema l’erba./

La vita presente è per Sbarbaro la natura fraternamente vissuta in rapporto armonico, ma solo provvisoriamente, perché quel mondo è sonno, illusione di un cieco che si lascia incantare dall’apparenza e non avverte il richiamo della vita più vera (vita obliosa) che gli sembra di rasentare. E’ un rapporto armonico che procede a stento come un caldo buono che subito si fa gelo.E’ inutile per il poeta chiedere ragione di questo moto interiore a singhiozzo che si dipana tra vita apparente e reale. L’unica bellezza di tale processo sta nell’intuizione di qualcosa di profondo nel gelo quotidiano che incrina il rapporto con la vita, spia della precarietà esistenziale che Sbarbaro sviluppa nella similitudine del cieco, dallo stato d’animo smarrito e sgomento. Dalla dissoluzione del momentaneo incanto come un affiorare minaccioso di una seconda vita, traspare la sproporzione che crea una vertigine tra il mondo accarezzato con tenerezza (somma illusione) e la sua fragilità.

Il porto entro cui riposare dopo questa ricerca mai esaustiva, è quello della natura e il poeta vi si intrattiene poco perché angusto. E pertanto tutta la poesia di Sbarbaro si regge su una condizione di equilibrio molto instabile, sull’attesa di quei rari contatti con le cose che gli sono concessi e che risultano infine, pura illusione. A questo punto il richiamo a Leopardi è necessario pur rivisto in un’ottica di modernità. Ricordiamo <l’Infinito>: l’immaginazione degli interminabili spazi e dei sovrumani silenzi e lo sgomento sopravvenuto si sposano all’intuizione di un ‘altra dimensione dinanzi alla quale poca cosa, pur cara è la voce del vento e della presente stagione. Se si prescinde un momento dalla differenza indiscutibilmente netta dei livelli poetici(la poesia di Sbarbaro non solo è molto meno strutturata di ragioni e respiro universali, ma tradisce anche in qualche punto incertezze espressive quali una certa discontinuità ritmica e l’impiego di forme lessicali piuttosto tarde che confermano peraltro un modello letterario ottocentesco) è facile riconoscere gli echi leopardiani:<la mia vita presente>< <vago smarrimento>,< immenso fiume>. Il quadro dell’interiorità del mondo poetico. E’ la tendenza a descrivere la sofferta interiorità che caratterizza gran parte della poesia italiana del tempo ed in parte quella europea.

Questa direzione rappresenta l’alternativa al Positivismo- Naturalismo, come accennato in precedenza proprio quando si appanna la fede nella scienza e nella tecnica nella loro dimensione oggettiva e il senso della storia si dissolvono insieme all’idea di futuro. Il mondo interiore non è più ampio, ricco, risonante come nel Romanticismo: si riduce alla ripetuta constatazione della propria solitudine nel deserto del mondo. Proprio l’insussistenza dei motivi per procedere nel cammino della vita è la condizione prima di quell’assurda possibilità. E’ anche il problema dell’essere e dell’esserci che già aveva attanagliato l’amico Eugenio Montale. Dopo il <male di vivere >degli Ossi di Seppia è la ricerca delle <occasioni di vita> che ci induce ad accogliere l’esistenza. Pur non avendo un valore in sé e per sé è l’unico bene seppur aleatorio che possediamo e pertanto va ricercata e valorizzata quotidianamente. Questa è la prima prospettiva della metafisica occidentale moderna dell’Esistenzialismo che ha portato alla consapevolezza che non esiste più per noi, alcun terreno sicuro nel quale impiantare nuove speranze di futuro. Prevale dunque <il senso temporalista> dell’esistenza come fioca luce per superare le oscure prospettive della morte. In questa ottica si può ascoltare anche la voce di Boine, anch’egli protagonista di un’avventura in cui il mondo si rivela come un deserto e l’unità tra l’uomo e il mondo si è ridotta in <Frantumi> (il titolo appunto della sua opera).

L’opera dell’albisolese Angelo Barile, avvocato, presidente della Provincia di Savona, democristiano, ha sempre cercato per contro di dare un senso alla vita alla luce della dottrina cristiana. Adelchi Baratono filosofo e docente di Filosofia al Liceo Chiabrera di Savona,  professore di Sandro Pertini, definì Barile <poeta della grazia>. La sua parola poetica non sempre duttile alla percezione del divino, si impreziosisce però di una bellezza formale che diviene metafora dell’umano sentire. Il timbro della sua lirica rimane costante tra assorta contemplazione e umile aspettazione del divino. Per quanto possa apparire atemporale e astorica, tant’è priva di richiami precisi e quasi protesa in un tempo metafisico, ha bisogno di un dato reale, di una piccola storia da narrare che ha come protagonista, per esempio una giovane creatura, rappresentata in un’aura di malinconia e di purificato, eterno distacco.

Barile trasmette al lettore lo stesso senso d’attesa dell’aldilà che ogni credente custodisce nel cuore  nella lirica dal titolo:”Lamento per la figlia del pescatore”. viene affrontato il tema doloroso della morte di una giovane; quale sventura sconvolgente che viene mitigata dalla certezza che<ora canti sull’altra tua riva>. Il padre della ragazza defunta affida ad un semplice gesto la manifestazione del suo lutto. Essendo un pescatore <ha dipinto/le sue barche di un filo di  lutto> così da pensare sempre a sua figlia e ricordarla in perpetuo. Con Barile ci troviamo davanti ad uno dei pochi poeti del’ 900 che ha una visione positiva della vita e della sua prosecuzione anche dopo la morte e non esiste l’affinità poetica che lega Sbarbaro e Montale il quale dedica una silloge del suo primo libro: “Ossi di Seppia”, proprio a Sbarbaro, quasi in segno di gratitudine per i motivi ispiratori dei suoi versi. E Montale sintetizza mirabilmente l’angoscia esistenziale che lo accomuna all’amico Camillo nel celeberrimo verso: “Spesso il male di vivere ho incontrato,” espresso in tre metafore: il gorgogliare del ruscello soffocato sul nascere dai detriti, la foglia riarsa, in procinto di decomporsi e il cavallo a terra stramazzato, nel pieno della sua vigoria  stroncato dalla fatica. Anche il bene è sola apparenza, rappresentato anch’esso con tre metafore: una statua nella canicola, una nuvola lontana e un falco che vola alto.

Per Barile invece, rincuorato dalla fede non solo non esiste <il male di vivere> ma neppure il <male del morire> Ritorno al <Lamento per la figlia del pescatore>. “Vacillavi già in braccio al sereno/come sull’uscio del mondo/. Oh, sulla tua marina/ il tuo soggiorno fu mite/ e sottovoce, fanciulla/ammainata come una vela/ nel bianco dei tuoi pensieri/. Il bianco della vela  e degli occhi richiama con insistenza la purezza della fanciulla e si contrappone con inconsueto vigore al <noi tristi>. Il poeta Barile ha bisogno come punto di partenza del suo poetare di un dato reale da purificare e dilatare attraverso la memoria e l’immaginazione. La presenza di questa esigenza interiore si evidenzia nell’uso di  un perfetto narrativo, quasi un residuo del fatto avvenuto, o ipotizzato e di un <tu> colloquiale, rivolto ad persona ormai lontana ma sempre avvolta da un alone di affetto. Il <tu> assume un tono raccolto e intimistico e istituisce un rapporto d’anime. Un’ affabile malinconica dolcezza è la cifra più vera e originale della poesia bariliana. Manca pero lo sbocco nell’universale. Questa è forse la nota poetica che accomuna Barile a Camillo Sbarbaro.

Leggiamo un’altra sua lirica che io trovo meravigliosa da titolo “Padre se anche tu non fossi il mio”Padre, se anche tu non fossi il mio/padre, se anche fossi a me un estraneo,/ per te stesso egualmente t’amerei. Ché mi ricordo d’un mattin d’inverno/ che la prima viola sull’opposto/ muro scopristi dalla tua finestra/ e ne ne desti la novella allegro./Per la scala di legno tolta in spalla/di casa uscisti e l’appoggiasti al muro./ Noi piccoli stavamo alla finestra/. E di quell’altra volta mi ricordo/ che la sorella mia piccola ancora/ per la casa inseguivi minacciando/ (la caparbia avea fatto non so che). Ma raggiuntala che strillava forte/dalla paura ti mancava il cuore:/ché avevi visto te inseguir la tua/ piccola figlia, e tutta spaventata/tu vacillante l’attiravi al petto,/ e con carezze dentro le tue braccia/ l’avviluppavi come per difenderla/ da quel cattivo ch’era il tu di prima./Padre, se anche se tu non fossi il mio/padre,se anche fossi a me un estraneo, fra tutti quanti gli uomini già tanto/ pel tuo cuore fanciullo t’amerei/.”Ecco che anche qui la coscienza del tempo passa attraverso la concezione personale del tempo.

Non è ancora la concezione del tempo distorto che troviamo nella Coscienza di Zeno, viziata dalla malattia o tanto meno all’assenza della concezione del tempo  nei malati che soffrono di malattie degenerative del sistema nervoso ma ci si affianca. Comunque la percezione del tempo, come in Barile passa per un elemento personale, ma mentre in Barile stesso il tempo è vissuto in una dimensione verticale, in Sbarbaro si ferma a quella orizzontale. Ma torniamo al poeta albisolese e analizziamo la lirica che anche lui ha dedicato al padre: In Ora respiri la brezza infinita risulta evidente la difficoltà del poeta a smaterializzare elementi troppo concreti che narrano di una storia vissuta e finita per sempre: “. “Approderai/alla riva straniera/ guardata da vertigini di pietra/camminerai per numeri di strade./Tanta neve é caduta/ da allora! Tanta neve/fradicia e pesta ho sul cuore. Non so,/ veramente non so/da un angolo incolume mi ride/quella bambina./Quell’angolo incolume”, così denso di vibrazioni, intimizza la scena e ne dirada i tratti paesaggistici e lo spessore episodico. Il dialogo si è subito spento si é contratto nell’io, espressione di un disincanto terreno che schiude ad un altro approdo più severo. Già aveva espresso questo sentimento decenni prima, se pure con minore pacatezza. Leggiamo infine i versi di Uscire dalla vita :Ch’io possa almeno//lasciarmi dietro la mia stanza, un poco/ volgendo il capo a riguardarla, alfine/pulita, sgombra/d’ogni discordia, in ordine sereno”./ nel 1965, Angelo Barile, in una postilla ad un volume, edito da Scheiwiller, che raccoglieva le sue poesie più riuscite, scriveva: “ Nonostante la lunga amicizia io non ho fatto poesia che in poche e brevi soste della mia vita; sempre a distanza di anni e quasi per improvvisa fortuna. (….) La poesia è un fatto del tutto insolito e raro un dono dell’intima trasparenza.

E se è pur vero, come ha osservato Carlo Bo, Barile non ha fatto poesia, ma è stato poeta. E’ stato soprattutto una creatura umile che ha sentito di dover testimoniare l’impegno di carità, predicato da Dio, non affatto incomprensibile né ridotto a una vana attesa. Si è rivolto agli altri come a fratelli e ha cantato più volte la bellezza di un incontro, il gesto casto di una carezza e la natura che rifiorisce, in nome dell’amore. La dolcezza affettuosa dei modi si rivela soprattutto in questi versi: “ Foresto a me lo simulo fratello/ (…..) Ogni giorno mi cresce desiderio/ di udire voci di stringere mani/ di fare insieme/ a chi trovo, chiunque trovo,la strada”.

Per  arrivare alla trattazione dell’ultimo argomento, la fantomatica <linea ligure della poesia> si può sostenere che un impiegato dell’ILVA, supplente saltuario di Greco ed esperto di muschi e licheni(Sbarbaro), un ragioniere aspirante baritono (Montale) ed un imprenditore di ceramiche, avvocato e politico come impieghi di complemento (Barile è stato presidente democristiano della Provincia di Savona) hanno cambiato con la loro opera il volto della poesia moderna italiana e non solo?

A prima vista si direbbe di no, ma io la tentazione di dire sì. Camillo Sbarbaro, Eugenio Montale e Angelo Barile sono stati capaci di far nascere dalla loro amicizia e dai reciproci interessi culturali una forma di poesia che ha rivoluzionato la letteratura del’900. Il loro è stato un modo di comporre ed esprimere i sentimenti che ebbe proprio nell’albisolese Barile, il suo punto focale. Barile fu un ispiratore e figura di raccordo straordinario non soltanto per gli altri due poeti ma anche di altri letterati e artisti e in primis Adriano Grande. Pur essendo suo coetaneo Camillo Sbarbaro trovò nella straordinaria figura fraterna e artistica di Angelo Barile una vera e propria stella polare; un ragionamento che vale ancora di più per Eugenio Montale. Il premio Nobel del 1975 anche in virtù del suo essere un poco più giovane di Sbarbaro e Barile (nacque infatti a Genova nel 1896), trovò nel poeta albisolese un modello a cui ispirarsi e l’interlocutore ideale a cui rivolgersi per dare vita alle proprie aspirazioni artistiche. Non fu un caso che il giovane <Eusebio> come amava definirsi Montale, fece leggere i suoi primi componimenti proprio a Barile, un debito culturale che il poeta genovese cercò sempre di onorare.

Tutto ciò venne  confermato anche dalla pubblicazione del fitto rapporto epistolare che intercorse tra i due fra il 1920 e il 1957 dal titolo: “Giorni di Libeccio”. E’ la storia in 58 lettere di una poetica e di un’amicizia che hanno cambiato per sempre la storia della scrittura poetica del ‘900. Chi ha fatto capire meglio di tutti quanto sia stata grande la traccia che Barile lasciò su Montale, fu Gina Lagorio. In un’intervista affermò: La legge di Angelo Barile era la pertinenza e l’icasticità delle parole”.

A proposito ancora di Sbarbaro, l’altro affezionato interlocutore di Angelo Barile è accomunato al poeta albisolese da un carteggio del tutto particolare. Il poeta che immortalò Savona dove morì nel 1976 all’ospedale San Paolo ed altri luoghi a noi cari come Voze e Spotorno. Sbarbaro ebbe con Barile un’amicizia profonda che si tradusse in molteolici esperienze di vita non ultima il volume “Cartoline in franchigia”, in cui dell’autore di Pianissimo sono raccolti piccoli frammenti in prosa che, scritti nel corso della Prima Guerra Mondiale, furono riordinati in tarda età dallo stesso Sbarbaro. Spiccano i testi originali di tre cartoline che il poeta di “Trucioli”, inviò a Barile.

A rendere unici e riconoscibili i fili poetici che uniscono i tre grandi poeti anche nel quotidiano e rivelano pure le prospettive che essi attribuivano al quotidiano stesso è stato  il sapervi cogliere una <dolcezza inquieta> nelle cose comuni  e nelle piccole ricchezze elargite da una realtà in fondo avara, per usare un’ espressione montaliana. Il tutto è espresso con un linguaggio che sa essere essenziale, scabro almeno quanto sa essere evocativo di una magia e di un senso nascosto nelle cose di tutti i giorni. Un esempio ce lo fornisce Angelo Barile nella sua <Fuori tempo> tratta dalla raccolta: “Quasi sereno”. Sono versi che nascono da una comunanza di linguaggio e di intenti comuni che hanno portato Angelo Barile, Camillo Sbarbaro ed Eugenio Montale a rendere la Liguria una forma poetica universale.

Per trattare, in ultimo, il tema riguardante la <Linea ligure> o <Ligustica> in Montale è stato affrontato in modo sistematico da Giorgio Caproni che introdurre nelle patrie lettere l’etichettà di <ligusticità>. Contro questa presunta <ligusticità> vi fu, nei primi anni ’60, una generale levata di scudi da parte di molti poeti dell’Ottocento che <contavano> da Barile a Lubrano e, in testa a tutti, Montale, il quale senza mezzi termini disse che <la linea ligure a cui <qualcuno> l’aveva ascritto era una pura e semplice invenzione <di letterati liguri>.

La linea ligure è stata inventata da letterati liguri ma ha trovato scarso credito fuori della Liguria. Esiste una poesia fatta da Liguri e alcune di esse hanno vaghe somiglianze tra loro. Ma liguri di nascita erano anche Pastonchi, Jahier ed altri che non hanno mai cantato la Liguria. Così troviamo scritto in un’ intervista di Minni Alzona in Sezioni Poeti e Narratori Liguri pubblicata Genova libro bianco, Genova, Sagep 1967. Le analisi di Montale furono in genere improntate alla <moderazione>, sostenendo che la questione della <linea ligure> della poesia avesse radici lontane, precisamente dalla prima uscita di <Ossi di seppia> nel 1925 per le edizioni Gobetti.

Ribadisco che Montale non amava essere intrappolato nella questione della ligusticità seppur insieme ad altri illustri <colleghi>. Proprio non lo sopportava. Giorgio Taffon in “Un ventennio di studi sui poeti liguri contemporanei. III Eugenio Montale e Angelo Barile” in Cultura e Scuola, aprile-giugno 1980, n.74 scriveva “Non mi sembra del tutto esatta la premessa che che io abbia in comune con Montale e Sbarbaro la stessa utilizzazione (brutta parola!) del paesaggio ligure. E’ un avvicinamento piuttosto generico e superficiale. Taffon ricordava  in proposito come Cattanei, nel 1966, avesse lanciato la proposta, che tuttavia non possedeva <un sufficiente spessore critico> d’inserire a pieno titolo nella linea ligustica anche Barile.

Tornando poi ad un’altra intervista di Minnie Alzona a Angelo Barile, pubblicata nel 1968, Taffon chiosava: “D’altronde lo stesso Barile si era dichiarato alquanto scettico riguardo alla stessa presenza della linea nella poesia italiana novecentesca; tale giudizio costituì l’argomento di un articolo di Minnie Alzona, pubblicato col titolo di “Angelo Barile nega che esista una una <linea ligure>”, in Gazzettino Veneto, 3 Maggio 1968. Ora la <negazione> di Barile dettata a  Alzona fu pubblicata nel 1968, ma era del 1967, essendo il poeta morto in quell’anno. Tutto ciò capitava proprio dopo un anno dall’inserzione <a pieno titolo> di Barile stesso nella linea ligustica, proposta dal volume di Giovanni Cattanei, pubblicato nel 1966. (Fiovanni Cattanei, La Liguria e la poesia italiana del Novecento, Milano Silva 1966  pp.239-241).

Va da sé che la <negazione > di Barile fa il passo con quella, altrettanto decisa di Montale. L’embrasson nous della critica italiana, ispirata da Caproni, provocò un raffreddamento dei rapporti tra  quest’ultimo ed il poeta degli <Ossi di seppia>. “E’ possibile, scrive Adele Dei, che tra le ragioni del totale silenzio di Montale su Caproni, pesante e certamente deliberato, ci sono stati proprio quegli articoli. Senza mai nominarlo, Montale risponderà anni dopo, in un’intervista, ricca di gelide affermazioni: “La linea ligure è stata inventata. Esiste una poesia, fatta da Liguri”. A stemperare un po’ l’atmosfera, verrebbe da dire che non è poi detto che dagli intenti critici di Caproni non fossero scaturiti risultati apprezzabili. In questo senso gli approfondimenti condotti sulla lingua dei poeti liguri hanno portato alla luce aspetti e relazioni prima <invisibili> e sicuramente con profitto.

Tuttavia, come sottolineò  a suo tempo Alberto Frattini: “I raggruppamenti per linee poetiche sono utili per un primo orientamento”, ma tale metodo richiede  un esame critico rigoroso anche se discutibile. Una prima difficoltà che si riscontra è quella  di ritrovare il <nesso regionale> tra la produzione dei poeti che non basta comunque ad evidenziare certe sostanziali affinità tra le singole poetiche, soprattutto quando è più vigorosa la personalità artistica che le produce. E un qualche ripensamento ci fu anche in Caproni, e probabilmente in forza della sollevazione di coloro che non accettavano la linea ligustica<per forza>. Caproni infatti confessò a Silvio Ramat nel 1966 che forse non era proprio il caso di prendere alla lettera la tesi fino ad un certo punto fondata d’una linea ligure o ligustica della poesia, allora da lui assunta per semplice comodità di un discorso che voleva rimanere soltanto descrittivo. L’anno successivo, nel 1967, Caproni, intervistato da Minnie Alzona, continuò a cospargersi il capo di cenere. Alla domanda dell’intervistatrice: “Ha qualcosa da obiettare alla sua appartenenza alla linea ligure che molto critici le riconoscono?”, Caproni confermò quanto aveva detto a Ramat:L’unica cosa che ho da obiettare è che non credo, criticamente parlando, a  una linea ligure”.

Questa excusatio tardiva non riuscì a riscaldare il cuore del <freddo> Montale. Caproni comunque pagò per tutti anche per Carlo Linati ed Emilio Cecchi che nel lontano 1925 fecero da battistrada alla contrastata <linea ligure> della poesia. Se abbandoniamo queste diatribe e valutiamo l’importanza che ha avuto la rivista “Circoli” di Adriano  Grande, prima bimestrale poi mensile, dobbiamo riconoscere che la Liguria fu terra molto fertile per la poesia del Novecento ed ha prodotto frutti apprezzati in tutto il mondo. Il periodico è uscito fino al 1939 per un numero complessivo di 57 fascicoli e fu diretto da Adriano Grande insieme con un comitato di redazione composto da Debenedetti, Montale, Sbarbaro, Solmi. Accolse, seguendo una linea che idealmente proseguiva quella della celebre rivista:<Riviera Ligure>, scritti dei principali autori italiani del tempo (Quasimodo, Saba, Penna, Sbarbaro, Pea, Barile, Comisso, Manzini, Gargiulo, Malaparte,Loria, Descalzo, Raimondi, Giotti, Solmi ed altri ancora), affiancando a loro prime versioni italiane di importanti lirici stranieri. Dunque Grande compì un piccolo capolavoro quando nel 1931 fondò a Genova la rivista Circoli, concepita da dal 1924 ed alla quale è legato indissolubilmente il suo nome. Il periodo ha avuto l’ambizione di emulare la fiorentina Solaria, con la quale ebbe in comune parecchi collaboratori e si propose come rivista di poesia, una circostanza di per sé inconsueta anche per quegli anni, spazio essenziale e privilegiato per il definitivo affermarsi dele voci emergenti della lirica italiana da U.Saba a G.Ungaretti, fino ad E.Montale  e S.Penna, L.De Libero, L.Sinisgalli, A Bertolucci. Pur segnata da un certo eclettismo della linea editoriale, Circoli fu piuttosto attenta alla ricezione della poesia straniera; nel 1932, per esempio vi venne pubblicato il poema <La terra desolata> di T.S. Eliot nella tradizione di M.Praz.

Nelle sua veste di direttore, Grande si impegnò soprattutto a dare equilibrio alle varie anime della rivista e nel far rispettare l’austero programma iniziale che faceva di Circoli, una rivista nata da pochi ed a pochi inizialmente diretta. Nel 1934 la rivista si trasferisce da Genova a Roma dove si forma un nuovo comitato direttivo, ulteriormente modificato nel 1935, quando Circoli diventa mensile e da rivista di poesia si tramuta in rivista di poesia, letteratura, critica, arte e  politica  e di cui fanno parte Agnino, Falqui, Gallian, Grande, Ungaretti. Proseguendo nella tradizione di altri periodici liguri come Espero e in parte Riviera Ligure, Circoli ritorna a rivolgere le proprie attenzioni quasi esclusivamente alla poesia, compresa quella moderna straniera. Il n.6 del 1933 è tutto dedicato alla moderna poesia nordamericana. La Liguria, sembra ombra di dubbio e di polemica, nella prima metà del 1900, diviene fulcro della cultura che valica i confini nazionali.

Gianfranco Barcella

NOTA A MARGINE

LA VITA DI CAMILLO SBARBARO – Camillo Sbarbaro nacque a Santa Margherita Ligure il 13 Gennaio 1888. Pubblicò nel 1911 il primo libretto di versi e collaborò in seguito, ma con poca frequenza, a riviste e periodici letterari(<Pagine Libere>,<La Riviera Ligure>, <La Voce>, <Lacerba>, <Primo Tempo>, <Circoli>, <Il Mondo> e fugacemente alla Terza Pagina della <Nazione> del <Lavoro>e della <Gazzetta del Popolo> Fu impiegato in un’industria siderurgica di Savona, poi all’Ilva di Genova dove si stabilì e dopo la parentesi della Prima Guerra Mondiale a cui partecipò come soldato di fanteria, ritornò a Genova dove visse insegnando il greco e latino, collezionando inoltre muschi e licheni. I suoi erbari si trocano in erbari e musei americani. Nel 1949 divise con Bruno Barilli il premio di poesia Saint-Vincent e nel 1956 con Jules Supervielle, il premio Etna-Taormina.  Nel 1962 vinse uno dei quattro premi Feltrinelli dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Dal 1951 abitò con la sorella a Spotorno, fino alla morte avvenuta a Savona il 31 Ottobre 1967 .

LA VITA DI ANGELO BARILE – Angelo Barile nacque ad Albisola Marina nel 1888 e compì gli studi a Genova dove si laureò in Giurisprudenza. Seguì a Torino un corso di Filologia Moderna e si occupò in seguito di studi letterari. In questo periodo pubblicò un importante saggio sul sentimento cosmico nella lirica del Pascoli. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale fu richiamato alle armi come sottotenente di fanteria e per ben due volte venne ferito. Collaborò con le riviste culturali <Solaria>,< Circoli><Letteratura>. Tra le opere poetiche ricordiamo: Primasera (Genova, Circoli, 1933), Quasi sereno(Neri Pozza, Venezia 1933), premio di poesia Cittadella).La poetica di Barile è fortemente influenzata da una visione profondamente religiosa della vita: egli accoglie nella realtà il dolore e la solitudine, come una preparazione per un aldilà felice ed eterno. Muore nell’amata Albisola nel 1967.


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G.F. Barcella

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