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L’ingegnere / Electrolux, fisco e qualche soluzione


Il caso Electrolux nasce da una minaccia degli svedesi (dimezzare il salario ai dipendenti, sotto pena di chiudere lo stabilimento di Porcia e trasferirne la produzione in Polonia). Non si può pretendere che un’azienda perda quattrini, soprattutto se ha altri centri di produzione a basso costo di manodopera. Gli scioperi, l’unica arma degli operai, sono un’evidente arma spuntata, in una situazione come questa lo sciopero è solo una riduzione dei costi, un favore all’azienda.

 

La situazione è tipica del prodotto maturo, dove la possibilità di innovazione è minima, dove il costo della manodopera è l’unica variabile importante e dove l’unica difesa possibile, barriere all’ingresso, dazi e dogane, sarebbe irrealistica. E’ una situazione che conosco, essendo stato consulente di Electrolux quando era ancora Zanussi con problemi di costi già negli anni ’80.
Lo sgradevole atteggiamento dell’azienda – caricare sui dipendenti il maggior costo che le deriva dal produrre in un luogo dove la manodopera è più cara che altrove – fa fare un salto indietro di un secolo, quando ai “padroni delle ferriere” era lecito tutto. I dipendenti, di fronte all’alternativa tra avere un guadagno misero o di rinunciarci del tutto, tanto da far sembrare più conveniente la cassa d’integrazione, non sembrano avere quasi nessuna protezione.
Se l’attività dell’Electrolux cessasse, un migliaio di operai si troverebbe senza lavoro e finirebbe in cassa d’integrazione, a carico dello Stato, ossia della collettività, senza contare il mancato gettito delle imposte sugli utili dell’azienda e i danni alle numerose imprese dell’indotto con un ulteriore esborso economico per lo Stato.

La situazione forse sarà risolta con un intervento “teso a ripristinare la decontribuzione a favore delle imprese che ricorrono a contratti di solidarietà «come mezzo per abbassare velocemente ed efficacemente il costo del lavoro senza intaccare i salari»”. Sembra di capire che si farà diminuire il costo degli operai senza intaccare il loro salario, attraverso la rinunzia dello Stato ai “contributi” previdenziali e/o assistenziali.

Dunque, proviamo a ragionare su cosa possa fare lo Stato in tutti i casi analoghi (per es. Merloni e ILVA). Dal nostro punto di vista lo Stato che incamera tasse e contributi di vario tipo, sulle aziende, sui dipendenti e sull’indotto, non dovrebbe configurarsi solo come esattore, oltretutto, in caso di chiusura, perderebbe ogni contributo a qualunque titolo e quindi anche la sua funzione. Sarebbe, inoltre, del tutto a suo carico il costo della cassa di integrazione, quindi ad un mancato introito si aggiungerebbe un esborso. Invece, intervenendo tempestivamente rinunciando al gettito a favore dell’azienda per aiutarla a superare la crisi, non ne avrebbe nessun danno reale mentre l’azienda dalla decontribuzione e dalla detassazione ricaverebbe una somma non molto diversa da quella che le verrebbe dal taglio dei salari.

Beninteso, non si tratterebbe di una soluzione eterna perché eterne non sono le crisi, così come non lo sono i successi, perché il costo della manodopera è destinato a salire anche nei Paesi dove oggi è più basso. E il liberalismo? Non è in discussione, è inevitabile che lo Stato debba giocare come parte in causa, visto che lo è per il flusso di cassa che riceve. La produzione industriale, a meno di casi gravi, non può essere abbandonata, una fabbrica ha il suo know-how, personale specializzato, macchinari e il suo indotto: tutte cose che con la chiusura sono perse per sempre, non si improvvisano, sono parte della cultura di un Paese. Ho lavorato gran parte della mia vita in aziende in perdita e ho visto chiudere molte attività, perdite di cultura, di conoscenza, di capacità di lavoro non più sostituibili. Male abbiamo fatto a non salvare la chimica e tante aziende che avrebbero potuto essere salvate a costo zero solo se avessimo avuto uno Stato meno vorace, capace di considerare il fisco come una leva anziché solo come un’esazione, superando una gestione insensata del fisco vissuto come rapina. Lo Stato non può esigere le tasse, preoccupandosi solo delle proprie entrate, a proprio uso e consumo, destinandole dove preferisce e magari sprecandole o abusandone senza preoccuparsi dei cittadini, chiamati odiosamente “contribuenti” riproducendo dopo un millennio le vicende di Giovanni Senza Terra e dello sceriffo di Nottingham della saga di Robin Hood.

Eppure, la “morte per fisco” non è una trovata: a parte le persone che si uccidono per l’assillo fiscale, c’è da chiedersi quante siano le piccole aziende, magari solo botteghe, che muoiono senza che nessuno se ne accorga e sarebbe interessante capire cosa significhi mettersi in regola col fisco per certe piccole aziende e per i loro proprietari.

Se il loro reddito “irregolare” era l’unica ragione per cui riuscivano a sopravvivere, ucciderli per fisco non sembra proprio aver fatto l’interesse della collettività, il fisco dalle aziende chiuse non ricava più nulla. Non sarebbe più corretto se tutti pagassero in base alle loro risorse, piuttosto che in base a leggi che delle loro risorse non tengono conto? Invece di applicare rigidamente regole studiate per tutti, a incominciare dagli studi di settore?

Lo Stato dovrebbe fare gli interessi dei cittadini, proprio nel suo stesso interesse e questa, prima di essere pratica liberale, è applicazione del buon senso.

In Italia ci sarà qualcuno capace di farsi carico di una simile impostazione?

Probabilmente qualcuno, in Europa, si ribellerà chiamandola “aiuto di Stato“. Ma se questo significa impedire ad uno Stato di salvare i propri centri di produzione a costo zero, o salvare piccoli centri di risorse private allora significa che chi lo impedisce – la concorrenza – cerca di salvare le proprie aziende a spese altrui. E, se non è aiuto di Stato questo, allora bisognerà cambiare concetti e trattati.

Filippo Bonfiglietti



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F.Bonfiglietti

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