Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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“Da Spoon River: nove interpretazioni di Fabrizio De André”. Quando il presidente…


Dedico questo mia sintesi a Dori Ghezzi. Quando il Presidente di A COMPAGNA Franco Bampi mi chiese il titolo, dico la verità, ero sul punto di dirgli carduccianamente “Degli spiriti e delle forme nella poesia di Fabrizio De André“, ma scelsi poi quello che leggete qui: “Da Spoon River: nove interpretazioni di Fabrizio De André” ovvero “Radici spoonriveriane nel poeta genovese“. *In questa prima diapositiva si vede un Fabrizio De André ispirato (perdonatemi, se non userò mai “Faber”, nickname asettico, almeno per me) e che guarda lontano, verso l’alto, forse verso quel “mondo utopistico” – e lo vedremo – descritto o sognato, anche da Masters in “Dippold the Optician“, “Un Ottico” per De André.

Sotto il titolo appaiono due artistiche illustrazioni secondo l’interpretazione di mia figlia Beatrice: il cimitero sulla collina dove “dormono” (ovvero riposano in una pace tutta apparente e fittizia, solo pochi sono in pace con sé stessi e con il mondo) dove dormono i morti del villaggio immaginario di “Spoon River“: in realtà i villaggi dove visse l’autore erano prima Petersburg vicino al fiume Sangamon, poi Lewistown vicino al fiume Spoon: facile arguire che il villaggio di Spoon River è una bella e felice invenzione del poeta Masters, ma che, per ovvie ragioni di riconoscimento – giacché spesso i morti sono più eloquenti dei vivi – proprio i vivi dei due villaggi se la presero col poeta per i dati e i tratti identificativi in forza dei quali, nei vari epitaffi, non pochi abitanti dei due villaggi reali s’erano riconosciuti ed erano stati smascherati nelle loro piccinerie litigiose.

> a lato sono raffigurate tre lapidi: > una dedicata a Johnnie Sayer, il ragazzino che marinava la scuola per viaggiare treno, perse una gamba e morì: chiede perdono al padre per averlo ingannato e lo ringrazia per aver fatto incidere nella lapide: “Taken from the evil to come” (Sottratto al male della sorte futura); > delle altre due – il malato di cuore e l’ottico – dirà De André.

**Edgar Lee Masters aveva ereditato l’interesse per la letteratura e la poesia dalla mamma, ma dovette sottostare alla volontà del padre avvocato, studiare legge e fare anch’egli l’avvocato. Non abbandonò mai, tuttavia, il suo amore per la poesia, in particolare per la poesia sepolcrale ad es. dell'”Elegy written in a country churchyard” (Elegia scritta in un cimitero di campagna) di Thomas Gray e, non appena fu pubblicata in America l'”Antologia Palatina“, la acquistò e la lesse su suggerimento dell’avvocato-scrittore William Marion Reedy direttore della rivista letteraria Reedy’s Mirror alla quale collaboravano noti letterati e poeti americani. Masters subì il fascino di quest’opera composta da una cinquantina di autori a Bisanzio nel X secolo. La raccolta di quasi quattromila epitaffi era stata scoperta a Heidelberg dallo studioso Claude Saumaise agli inizi del 1600 e senz’altro offrì lo spunto a Masters che scrisse i primi testi che Reedy pubblicò, con lo pseudonimo di Webster Ford, sulla sua rivista suscitando scalpore e apprezzamenti. Vi propongo un epitaffio dal libro VII dell'”Antologia Palatina” particolarmente toccante. (leggerlo: cfr. power point).

**Nel 1915 Masters pubblicò 212 epitaffi; l’anno dopo, nel 1916, la completò con altri 32 e uscì “Spoon River Anthology” con 244 epitaffi. Negli anni ’30 del secolo scorso l’Antologia fu pubblicata in Francia e nel 1943, come vedremo, in Italia. Nel 2013 è uscita la mia traduzione integrale con testo inglese a fronte qui a Genova pubblicata da “liberodiscrivere Edizioni”. Nella diapositiva, in basso a sinistra, appare l’americanista Barbara Lanati dell’Università di Torino che così ha sintetizzato il suo pensiero: “L’Antologia è un unico poema-collage costruito con i frammenti delle voci delle anime di Spoon River“. Da ricordare che, tradotta dagli esperti Umberto Capra e Attilia Lavagno, Barbara Lanati ha curato un’ampia introduzione alla “New Spoon River Anthology” uscita poco meno d’una decina d’anni dopo, nel 1924, e allora ritenuta una ripetizione di valore inferiore, ma da lei ritenuta superiore all’edizione del 1916. Sulla destra si vedono due delle suggestive foto dei reali luoghi mastersiani scattate dallo scrittore-fotografo italo-americano William Willinghton che le ha raccolte in un bel libro arricchito da commenti proprio di Fernanda Pivano, della quale dirò in seguito.

**All’apparizione dell'”Antologia di Spoon River
si gridò “
È apparso un nuovo Whitman!”, il famoso autore di “Leaves of Grass“; Ezra Pound affermò: “At last, at last we have a poet!” e ribadì con convinzione “Habemus novum et magnum poetam!”, ma anni dopo lo tacciò di “lee-masterism” da intendersi come noiosa e monotona ripetizione; in Italia Cesare Pavese scrisse: “Tutto è vigorosamente vivo, materiato, attuale, in una parola, tutto è poesia“, ma anche Pavese anni dopo espresse un giudizio diverso e trovò che “la natura irresistibilmente puritana, moraleggiante e predicatrice dell’autore arriva così a far qualche volta di una epigrafe un nebuloso pistolotto astratto“. In Italia una voce critica non in linea fu quella dell’anglista Mario Praz (1896-1982), che riteneva sproporzionato il grande successo di critica e di pubblico; come aveva già affermato la poetessa americana Amy Lowell (1874-1925), anche Praz affermò che “Lee Masters resta l’uomo d’un libro, d’un tono, d’una data...” e che “la sua poesia si allinea coi motivi di canzoni popolari...”. In realtà delle molte opere (oltre cinquanta!) scritte da Masters è questa l’unica che si ricorda e che è ancora in auge.

**Fernanda Pivano, da giovanissima studentessa al Liceo Classico D’Azeglio di Torino, compagna di classe, tra gli altri, dello scrittore Primo Levi e del critico musicale Massimo Mila, ebbe Cesare Pavese come professore supplente di Italiano. Ne nacque un’amicizia lunga e duratura che sfociò anche in ripetute richieste di matrimonio, sempre rifiutate dalla Pivano. (Per inciso, ricordo anche che tanto la Pivano quanto Levi furono rimandati in Italiano all’esame di maturità perché nel loro tema si erano espressi contro la guerra e a favore della pace). Iscrittasi alla Facoltà di Lettere, le fu assegnata una tesi sul poeta romantico inglese Percy Bisshe Shelley e lei lo comunicò all’amico professore, che la invitò a lasciar perdere e a dedicarsi alla Letteratura Americana. Per convincerla il
giorno
successivo le allungò quattro libri (cfr. power point), tra i quali la “Spoon River Anthology” di Edgar Lee Masters.

**Fernanda Pivano nel 1940 si diploma in pianoforte, nel 1941 si laurea in Lettere con una tesi su Moby Dick e nel 1943 si laurea in Filosofia con il filosofo Nicola Abbagnano (1901-1990) di cui diviene assistente. Sempre nel 1943, convinta da Pavese, esce per Einaudi quella che è considerata la prima traduzione non completa dell’Antologia che lei teneva nei cassetti della sua scrivania e che proprio Pavese scoprì entusiasmandosi per la freschezza e l’immediatezza, la musicalità e la profondità della lingua. Le opere, per essere pubblicate, dovevano ottenere l’approvazione della Censura del tempo. E, raccontò Pavese, allora responsabile delle edizioni Einaudi, che ottenne il “Nulla Osta” soltanto perché l’opera fu creduta la biografia di un santo, peraltro sconosciuto, tale “S. River“.

**Fernanda Pivano, che incontrai dopo aver recensito il suo romanzo “Cos’è più la virtù” e con la quale scambiai un paio di lunghe telefonate nelle quali la informai d’aver intrapreso la traduzione completa dell’Antologia, mi diede del “folle“, ma si dimostrò comprensiva e molto alla mano; mi pregò solo di evitare gli evidenti plagi e le palesi copiature presenti in molte traduzioni e di eliminare quelle sviste che lei ammise di aver compiuto per aver affrontato la traduzione in età giovanile. Comunque, anche per merito della sua bellissima traduzione (nella quale senz’altro – io la penso così – mise mano anche Pavese!), riscosse in Italia grande successo specie di pubblico e fra i giovani. Fra questi il diciottenne Fabrizio De André che, come tanti suoi coetanei, la lesse e ne restò affascinato: per “l’innovazione metrica e linguistica” e per “l’immediatezza dei contenuti” alcuni dei quali diverranno motivatamente (e lo vedremo) suoi temi letterari e musicali.

**Certamente tra voi c’è chi ricorda che nel 1997, il sindaco di allora, un tempo pretore d’assalto e poi giudice, Adriano Sansa, in un Carlo Felice al completo attribuì a Fernanda Pivano, in occasione dei suoi 80 anni, l’onorificenza della “cittadinanza onoraria” per il suo impegno in campo letterario e per le sue numerose opere: saggi e traduzioni. Sul palco, a rievocare l’impegno di Fernanda Pivano, insieme al sindaco Adriano Sansa e a Walter Veltroni, c’era Massimo Bacigalupo, americanista della nostra Università, il quale, a proposito dell'”Antologia di Spoon River“, scriveva sul Secolo XIX: “In Italia si è celebrato due volte il centenario – 2015 e 2016 – ma oggi sono pochi gli Americani che ricordano l’autore di poesia del ‘900 più amato dagli Italiani.” E mai libro di poesia ebbe così grande diffusione da raggiungere e superare il milione di copie. L’anglista Viola Papetti considera l'”Antologia di Spoon River” il libro di poesia più letto al mondo.

**Ma, senza tralasciare contenuti e autori appresi a scuola, che furono ad es. Cecco Angiolieri e Dante Alighieri il cui sapore è qui e là percepibile, l'”Antologia di Spoon River” non fu l’unica fonte di ispirazione di Fabrizio De André. Lui frequentò il Liceo Colombo e – così si dice – evitò di frequentare il Liceo D’Oria per non confrontarsi con il bravissimo fratello Mauro, avvocato, scomparso dieci anni prima di lui. Ma torniamo alle fonti: non dico dell’amico e collaboratore Paolo Villaggio, né di Brassens, Cohen, country western e musica jazz, né di chi addirittura lo considera “scopiazzatore” di parole e musiche, > ricordo invece l’errabondo poeta francese François Villon, laureatosi in lettere a 21 anni, omicida, carcerato, condannato all’impiccagione, del quale dall’età di 31 anni in poi non si sa più nulla: era visceralmente legato a Parigi, la sua città natale (così come De André, che era nato a Pegli, si sentirà visceralmente legato alla sua Genova); è l’autore della famosa “Ballata degli Impiccati” (in realtà il titolo è “Epitaffio di Villon“) il cui primo famoso verso recita “Fratelli umani che dopo di noi vivrete” e l’ultimo ripetuto: “Pregate Dio che voglia assolverci“; la ballata, in chiave tragica contro la pena di morte, sarà ripresa anche da De André: ma si differenzia da quella di Villon perché i suoi impiccati non intendono chiedere perdono. > Tra le sue fonti non si può tralasciare il poeta, saggista e pittore, morto quasi centenario, Remo Abelardo Borzini (1906-2005), che era anche un inarrestabile promotore culturale (ed io stesso fui coinvolto in varie sue colte iniziative); scrisse molta poesia e molta prosa e opere quali “Il Malamore” o “Osterie genovesi ovvero I tabernacoli dell’onesto peccato” che svelano il cuore del cuore d’una Genova che non c’è più, ne descrivono la vita e i personaggi emarginati dei vicoli del centro storico che diventeranno protagonisti anche delle canzoni di De André. Borzini e De André si conobbero e divennero amici nel 1954: lui quasi cinquantenne (era nato nel 1906). Fabrizio, nato nel 1940, appena quattordicenne: i due furono uniti dall’amore sviscerato per il centro storico della loro Genova e delle notti nei carruggi, delle “ribotte” nelle osterie; quei carruggi erano per Borzini “non strade, ma appunti fossili di storia“. > E non posso non dire di Riccardo Mannerini (1927-1980), anarchico, “poeta pieno di rabbia” e paroliere di particolare violenza espressiva, col quale De André strinse amicizia a 19 anni, nel 1959: “mi insegnò a pensare“. Mannerini probabilmente gli fece conoscere “Spoon River Anthology” portata dagli Stati Uniti in copia originale. L’amicizia con Mannerini che, prima di trasferirsi alla Foce, abitava in una sorta di “basso” in Stradone Sant’Agostino dove i due incontravano e discutevano all’infinito, si interruppe bruscamente nel 1969 senza più riprendersi, nonostante i continui tentativi di Rita Serando, scrittrice e poetessa scomparsa nel 2008, moglie di Riccardo e madre di Ugo, che ho avuto il grande piacere di conoscere. Riccardo Mannerini aveva interrotto gli studi di Medicina e s’era messo a girare il mondo: da frigorista – chi dice su una nave da crociera, chi dice una bananiera dei Costa – fu colpito da vapori ustionanti che lo resero quasi cieco. È autore di testi realistici, crudi e spietati come “Eroina” da cui leggo alcuni versi: … “Sono sospeso a un filo7che non esiste/e vivo la mia morte/come un anticipo terribile”… o come “Il cantico dei drogati” in cui si esprime così: … “E soprattutto chi/e perché mi ha messo al mondo/dove vivo la mia morte/con un anticipo tremendo?/Come potrò dire a mia madre/che ho paura?” (Mannerini morirà suicida nel 1980). Anche da queste brevi letture si comprende che – come “paroliere“, “poeta pieno di rabbia” e “poeta cieco dell’anarchia” – seppe trasmettere tanto a De André.

**Fu la bellissima traduzione dell'”Antologia di Spoon
River” – (Puny gliene aveva regalato una copia in edizione economica nel 1970) – che provocò l’esplosivo incontro fra Fernanda Pivano e Fabrizio De André, tutti e due genovesi, tutti e due carichi di profonda umanità. L’amicizia fra loro e l’affinità di pensiero li portò ad una intensa collaborazione, a lavorare insieme sulle parole e sullo stile: “falegname di parole” suggerisce per lui Luigi Viva. Entrambi, d’animo anarchico in chiave libertaria, erano contro la guerra e la violenza, contro l’intolleranza e la sopraffazione, contro i pregiudizi e lo sfruttamento; entrambi erano a favore della pace e della solidarietà, a favore della convivenza e della tolleranza, a favore dell’uguaglianza e del rispetto reciproco. Fu in quella circostanza che la Pivano definì De André non solo poeta, ma (forse con un po’ di benevola esagerazione) il più grande poeta del Novecento.

**E sono soltanto “nove” su 244 i testi dell'”Antologia di Spoon River” scelti molto accuratamente e opportunamente selezionati da De André anche, e non solo, con una particolare angolatura a fine altamente sociale, per non dire sociologico. Da quei testi De André prese per così dire spunti e raccolse temi per quel suo essere e sentirsi “dolce anarchico” o “anarchico buono” e per taluni risvolti autobiografici che vi percepì e che hanno per bersaglio primario quella “buona borghesia” di cui lui, facendone parte, conosceva bene ambiguità e ipocrisie, difetti e limiti, proprio come in Edgar Lee Masters il bersaglio primario era stata la “piccola borghesia” del Middle West, più precisamente nell’Illinois, attraverso le voci dei morti che possono esprimersi in totale sincerità perché non hanno più nulla da perdere. De André volutamente non colse né diede peso alla valenza sepolcrale quanto piuttosto al messaggio
universale in essi contenuto: proprio per questo, fatta eccezione per quelli simbolici ricordati nella “Collina“, i suoi personaggi non hanno nome. Desumendoli dai nove testi scelti dell’Antologia,
diede il via a quel procedimento ch’io ritengo complesso e lineare allo stesso tempo: De André parte, cioè, dalle parole
degli epitaffi di Masters incise nelle lapidi, ne coglie lo spirito come significato del messaggio che intende trasmettere, lo trasforma in poesia e infine, anche con l’aiuto di raffinati musicisti tra i quali un giovanissimo Piovani, rende il tutto cantabile. De André si concentrò principalmente su alcuni temi che gli stavano particolarmente a cuore e che a me, non paia esagerato, suonano – come accennerò – di indole alquanto dantesca: le reminiscenze scolastiche riaffiorano e sono presenti nei versi e nelle parole di Fabrizio De André più di quanto solitamente si ritenga; sono quelle reminiscenze da lui naturalmente assimilate e fatte proprie, non quelle a lui imposte e rimaste da lui avulse. E non bisogna dimenticarlo che nello sfondo, qualunque sia il personaggio e qualunque sia il tema trattato, c’è sempre Genova con i suoi carruggi, con il centro storico e la gente di ogni strato sociale che Fabrizio conosceva e incontrava nelle sue scorribande, soprattutto notturne. E per comprendere bene i personaggi da lui descritti e cantati, dal mio punto di vista, vanno intesi sempre con questa sfumatura di genovesità e di valenza autobiografica.

**La collina (The Hill) – Il suonatore Jones (Fiddler Jones) > Ed ecco
i tre temi di sapore dantesco (più da Inferno che da Purgatorio e Paradiso) che De André affronta nei nove
testi tratti dall’Antologia di Spoon River: anarchia”, invidia”, scienza”. Tanto nell’autore americano quanto in De André il tema dell'”anarchia
(o del modo e del senso libertari di vivere, percepire e concepire la vita con “ricordi tanti/e nemmeno un rimpianto” come dice De André) fa la sua apparizione nella parte finale di “The Hill“/”La collina” e in “Fiddler Jones”/”Il suonatore Jones” come figura a sé stante, al quale, come a De André “suonare ti tocca/per tutta la vita, e ti piace lasciarti ascoltare“. La personificazione dell’anarchia
per De André è proprio “il suonatore Jones“: la Pivano aveva correttamente tradotto “lo strimpellatore Jones” e Pavese corresse in un più consono “il suonatore Jones“: De André fece propria la versione di Pavese. Dei due testi, il primo, La collina, io lo considero e l’ho definito una sorta di “epitaffio narrativo e collettivo“, quasi l’introduzione all’intera “Antologia” vera e propria. In essa, nel finale, si anticipa il ritratto di quel “ribelle-anarchico e sfrontato” che appare in seguito nell’epitaffio singolo e tutto dedicato a lui. Ed è bene che lo si sappia subito che è altresì da tener presente che nello specifico il termine “fiddler” suggerisce per così dire, in un solo termine, il duplice mestiere e la duplice connotazione di “violinista ambulante” e di “imbroglione“, arricchendo di molto, a mio parere, i connotati anarchici e lo spirito libertario del personaggio in questione, così marcatamente ripreso e dantescamente delineato nel testo di De André (Quanto dell’Inferno doveva avere in testa De André… se anche, a suo tempo, Giorgio Gaber l’accusò di essersi fermato a Dante!… che secondo me è, pur sempre, un elogio). Jones, pur nonagenario, sfida gli elementi della natura scatenati: e se in Dante, “Farinata“: “...s’ergea col petto e con la fronte/com’avesse l’inferno in gran dispitto” (Inf. X, 35-36); in De André “il suonatore Jones” con la stessa veemenza s’erge col petto e con la fronte com’avesse l’inferno – qui da intendersi l’intero universo – in gran dispitto: a tal punto che non “un“, ma “il” suo modo d’essere e di vivere – Non al denaro, non all’amore né al cielo – diventerà titolo-slogan dell’album di Fabrizio. Quella del “suonatore Jones” è una forma di anarchia fortemente intesa nel senso di “ribellione” e di dantesca ricerca di “libertà” individuale come ripete De André: “Libertà l’ho vista dormire…” “Libertà l’ho vista svegliarsi…”; è una libertà totale, senza norme da seguire e che prescinde da ogni forma di imposizioni: libertà va cercando ch’è sì cara,/come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I, 71-72). E certamente, qui, non si può non pensare a Catone l’Uticense, al quale i versi si riferiscono; ma, se pure in misura e tonalità diverse, anche ai cari amici Luigi Tenco e Riccardo Mannerini. Soprattutto, però, per De André, è da intendersi libertà come sfida all’insulsaggine e all’ovvietà di certe regole dalle quali derivano comportamenti imposti e assuefazioni insulse cui tutti, volenti o nolenti, dobbiamo sottostare. E, per l'”anarchico buono” De André, vuol dire perseguimento totale della libertà interiore e personale, intesa principalmente come lotta al conformismo e che porta ognuno a ribellarsi ad ogni ordine assoluto e si presenta infine come ribellione ad ogni forma di violenza, ad ogni regola irrazionalmente imposta e quindi da non accettare né subire. Quelli espressi da De André sono tutti modi d’essere e posizioni mentali che si ritrovano nel comportamento degli uomini e ne costituiscono una costante, ma, da sensibile e acuto poeta qual era (e quale deve essere oggi considerato), De André li volle cogliere nell'”Antologia” di Masters e per questo rilesse i testi mastersiani “a suo modo” e, come già detto, non senza stimoli di natura e di sapore anche autobiografici, li adattò a contesti per così dire universali e perenni. Ma forse, oggi, tanti suoi messaggi e la sua forza del dire e del cantare rischiamo di ridurli a qualcosa di stereotipato; si pensi a versi come: “dai diamanti non nasce niente,/dal letame nascono i fior” che spesso ripetiamo a vuoto, citiamo ad ogni piè sospinto e di cui ci riempiamo la bocca… ma se mai si chiedesse di rinunciare ai diamanti per il letame, non so in quanti saremmo disposti ad accettare tale scelta. Non voglio qui essere lo scoliasta così odioso a Montale, mi limiterò pertanto ad esaminare con brevi notazioni e raffronti i contenuti del famoso album uscito (volevo dire “esploso“) nel 1971. A questo proposito vediamo un brevissimo confronto a tre, a dimostrazione che, a parte l’intraducibilità di alcuni modi di dire e di pensare (“singolarità di ogni lingua” come affermava Goethe), le finalità dei traduttori sono visibilmente differenti, anche se, come sostiene il noto critico genovese Stefano Verdino chiosando la mia traduzione integrale dell'”Antologia di Spoon River“: “Probabilmente più un libro viene tradotto e ritradotto più viene posseduto dalla lingua che lo riceve“.
In Masters, nell’originale “The Hill“, la conclusione dei versi recita così:*Where is Old Fiddler Jones/Who played with life all his ninety years,/Braving the sleet with bared breast, (E/A)/Drinking, rioting, thinking neither of wife nor kin,/“Nor gold, nor love, nor heaven”. >Interpretati come segue dalla Pivano: *Dov’è quel vecchio suonatore Jones/che giocò con la vita per tutti i novant’anni,/fronteggiando il nevischio a petto nudo, (E)/bevendo, facendo chiasso,/non pensando né a moglie né a parenti,/“Né al denaro, né all’amore, né al cielo”. >Interpretati dal sottoscritto nel modo seguente teso più prosaicamente a chiarire il senso e ad approfondirlo:*E dov’è mai il decrepito Jones, violinista ambulante e imbroglione,/Che si misurò colla vita nel corso dei suoi novant’anni,/Sfidando la grandine a torso nudo, (A)/Ubriacandosi, cercando rogne,/Non curandosi né di sua moglie né dei suoi familiari,/“Né dei quattrini, né dell’amore, né dell’aldilà”. >Ebbene, liberandosi del testo letterale ma restando rispettoso nello spirito tanto al testo quanto al contenuto originale, De André va oltre le due predette traduzioni, della Pivano e la mia: più poeticamente e in modo davvero superbo si esprime così non inseguendo il senso letterale (non lo farà mai), ma cogliendo il senso più autentico e più profondo del suo animo anarchico e libertario: *Dov’è Jones il suonatore/che fu sorpreso dai suoi novant’anni/e con la vita avrebbe ancora giocato./Lui che offrì la faccia al vento, /la gola al vino e mai un pensiero/“non al denaro, non all’amore né al cielo”. Concludendo su “La collina” c’è da dire che la resa fatta da De André è più secca, cruda e immediata, senza fronzoli e senza facili contorni: conserva tutto un suo fascino straziante e dolorosissimo, con lampi traduttivi poeticamente geniali, e che non hanno avuto gli altri traduttori: né la Pivano, né il sottoscritto. De André si sofferma anche sulle figure femminili con strazio e partecipazione, come farà sempre: si pensi, solo per fare due esempi, a Marinella o a Bocca di rosa; e si noti come per il suonatore Jones tralasci “le corse a cavallo“, tralasci “il discorso di Lincoln a Springfield“; mentre “le mangiate di pesce” diventano, con un tocco in più di comportamento anarchico e libertario, “porcate/mangiate in strada nelle ore sbagliate“. C’è da aggiungere che, indubbiamente, De André, nei suoi versi, nella scrupolosa scelta e nel lavorìo indefesso sulle parole, nella piena adesione al messaggio ha sempre tenuto conto – non smetterò mai di dirlo – degli obblighi ritmico-musicali e di melodiosa cantabilità.

**Il secondo tema è quello dell’invidiache è simbolicamente personificata in quattro personaggi volutamente anonimi perché emblematici e a favore di una visione universale per categorie: e così Frank Drummer che voleva imparare a memoria tutta l’Enciclopedia Britannica per esprimere ciò che aveva dentro diventa Un matto che cerca di imparare la Treccani; Judge Selah Lively diventa Un giudice che – dice De André – “nelle notti insonni al lume del rancore” prepara la sua vendetta; Wendell P. Bloydcacciato in prigione e ammazzato di botte in Masters “da un secondino cattolico” diventa in De André Un blasfemoucciso da “due guardie bigotte“; “Francis
Turner
” che fin da ragazzo non può correre come gli altri diventa Un malato di cuoreche morirà dopo un bacio: è evidente che i quattro stanno per tutti i matti, tutti i giudici, tutti i blasfemi, tutti i cardiopatici. De André condanna tutte le forme di invidia che considera “il peggiore dei vizi umani” in quanto vizio che non solo dà origine a tanti pregiudizi (e i quattro sono vittime di gravissimi, ingiusti e insopportabili pregiudizi), ma induce soprattutto chi nutre dentro di sé invidia a struggersi nel vedere i beni o il benessere degli altri e a dolersi quando gli altri sembrano appagati del loro stato. E proprio per quanto concerne in particolare il vizio dell'”invidia“, Dante, nel XIV canto del Purgatorio, ne dà – fatta propria fino in fondo da Fabrizio De André – la perfetta definizione là dove fa dire a Guido del Duca: Fu ‘l sangue mio d’invidia sì riarso/che se veduto avesse uom farsi lieto,/visto m’avresti di livore arso.” (Purg. XIV, 82-84).*Un matto > Sostiene De Andrè che è l’invidia (conscia o inconscia) che porta a condannare gli altri per il loro comportamento o per le loro idee: nessun uomo va mai rinchiuso per il suo comportamento o per le sue idee. Un matto, con un mondo nel cuore che non sa esprimere a parole, è stupidamente vittima di un’insulsa invidia e ingiustamente preso per scemo dall’intero villaggio; e chi lo piange “bisbiglia con la stessa ironia/una morte pietosa lo strappò alla pazzìa“. *C’è da aggiungere che “lo scemo del villaggio” a De André offrirà lo spunto per dilungarsi in questa complessa ballata in un tema che anticipava le discussioni sui manicomi e sulla Legge Basaglia, nota come Legge 180 del 1978: trattare i malati di mente come persone, senza costrizioni e senza ironìa.*Un giudice > L’invidia qui si fa violento sarcasmo bidirezionale: prima di lui basso verso chi è alto, poi viceversa. Infatti, a causa della sua statura di appena “un metro e mezzo“, è soggetto a subire “le battute della gente/o la curiosità/di una ragazza irriverente“; ma egli, per rifarsi, prima da procuratore, poi da giudice consuma la sua vendetta fino in fondo, diventa “arbitro in terra del bene e del male” e amministra le leggi ad personam e solo per prendersi le sue meschine, inidiose rivincite e non – come auspicava De André – per mettere in atto una giustizia vera, paritariamente e democraticamente a vantaggio di tutti. *Un blasfemo > De André prende dall’Antologia di Spoon River un uomo che afferma che Dio ha ingannato Adamo e nel villaggio gli invidiosi perbenisti lo condannano e, per le sue idee contrarie alle loro lo gettano in prigione dove morirà “a forza di botte“. De André si immedesima in questa figura perché anche lui a volte è stato vittima dell’invidia dei perbenisti per certe sue posizioni e per certe idee espresse nelle sue canzoni. *Un malato di cuore > Diciamo che in lui che, da ragazzo cardiopatico, spiava gli altri ragazzi che potevano giocare l’invidia mi pare più che giustificabile. Nel cimitero di Spoon River si dichiara, uno dei pochi, “rasserenato e in pace” perché ha potuto gustare l’amore che però “rimase un fiore non colto“, anche se il suo povero cuore malato non resse: “Kissing her with my soul upon my lips/It suddennly took flight“: >reso magnificamente da De André: “ma che la baciai, per dio, lo ricordo/e il mio cuore le restò sulle labbra“. >Resi dalla Pivano in maniera fortemente poetica: “mentre la baciavo con l’anima sulle labbra/l’anima d’improvviso mi fuggì“. La giovanissima Pivano racconta che, aperta a caso l’Antologia di Spoon River che le aveva dato Pavese, le capitarono per primi questi due versi; se ne innamorò al punto che decise di tradurla tutta… ovviamente con l’assistenza di Pavese. *E così come in Masters, anche in De André emerge il tema della scienza” in tre testi: “Dr Siegfried Iseman”, “Trainor, the Druggist”, “Dippold, the Optician”. Una volta in più, nel poeta genovese i nomi specifici si perdono, quasi si nullificano e, visti da De André senza nome, i personaggi assurgono ancora una volta a simbolo universale di categorie, diventando Un medico“, “Un chimico“, “Un ottico. Quella cantata e criticata da De André è una scienza percepita al negativo e in negativo, quindi totalmente dannosa perché mira primariamente non al disinteressato vantaggio dell’uomo, bensì all’interessato profitto (come non pensare alle multinazionali dei farmaci, o alle costosissime visite specialistiche, e ad altro ancora?); ed è una scienza quanto mai ambigua perché tesa solamente allo sfruttamento dell’uomo più che, operando a fin di bene, posta al servizio dell’uomo e finalizzata al suo benessere. Ma chi si comporta con finalità perverse o idealistiche, fallisce allo stesso modo e nella stessa misura: e per questo possiamo ritenere che, in Masters, per ragioni differenti falliscano il medico, il chimico e l’ottico.
Da De André la “scienza” è percepita anche nei suoi terribili effetti negativi e nei suoi aspetti di negatività e, in ispecie, di inappropriata superiorità e di manipolazione delle conoscenze che portano alla sopraffazione e allo sfruttamento altrui da parte dei detentori… i cosiddetti “baroni”, tutt’oggi presenti in tanti, in troppi settori! Per De André la “scienza” ha da essere intesa nel significato etimologico e primario di “conoscenza” e nei plurimi tentativi di avvicinamento razionale ad essa a tutto vantaggio – gratuitamente – degli altri. Ci viene incontro ancora Dante quando afferma: “Considerate la vostra semenza:/fatti non foste a viver combe bruti,/ma per seguir virtute e canoscenza” (Inf. XXVI, 118-120). Quindi, per De André, “scienza” è utilità per l’uomo, guida alla conoscenza: non una “scienza” asettica o basata su certezze assolute, che davvero non esistono, essendo le manipolazioni e i fallimenti sempre in agguato e all’ordine del giorno. *Un medico capace di curare i pazienti speditigli dai colleghi e tutti con la medesima diagnosi “ammalato di fame, incapace a pagare“, riassume appropriatamente De André da Masters. Ma tanto il pensiero quanto il messaggio sono chiari: De André è per la gratuità delle cure mediche perché, se è odioso far pagare parcelle care, è disumano arricchirsi sulle malattie altrui. In Masters il medico che cura gratis chi non può pagare, cercherà di guadagnare per il sostentamento di moglie e figli preparando l'”elisir
dell’eterna giovinezza” che, però, si rivela una truffa e il povero medico finisce in prigione come, conclude De André: “dott. prof, Truff. Imbroglione“. *Che dire di Un chimico? Nessuno più di De André fu “abile chimico” nel raccontare, cantare e combinare i sentimenti degli esseri umani; ma il chimico di Spoon River, con tutta la sua scienza e pur avendo “il potere/di sposar gli elementi e di farli reagire” afferma che “gli uomini mai mi riuscì di capire/perché si combinassero attraverso l’amore“. Fu così che il povero chimico morì per un esperimento mal riuscito, senza sposarsi per incapacità di scoprire la reazione fra uomo e donna: lui ossigeno,
lei idrogeno e dinamite il figlio nato da loro. *Un ottico che, la bella utopia ricordata all’inizio!, dopo prove e prove, fa gli occhiali su misura per vedere, come avrebbe voluto anche De André, solo e soltanto “la luce, luce che trasforma/il mondo in un giocattolo” nel quale non ci siano più guerre (se non quelle giocose e gioiose dei bambini, soprattutto senza armi di sorta) né violenze né divisioni, né invidie né pregiudizi… così frequenti e ineliminabili fra gli uomini. *Anche se devo ammettere che qualche testo di De André comincia qui e là ad essere pubblicato nei libri di scuola, inserito nelle antologie letterarie e analizzato all’Università; e anche se ho saputo che all’Università di Siena (…perché non in quella di Genova?) è in funzione il Corso “Poetica e stilistica su storia e forme della canzone“, mi piace chiudere con un pensiero forse irriverente, ma che personalmente condivido: “A quando, come suggerivo all’inizio. “Degli spiriti e delle forme nella poesia di Fabrizio De André?”, cioè: “A quando un’analisi critico-testuale dei testi di De André inseriti nelle antologie scolastiche e fatti studiare e analizzare come le poesie dei grandi?” C’è chi il problema ha iniziato a porselo.

Benito Poggio

“A COMPAGNA” (5/02/2019)



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