Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Storia di vita: a Millesimo per 36 anni dipendente delle Officine Fresia, i nonni gestivano l’Osteria dei Cacciatori, poi l’amore


Ho raccolto in un libretto le memorie amene di un anziano valbormidese, Remo Fresia, cantore e poeta, testimone allegro e conviviale di un’epoca a noi vicina, a cavallo dell’ultima guerra mondiale. Così inizia il nostro narratore cortese:

Remo Fresia e gli amici di Millesimo

Ho sempre vissuto in un paese di campagna, situato in una conca, oltre il Colle di Cadibona, dove ha termine l’Appennino ligure (per chi viaggia verso ponente) ed hanno inizio le verdeggianti e lussuriose (sic) colline dell’Alta Langa.

Queste colline sono molto fiorenti e fertili durante il periodo Primavera, Estate, Autunno; mentre sono spoglie e grigie nel gelo e neve invernale. Il mio paese è Millesimo, ed ogni anno, il nove novembre, si celebra il suo giorno di fondazione, da quando il Marchese Enrico II del Carretto, nel romito anno 1206, fece estendere l’atto di fondazione del piccolo e rupestre “burgo apud pontem Millesimi” concedendo immunità e franchigie ai capi famiglia che in quel borgo stabilirsi e costruire la propria abitazione, esentandoli pure da varie tasse feudali.

Vivevo con la mia famiglia in una piccola casa colonica alla periferia del paese, ivi, per accorciare la via d’accesso al centro urbano, si doveva, e si deve ancora oggi, transitare a piedi oppure in bicicletta su di un traballante ma sicuro ponte in legno sorretto da due grossi cavi robusti, intrecciati e varie funi elastiche, tutte in acciaio. Il ponte viene chiamato “la passerella” e di questi ponti in paese ve ne sono due: uno a Nord ed uno a Sud, entrambi posti sopra il lungo e disteso alveo del fiume Bormida, il quale scorre ai piedi delle antiche case del centro storico, ormai quasi tutte disabitate. Quelle poche ancora abitate, a parte un modesto gruppetto di paesani, le altre sono occupate da sparuti gruppi di extracomunitari sudafricani o marocchini.

Nella nostra casa, metà era finita (dove abitavamo) e l’altra parte era rustica, usata come granaio e legnaia; inerente alla legnaia si trovava la stalla e a ridosso di essa il grande fienile. Nel seminterrato, per tutto il fabbricato, si estendeva una vastissima cantina che era attrezzata, per due terzi, per fare il vino, con cinque botti in rovere, poste trasversalmente su due massicce travi in legno, dalla più grande alla più piccola.

Ed in più vi erano varie damigiane e centinaia di bottiglie in vetro spesso, alcune di esse tipiche ed antiquate. I miei nonni paterni avevano gestito, per un lungo e fruttuoso periodo, una grande osteria equipaggiata da vari giochi da bocce. Era molto conosciuta per il suo ottimo vinello, fresco, naturale di cantina; esiste ancora la sua scritta, un po’ cancellata dalla calce, che però vi si legge tuttavia: “Osteria dei Cacciatori”.

Tutta quella attrezzatura cantiniera era poi passata per eredità al mio povero “babbo”. La restante parte della cantina era adibita a magazzeno attrezzi ed a ripostiglio delle patate con tutto il coerente prodotto della terra. Infine nell’angolo più remoto erano state sistemate quattro gabbie in legno per i nostri conigli selezionati.

In quell’ubicazione passai la mia prima infanzia e giovinezza, aiutando mio padre nei lavori di campagna, andando al pascolo, svolgendo altri lavoretti, connessi al caso e per me accessibili. Mi mandavano a scuola quando pioveva o nevicava, nonostante tutto ciò, ero felice, giovane, forte e svelto; avendo moltissima libertà, con ampi spazi di tempo libero per divertirmi con gli amici, anche se spesse volte, lavorando faticavo e sudavo molto.

Quella vita così libera, il cibo genuino, la grandissima cerchia degli amici e il tanto affetto, amore ed unione familiare, ricevuti, mi davano una forza, nel modo più superlativo, da non sentirmi neppure un invalido. La mia vita di giovane contadino si interruppe e si dimezzò il primo giorno di giugno 1957, quando iniziai il mio precipuo ed unico vero lavoro della mia vita, presso le grandi “Officine” del paese, di proprietà degli zii Maddalena e Giovanni Battista Fresia.

Divenuta poi in seguito una fabbrica primordiale di mezzi speciali per lo sgombero della neve e di molteplici tipi di trattori industriali, da traino aerei ed aviogetti, dislocati in tutti gli aeroporti del mondo. Era di sabato, il mio primo lavoro fu quello del “magazziniere”, lo iniziai con tutta la mia foga e buona volontà, non immaginandomi che quel lavoro divenisse il mio futuro, un futuro con una buona pensione.

Remo Fresia negli anni della gioventù

Entrai che avevo i capelli neri e foltissimi, uscendone dopo 36 anni con i capelli bianchi e diradati. Dopo il primo anno di duro lavoro intrapresi l’iniziativa delle ferie e le primissime vere ferie le ho decorse in casa degli zii di Frabosa Sottana, dove mi trovai a mio agio, con varie escursioni diarie in diversi paesi limitrofi, in compagnia degli stessi zii e due cugini, i quali durante il giorno svolgevano i loro lavori ed alla sera, dopo aver cenato, si andava in festa, in qualche borgata o paese vicino.

Quegli otto giorni volarono via in un baleno, mi vennero a prendere quattro amici con una vettura e con loro, prima di partire, concludemmo le mie vacanze con una grande merenda, in una trattoria locale di buoni amici che vollero compartecipare alla buona ed abbondante merenda con l’offerta di un ottimo e gustoso salame nostrano.

Trascorsi tre o quattro anni lavorando e pensando solo a divertirmi con gli amici, però con il passare degli anni la cerchia si sfoltiva sempre più: chi si spostava a destra, chi a manca, poiché la nostra età superava già un quarto di secolo. Nel 1965 mi feci socio di un “club internazionale dell’amicizia” con sede a Berlino. Mandai le due fotografie formato tessera richieste, unitamente alla somma d’iscrizione che era di lire cinquemila.

Dopo un mese circa ricevetti un bellissimo opuscolo con annesso inserto delle modalità e del relativo uso; dirò che era veramente ben congegnato e funzionale, per la sua semplicissima linea adottata. Tanto per le donne quanto per gli uomini, tutti gli iscritti si potevano identificare con una serie di numeri; così pure lo scopo con il quale uno voleva corrispondere.

Tutto ciò avvenne in seguito ad una lunga riflessione fatta in cuor mio, essendo io l’ultimo di una famiglia composta dai genitori, due sorelle ed un fratello, così che i miei procreatori erano già abbastanza avanti con la loro età. Una seconda cosa era quella che vedendo assottigliarsi la cerchia degli amici, vedevo il mio futuro, solitario e senza amici.

Però fu il terzo pensiero che mi fece decidere di cercarmi una donna all’infuori del nostro solito giro, per poi farne la futura compagna della mia vita, dato che qui, in zona, le graziose e simpatiche signorine non volevano intrecciare alcun rapporto serio con il sottoscritto. Fu proprio questo il motivo, un motivo serio e gravoso per me: se un domani fossi rimasto solo… Il caso gravoso era che da piccolo fui colpito dalla poliomielite la quale mi danneggiò gli arti: inferiore e superiore, parte sinistra del corpo, in modo più grave l braccio.

Sono autosufficiente, non al cento per cento, ma talvolta necessito di un’altra persona per poter terminare alcune cose, oppure piccoli ritocchi, per me facili però impossibili ad eseguirsi.

La corrispondenza con le socie del “club” iniziò felicemente e puntualmente, infoltendosi sempre di più. La mia richiesta era quella di corrispondere specificatamente con signorine che parlavano lo spagnolo, cioè il vero “castellano”, in francese ed ovviamente in italiano. Giunsi al punto di avere corrispondenza da quindici nazioni, per la maggior parte con l’America Latina.-

Bruno Chiarlone Debenedetti

 


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B. Chiarlone

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