Il fascino del calcio, come di ogni altro sport meno popolare, è un groppo in gola che ti prende nei momenti più inconsueti. La notte prima di dormire, in un sogno ad occhi aperti durante la giornata. Giocarlo, viverlo, non è mai tutto. I veri sportivi, gli amanti del pallone, non possono fare a meno di raccontarlo. Al bar, sui giornali, è un riflesso naturale.
L’epicità dell’atto sportivo si realizza compiutamente solo quando il gesto atletico è passato, fagocitato, introiettato. In un dopo, che va da qualche ora a un centinaio d’anni.
A mio avviso, l’emozione sportiva trova la sua massima espressione nella memoria. È una memoria cronachistica, certo. Ce lo insegnano i grandi narratori dello sport, rintanati nelle colonne quotidiane ma romanzieri nel profondo.
È, tuttavia, una memoria in grado di travalicare le contingenze e ripetere in modo nitido e sentito il sapore di un rigore sbagliato, quello di una grande parata. Mossi da una passione che si fa necessaria, due professionisti del giornalismo e della comunicazione, Luciano Angelini e Franco Astengo, hanno scelto di rievocare e ricostruire in un blog campetti polverosi, divise cucite a mano (spesso con evidenti diversità) e palloni con la cucitura. Fra tabellini e fotografie, in una lente personalissima ma fedele alla storia, Il calcio & la città rivive i sabati e le domeniche che tutti noi, compagni di gioco, professionisti e no, abbiamo amato. E soprattutto, amiamo ricordare. Savona è cornice, la storia del calcio la sua protagonista.
FRANCESCA ASTENGO
Il blog (https://storiadelcalciosavonese.wordpress.com), curato dalla webmaster Francesca Astengo, spazia dai grandi miti (Levratto, Bacigalupo), ai personaggi e alle tappe più significative delle società calcistiche di Savona e provincia con particolare attenzione ai campionati dilettanti e all’attività dei settori giovanili. Per gentile concessione degli autori pubblichiamo un primo articolo dedicato al fenomeno delle Scuole calcio.
DALL’ORATORIO ALLE SCUOLE CALCIO
QUANDO UN BEL GIOCO
SI TRASFORMA IN BUSINNES
di Luciano Angelini e Franco Astengo
Si giocava meglio quando si stava peggio? O meglio, i ragazzini cresciuti sulla strada, all’oratorio, sui prati spelacchiati di periferia, erano più bravi dei pari età allevati nelle “stie” delle scuole calcio? L’interrogativo non è peregrino. Anzi. Nasce da una constatazione di molti tecnici: oggi, troppi calciatori, anche in Serie A, non conoscono bene i fondamentali: come stoppare il pallone, come riceverlo o passarlo ad un compagno, come tirare in porta. E qui si spalanca la porta ad un’altra (delicata) domanda: perché i calciatori, salvo rare eccezioni, “danno del lei” e qualcuno anche “del voi” al pallone? La risposta è semplice e in un certo senso contraddittoria: perché sono meno preparati all’origine, ovvero dal primo giorno che cominciano a prendere a calci un pallone su un campo di gioco. Eppure in Italia ci sono quasi dodicimila società dilettantistiche con settori giovanili, più oltre tremila società di puro Settore giovanile. A livello professionistico le squadre del settore giovanile sono oltre 350.
Ma se tutti i ragazzi partono dalle scuole calcio, perché oggi i calciatori sono meno preparati? La risposta viene da Mario Sconcerti, considerato uno dei massimi esperti di calcio, prima firma del Corriere della Sera, già opinionista di Sky e ora della Rai alla Domenica Sportiva, ex direttore del Corriere dello Sport e del Secolo XIX e vice direttore vicario della Gazzetta dello Sport con Candido Cannavò, fondatore dello Sport di Repubblica. “Perché, uscendo dalla strada, il calcio si è messo in mano agli insegnanti. Questo ha causato un altro problema: chi insegna calcio agli insegnanti? E quanto conta un insegnante nella crescita di un ragazzo? In Italia ci sono circa settemila scuole calcio con una media di circa dieci tecnici ciascuna. Servono dunque circa settantamila allenatori. E i corsi di abilitazione sono pochi e durano pochi giorni. Ma sono sempre pieni di ex calciatori che nei punteggi di ammissione ai corsi vengono prima di chi è stato calciatore dilettante. Il risultato è la passione di molti, ma anche l’approssimazione di troppi”. Da qui le carenze nella conoscenza dei fondamentali perpetuate nelle varie categorie.
Ma è solo un aspetto del problema. La società e le società sono cambiate. Quando si giocava nelle strade e negli oratori la selezione era naturale. Le squadre le facevano i capitani che sceglievano i compagni di squadra tra tutti gli altri. In sostanza non c’era bisogno di allenatori. Anche se c’era sempre il vecchio maestro di calcio a cercare la “pepita” in messo al fiume in piena. Qualche volta capitava. Erano i ragazzi a valutare e valutarsi. Si giocava ovunque, senza limiti di tempo. Il campo poteva anche essere una stradina tra una casetta bassa e il muro di uno stabilimento, lunga e stretta. Era valido il gioco di muro ed era meglio di un allenatore improvvisato con la sindrome di Arrigo Sacchi (oggi si sente dire “vai nello spazio”, “gioca tra le linee” a bambini di sette-otto anni). Niente schemo, né sovrapposizioni. Con il gioco di muro si imparava a calciare sul muro per scegliere la traiettoria, anticipare l’entrata dell’avversario, a scattare (ripartire come si dice adesso) per superare per superare l’avversario e andare a riprendere e controllare la palla. I ragazzi dei Salesiani, con Lello Paltrinieri in testa, poi buon calciatore con Savona e Albenga, postino e infine prete di strada, erano maestri nel gioco di muro.
C’era sempre un discreto equilibrio nelle squadre, qualche difensore, qualche attaccante e, infine, il portiere, ruolo inviso ai più. I più scarsi restavano a guardare, o entravano per dare qualche cambio per stanchezza o infortunio. Ma alla fine c’era sempre posto per tutti. Le partite erano lunghissime, fin che faceva buio, i gol fioccavano, i risultati viaggiavano sull’onda dei 40-50 gol a partita. Ricordo un 38 a 35 sul campetto del Sacro Cuore, quando ancora era tra la chiesa e la smalteria e era valido il gioco di muro. C’era competizione, ma soprattutto divertimento. Nessuno minacciava di andarsene. Vincenti, sconfitti ed esclusi si ritrovavano il giorno dopo.
Tutti giocavano, correvano dietro al pallone, bisticciavano, prendevano a calci non solo il pallone, ma soprattutto si divertivano fino allo sfinimento. Tornavano a casa quando non c’era più di un filo di luce, stanchissimi, paonazzi, affamati, sudati marci, i pantaloni strappati, le magliette sporche di terra, le scarpe deformate, ed erano le stesse per andare a scuola la mattina dopo. Si giocava, ci si divertiva, si lottava su ogni pallone, ci si confrontava.
Oggi tutto è cambiato. In meglio? In peggio? E’ cambiato. Per giocare a calcio i bambini devo pagare. Già a 5-6 anni sono piccoli salvadanai, una sorta di bancomat per le casse delle società. Tra giugno e settembre allenatori, veri o presunti, dirigenti, talent scouts con poco talent e molta presunzione, cominciano la caccia alle iscrizioni. Approcci (quasi) casuali, contatti fintamente casuali, telefonate, inviti a improvvisati provini e ad ambiziosi campus. Spesso si assiste a vere e proprie transumanze con ragazzini al seguito di allenatori-pifferai magici. Facile fare presa su genitori assatanati, una sorta di allenatori aggiunti al di là della rete, solleciti nel suggerire le marcature, indicare schemi e tattiche, a spronare soluzioni (“Tira”, “marca”, “passa”, “attacca”), spesso a contestare le scelte degli allenatori, quelli ufficiali, diciamo così. E’ un aspetto del calcio inteso come affermazione sociale e riscatto personale di carriere mancate. Un piccolo esercito di papà (e anche tante mamme, spesso urlanti per un fallo non concesso o un gol mancato) che vedono e cercano nel proprio figlio la possibilità di un futuro prestigioso quanto improbabile (sfiorano il milione i tesserati nei settori giovanili, in serie A giocano 600 calciatori, in larga maggioranza stranieri; uno su diecimila ce la fa, parafrasando Gianni Morandi, uno senza tempo).
Un bambino, una quota. Il che significa tra i 250 e i 400 euro all’anno, moltiplicati per il numero degli iscritti. Fate voi i conti. Più bambini si iscrivono, più quattrini entrano. Tutto possono e devono giocare per un semplice motivo: perché pagano. E quello che resta pur sempre un bellissimo gioco trasforma ogni piccolo aspirante calciatore in bancomat. L’oratorio non c’è più. Per giocare o anche non giocare, si paga. Non è uno scandalo. E’ il businnes (del calcio) bellezza.