Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Pigna storica. Giacinto Bianchi parroco, prete scomodo incarcerato a Sanremo. Ben 40 giovani del paese abbracciarono la vita religiosa. La fondazione delle Figlie di Maria Missionarie


Giacinto Bianchi nasceva a Villa Pasquali in provincia di Mantova la festa dell’Assunta dell’anno 1835, figlio di Giovanni e di Paola, genitori poveri ma ricchi sopratutto della fede.

di Gian Luigi Bruzzone

Don Giacinto Bianchi per 7 anni parroco a Pigna (IM). È stato dichiarato venerabile da Benedetto XVI il 6 dicembre 2008.

Di salute cagionevole, Giacinto si rivelò sveglio d’intelligenza, sensibile, pronto sempre ad aiutare chi ne avesse bisogno. Curioso di conoscere, i genitori assecondarono la tendenza allo studio del figlio, facendogli frequentare il Ginnasio, da cui uscì con esito brillante per entrare nel Seminario di Cremona. I coniugi Bianchi, modesti agricoltori, cui nel frattempo erano nato altri quattro figli, credettero alla vocazione del primogenito, coronata con l’ordinazione sacerdotale ricevuta il 29 maggio 1858.

In quegli anni politicamente difficili, confluiti nell’invasione di Roma del 20 settembre 1870, il nostro giovane non si lasciò irretire dalle frasi fatte più o meno demagogiche e rispettose della verità della cricca liberal-massonica al potere, scaturito da consultazioni elettorali cui partecipavano neppure il 2 % degli italiani, ma ragionò con la propria testa.

Ad esempio, quella dell’unificazione italiana andrebbe studiata meglio, con un’epistemologia più onesta ed accurata, ad iniziare dalla terminologia adoperata. Così la frase fin troppo famosa «L’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani» dalla lingua piuttosto sciatta, lascia perplessi: in verità tutti gli abitanti dei piccoli stati della Penisola si sentivano italiani, nell’italica favella riconoscevano il loro veicolo comunicativo (più o meno ufficiale), nella religione cattolica la loro fede, nello stuolo di uomini grandi fioriti in ogni settore dell’umana attività ed in ogni regione i propri antenati, in molti episodi storici avvenuti in ogni terra italiana la propria unica storia.

E allora? Allora la frase fin troppo osannata, può interpretarsi così sulla bocca dei vincitori, se fossero stati onesti e corretti: «Qualcuno potrebbe affermare che abbiamo fatto l’Italia con strategie più o meno disinvolte, abbiamo eluso e messo a silenzio chi non la pensa come noi, abbiamo calpestato quel diritto alla libertà con cui ci siamo riempiti la bocca, abbiamo deriso i sentimenti più sacri della stragrande maggioranza della popolazione, l’abbiamo ridotta alla fame[1], abbiamo scritto la storia conforme alla nostra ideologia e adesso vogliamo che la massa – questo il termine adoperato dai tiranni di turno, a partire dai giacobini – sia educata come pretendiamo noi, così che ci obbedisca e si comporti come noi vogliamo. Noi ci troviamo ad un livello superiore, noi sappiamo quello che è bene per la massa, anche se non lo vuole».

Torniamo a Don Giacinto. Novello sacerdote, fu inviato dal suo Vescovo nella parrocchia di S. Matteo (poco lungi dal paese natio), poi a Cella Dati, a Castelponzone a Scandolara Ravara, sempre per brevi periodi. In quest’ultima sede, segnata da povertà materiale e spirituale, il Bianchi svolse un’intensa azione pastorale per malati, per famiglie in difficoltà, sopra tutto a beneficio dei giovani, seguito con entusiasmo dalla brava gente. Per le ragazze progettò una Casa di lavoro, inaugurata l’8 dicembre 1864, nella quale le ospiti si autogestivano, fornendosi reciproca assistenza con spirito di fraternità e non dovendo subire imposizioni di vario genere altrui, come non è difficile figurarci. Presto tuttavia la casa fu chiusa dalle autorità civili, succube degli anticlericali. Appare evidente che questa iniziativa in difesa delle giovani divenute indipendenti infastidiva i disonesti ed i settari.

La grottaCon il 1865 la vita di Don Giacinto conobbe una svolta. Recatosi a Genova per respirare un poco la salsedine marina, così da mitigare l’incipiente tubercolosi, conobbe Don Giuseppe Frassinetti (1804-68), fratello di S. Paola Frassinetti (1809-82), il quale intuì nel giovane confratello un sacerdote tutto d’un pezzo, del tutto disinteressato, teso in modo esclusivo al bene delle anime. Lo invitò e lo accolse nella canonica di S. Sabina. Così ricorderà anni dopo l’interessato: «Venni e vi stetti per quattro anni, amato, stimato in Genova senza mio merito. L’arcivescovo Charvaz mi accettò volentieri senza esami, Mgr. Magnasco m’incardinò in diocesi e mi staccò da Cremona, Mgr Reggio fece lo stesso a suo tempo. Andai fuori in propaganda, poi rimasi a Pigna sette anni parroco, ma sempre appartenni a Genova».

Il Venerabile Frassinetti morì fra le braccia di Don Bianchi il 2 gennaio 1868. Questa morte gettò Don Giacinto sulla strada: il nuovo parroco infatti licenziò i collaboratori precedenti. «Ma pur nella comprensibile preoccupazione per il suo futuro, D. Giacinto è consapevole di essere un senza patria, di appartenere solo al Signore e alla missione di annunciarlo nel mondo. A 33 anni, prete da un decennio, si trovava dover ricominciare, senza una prospettiva certa, senza un appoggio sicuro per continuare ad esercitare il proprio ministero. Tuttavia negli anni di S. Sabina molti hanno imparato a conoscerlo, sanno che è un ottimo predicatore ed è anche capace di ricondurre alla misericordia di Duo le persone che si presentano al suo confessionale» (V. Lessi, Da Betlem..., Cinisello, 2010, pp. 48-49). Il Parroco di S. Siro in Genova lo invita, forse desideroso di disporre di un collaboratore appassionato e … gratis! Vi rimane due anni.

Nel luglio del 1870 D. Giacinto entra nel noviziato dei Gesuiti nel Principato di Monaco, seguendo un antico desiderio di vita religiosa. Ma la Compagnia, pur apprezzandone lo zelo per le anime, constatando le precarie condizioni di salute, non lo ritiene adatto a sostenere la severità della regola. Grazie alla Compagnia peraltro aveva conosciuto il borgo di Pigna, antico insediamento alle spalle di Ventimiglia, dove lo aveva inviato in una missione.

I pignaschi rimasero sbalorditi ed entusiasti di questo sacerdote e palesarono al vescovo diocesano Mgr Lorenzo Battista Biale (fratello di quel Mgr Raffaele Biale, del quale uscì una monografia su “Trucioli”) di ambirlo. Mgr Lorenzo accondiscese, nominandolo reggente ed economo spirituale. Vi rimase sette anni, indimenticabili sia per il Nostro, sia per gli abitanti del borgo dell’alta Valle del Nervia.

Scrive Sr Antonietta (attuale madre generale della Congregazione fondata da Don Bianchi): «E’ facile appassionarsi a quel terreno fertile e ben disposto: sente che questa volta potrà vedere i frutti dei semi che con coraggio continua a gettare. Realisticamente riparte da quel poco che c’era: confraternite e associazioni destinate agli uomini, alle madri di famiglia, alle giovani, ai ragazzi.  Immette nuova linfa, dà una scossa a forme di appartenenza tradizionali che si stanno svuotando di senso e di energia […]. Da subito scommette tutto se stesso su quel bene prezioso e fragile che è la libertà delle persone. Decide di dedicarsi a formare e riformare le coscienze. La vera novità è la sua presenza, esempio fruibile di parole e pratiche cristiane che scuotono e destano attrattiva. Le verità affermate, le prospettive indicate sfondano le tacite convenienze e sovvertono il quieto vivere. Non pochi lo seguiranno, particolarmente le giovani […]. La Pia Unione fondata a Pigna – di cui fra poco – diveniva luogo di crescita e di confronto, di discernimento e di maturazione per intelligenze e sensibilità troppo spesso sottovalutate».

Si evince quale opera di promozione umana e di protagonismo femminile (concreto, ma non ostentato tuttavia) si devono alle congregazioni religiose, quantunque certa storiografia si ostini ad ignorare il fenomeno.

La grotta di N.S. di Lourdes

A livello materiale il Nostro restaurò l’amplissimo edificio della chiesa dedicata a S. Michele arcangelo, coinvolgendo l’intera popolazione: nuovo pavimento marmoreo, nuovo tetto, nuovo pulpito, nuovo battistero, nuove finestre. Come allora era di moda, costruì anche una grotta di N.S. di Lourdes, apparsa nel 1858. Così testimonia Maria Ughetto: «Invita buone persone a cedergli il terreno, e la popolazione a mettersi all’opera su per monti e dirupi a far e a cercar stalattiti, lui per primo, uomini e donne, grandi e piccioli: chi li faceva, chi li portava, tutti animati gli uni e gli altri. Mancava il muratore, cemento, calce, ma colle sue buone qualità e dolcezza egli arrivava a tutto. Per l’assistenza le Figlie di Maria dovevamo fare a turno a servire il muratore».

Ancor più trascinatore – come testé accennato – a livello spirituale. Nel settennio pignasco di Don Giacinto quaranta giovani abbracciarono la vita religiosa ed un mannello di giovani si avviò al sacerdozio. Chi persegue il bene è impossibile non incontri ostacoli e nemici. Qui si mostrarono anche più ringhiosi che a Scandolara, tanto da denunciarlo e da farlo imprigionare per dieci giorni nelle carceri di San Remo (aprile 1875): liberato, fu accolto dai pignaschi al suono della banda musicale! I carabinieri che con inganno lo avevano catturato furono puniti, per quanto la vicenda si concluderà soltanto nel 1880.

Così spiega la persecuzione Sr Pacifica, una delle prime figlie di Maria Missionarie: «Il demonio, invidioso del bene che faceva il sant’uomo, cercava d’impedirglielo e tessevagli insidie. Si servì di alcuni uomini cattivi, i quali non potendo soffrire che Don Bianchi pensasse di innalzare chiese, formare conventi e allontanare dai balli, dagli amori profani di tante giovani, l’accusarono ai tribunali e gli diedero infiniti dispiaceri». Insomma, Don Bianchi era un prete scomodo.

Veniamo all’evento più rilevante e foriero di conseguenze, già accennato. Cediamo la parola al protagonista: «Nell’anno 1875 in febbraio alcune figlie della Pia Unione di Maria Immacolata e S. Agnese della parrocchia di Pigna si unirono in una casetta del paese e diedero principio all’Istituto delle sorelle missionarie con l’intendimento di prepararsi alle missioni estere: e nell’anno seguente partirono per l’oriente, a prendersi cura delle faccende domestiche dell’orfanatrofio maschile Belloni di Betlemme e vi lavorarono per sedici anni. Tornate in patria ferme nel primo intendimento, sono ora sparse in otto paesi di tre diverse diocesi e si adoperano ad educare le figlie del popolo alla pratica delle virtù cristiane e ad insegnare cucito e ricamo…».

L’entusiasmo di Don Giacinto per la Terra Santa e per le missioni aveva contagiato uno stuolo di ragazze di Pigna; le prime ad entrare nella meschina stamberga, l’11 febbraio 1875 – data ufficiale di fondazione delle Figlie di Maria Missionarie – furono Giuseppina Lanteri, Margherita Garoscio, Anna Maria Ferrero, Maddalena Ferrero.

Don Bianchi era rimasto impressionato dalla richiesta di aiuto per l’orfanotrofio di Betlemme lanciata da Don Antonio Belloni (1831-1903), missionario ponentino. Detto e fatto: sei pignasche il 22 agosto 1876, lasciarono la montagna ligure e salparono da Genova per la Palestina. Eccone i nomi delle generose: Sr Fortunina Orengo (al secolo Caterina, ventiseienne), Sr Pacifica Garoscio, Sr Seconda Allavena, Sr Caterina Allavena soprannominata General Ambrosia, Sr Callista Lanteri, Sr Agnese Ughetto.

Vincenzo Bracco, nato 14 settembre 1835 a Torrazza- Imperia. Consacrato vescovo 13 marzo 1866 dal patriarca Giuseppe Valerga, loanese. Bracco è stato Vescovo titolare di Magido (1866-1873)
Vescovo ausiliare di Gerusalemme dei Latini (1866-1873).Vicario generale di Gerusalemme (1866-1873).Patriarca di Gerusalemme dei Latini (1873-1889)
Gran maestro dell’Ordine del Santo Sepolcro (1873-1889)

Le Figlie di Maria operarono in Betlemme dal 1876 al 1892 per un totale di quattordici, salpate in tre successive partenze. Esse lasciarono Betlemme per non rinunciare alla loro identità ossia al loro carisma, altrimenti sarebbero state conglobate in un’altra congregazione. Apprezzatissime dal patriarca latino di Gerusalemme Vincenzo Bracco (1835-89) nato a Torrazza (Imperia), ed elogiate da Leone XIII nell’udienza del 20 dicembre 1880.

Giacinto, mosso dall’incrollabile ideale missionario, nel 1889 diede alle stampe: Schema delle regole per l’istituto delle Figlie di Maria Missionarie, fondato su tre lustri di esperienza. Continuò a vivere quasi sempre a Genova, fece tutto con eroica umiltà per sostenere le sue figlie spirituali. Un aiuto, tale da considerarla quasi cofondatrice, venne da Sr Delfina Delfino (1836-97) arenzanese: «Maestra elementare e sua coetanea, conosciuta nel 1886 durante una predicazione ad Arenzano. Entrò nella casa di Pigna nell’agosto del 1890 e collaborò strettamente con lui per sostenere le missioni in Palestina e stabilire nuove comunità in Italia. Il suo coinvolgimento generoso e intelligente è documentato dai brani di oltre cento lettere» (così Sr Antonietta, con la consueta finezza).

Sr Delfina seguiva aspiranti e novizie, apriva quattro comunità e morì precocemente il 10 dicembre 1897. Don Giacinto rimase prostrato, sorretto soltanto nell’accettare la divina volontà.  Ma il governo di Sr Delfina, non potendosi per allora recarsi in missione, aveva ripreso l’altro ideale sbocciato a Pigna, di recarsi nelle borgate, fra il popolo delle campagne, per alleviarne la povertà umana e spirituale, tanto diffusa nella belle époque, e non soltanto allora. Annota Sr Antonietta: «Il metodo di Pigna è ancora fecondo, perché Giacinto non richiama a sé, non impone forme e modelli, ma si fida della libertà delle persone, alle quali propone ciò che lui vive: cedere alla grazia e alla carità. Non è il numero delle sue figlie che lo conforta, ma la loro fede, l’appartenenza gioiosa, libera e convinta che dimostrano, nella semplicità che non fa e non teme paragoni».

Parlando della dignità femminile Don Giacinto scriverà: «Le Sorelle missionarie debbono esercitare un’azione diretta sulle popolane, che educate, ingentilite, elevate dalle Sorelle missionarie, a loro volta educheranno, ingentiliranno, eleveranno. Ecco lo scopo santo: un apostolato veramente moderno e cristiano. Dio benedica le Figlie che disprezzando i pregiudizi e le critiche preparano realmente l’avvicinamento delle classi occupandosi con intelligenza e con amore delle fanciulle popolane» (Dignità e vocazione della donna, s.d.).

Giacinto muore l’11 febbraio 1914, il medesimo giorno nel quale era nato l’Istituto trentanove anni innanzi. È stato dichiarato venerabile da Benedetto XVI il 6 dicembre 2008.

Le Figlie di Maria Missionarie furono chiamate dai PP. Missionari di Roquefort in Provenza per il Santuario del S. Cuore, dal Vescovo di Nizza per il Seminario diocesano, dall’ospedale civile di Taggia, e in altre opere nelle diocesi di Ventimiglia, Genova, Reggio Emilia, Adria. Dal 1907 aprirono molte case in Sicilia: a Partanna un orfanotrofio femminile, a Mazzara del Vallo, a S. Ninfa, a S. Margherita del Belice, a Castelvetrano, a Vita, a Montevago, tanto da aprire un noviziato per le postulanti sicule nel 1911.

Oggi le Figlie nate nel fascinoso borgo di Pigna svolgono il loro apostolato in Italia, in Africa (Repubblica centrafricana, Costa d’Avorio) in Brasile dal 1952 ed in Ecuador. Non sono numerose, ma vale la qualità non la quantità (non omnia, sed bona et bene) – come appunto auspicava il Fondatore – e come Don Giacinto fu eccezionale vagabondo per la carità e sotto certi aspetti disarmante, così lo sono anche le Figlie.

Non ci allontaneremo dal vero se pensiamo che fra i tre voti emessi dai religiosi – povertà, castità, obbedienza – quello più impegnativo deve risultare il terzo. Ma in un’atmosfera di carità essa è accetta ed anzi consolante, poiché sa che i superiori desiderano sopra tutto orientare, stimolare, consolare, s’intende senza rinunciare al preciso dovere di correggere, se necessario. «Allora l’obbedienza diventa una virtù liberatrice, non un peso insopportabile, e neppure uno strumento per ottenere degli esseri infantili, incerti, insicuri, incapaci di assumersi precise responsabilità. La vostra sia una società in cui si obbedisce senza dipendere e si governa senza comandare. Questa è una massima lapidaria di D. Bianchi» Così un noto scrittore dallo stile disinvolto (A. Pronzato, Prete con mondo a carico, Torino, 1975, p. 196).

Gian Luigi Bruzzone


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