Emozioni, sensazioni e suggestioni africane dalle opere di Gianni Carrea, “savonese d’adozione”.
Dopo averlo visionato più volte in grandi mostre, quella davvero splendida nelle linde e prestigiose ex-celle del “Priamar” di Savona, in seguito al Centro Civico “Buranello” di San Pier d’Arena (ben due volte) e al CIV di San Fruttuoso (Genova), ho avuto la doppia grande e fruttuosa fortuna di entrare e vivere, sia pur per non prolungati tempi, nella fucina creativa e produttiva – mi riferisco sia allo studio che all’abitazione resi veri e propri vivi ed effervescenti musei – del noto e affermato pittore Gianni Carrea. (nella foto a ds)
Credetemi, è stato tutto un vibrare di emozioni, sensazioni e suggestioni di valenza e sonorità africane circondato e coinvolto, come mi son trovato, da decine e decine di dipinti di animali e persone (uomini e donne) che, come ha sostenuto l’illustre critico Germano Beringheli, nascono e sono “prelevate dal vivo mediante la fotografia” (cfr. Dizionario degli artisti liguri), ma, grazie alla bravura pittorica e all’intensità cromatica di una eccellente e raffinata manipolazione da parte dell’artista, superano – a mio parere – la mera consistenza e fisicità corporee per farsi archetipo immateriale – vuoi dell’essere animale, vuoi dell’essere umano – tanto da assurgere a quella suprema essenza che, a ragione, può dirsi non soltanto distaccatamente transnaturale (o ultranaturale), ma altresì marcatamente concettuale (o filosofica). Il sempre rinnovato percorso artistico, unitamente al sempre rigenerato iter cognitivo, – quelli che Carrea sa ricavare e per così dire estrarre da persone e animali ben radicati nel paradisiaco habitat africano – seguono e perseguono con pertinacia approfondimenti tali che, in felice direzione che si tratti di fauna o di ritratti di persone, dalla figura trasmigrano dapprima alla concretezza dell’immagine e dalla concretezza dell’immagine si elevano in àmbiti mentali e, oserei dire, spirituali sollevandosi in una sfera superiore fino a creare e far sorgere emozioni forti, intime sensazioni ed efficaci suggestioni in chi osserva con vigile concentrazione e sollecita attenzione.
Ma dove stanno e dove si annidano l’inedita originalità e la specifica autenticità della creatività nelle opere di Carrea? Direi nella “nuda veritas” proposta e riproposta da Carrea, artista e pittore, attraverso interventi ossessivamente dettagliati tal che ogni immagine – uomo, donna o animale che sia – è come innestata in una doviziosa profusione di colori e fasciata da una generosa ridda di minutissimi cromatici dettagli che, se all’apparenza paiono superflui e ininfluenti, nel gioco della realtà visiva ri-creata dall’artista finiscono per segnarne e svelarne l’essenza e il ritmo di una inseguita e voluta interiorità. Carrea non realizza mai le sue opere in economia di mezzi descrittivi, al contrario le concentra sui rapporti, essenziali e paritari, tra uomo e animale con il proprio ambiente: ambiente che è di volta in volta ispirato o suggerito, non visivamente effigiato o figurativamente elaborato.
E soltanto dalla perspicua e meditata osservazione di ogni singolo dipinto globalmente inteso che si originano le notazioni psicologiche più folgoranti e si avvertono le illuminazioni semantiche più significative che fanno della pittura di Carrea un qualcosa che dà gusto e soddisfazione giacché non è certo né indubitabilmente si erge ad apatica descrizione o fredda riproduzione tipiche dello zoologo, diligente esecutore nel mostrare ogni specificità morfologica, ma che poco o nulla si cura dell’aspetto artistico. Guardare i dipinti di Carrea e riempirsi gli occhi delle sue creazioni è come osservare l’Africa in presa diretta, tanto da una finestra aperta quanto da una porta spalancata, perché è proprio attraverso il raffinato e preciso particolare che Carrea induce lo spettatore a cogliere l’aspetto universale tramite una visione coloristica sì, ma tutta interiorizzata. Ho dinanzi agli occhi le ultime quattro serigrafie, munificamente donatemi dall’artista, che rappresentano altrettante sue recentissime opere: in tutte e quattro gli occhi del pittore perforano e trapassano la pura e semplice realtà visiva per addentrarsi in e riesumare una superiore oggettiva consistenza che solo lui è in grado di percepire prima e rappresentare poi, ma che, mi sia consentito affermarlo, per l’alto grado di perizia esecutiva lasciano a tutta prima stupiti e senza parole.
L’essere umano, come tale, è effigiato in due distinte inquadrature che godono del potere poetico che Carrea sa cogliere e trasmettere: la donna, aggraziata ma non altèra nella sua dignitosa figura dal sorriso impercettibile, pare fissare un punto nello spazio in cui le belve – leoni o altre – vivono in quella medesima pace e le ispirano quella medesima armonia da cui lei stessa è ‘circonfusa’ e che lei stessa emana, avvolta com’è nelle morbide e ricche pieghe di un elegante e squisito panneggio che la impreziosisce e la incorona di aristocratico fascino; l’uomo, dall’aspetto ardimentoso e carico di serena fierezza che potrebbe essere quella propria di un capo prestigioso come mostra anche il suo abbigliamento, ha lo sguardo intento e rivolto a quella savana tutt’intorno a lui e di cui, senza dubbio, è lui il sagace e pacifico dominatore in buona armonia e in pieno accordo con i suoi abitatori, le fiere: per altri spaventevoli e terrorizzanti, ma che lui, non avendo alcuna ragione di temerle, affronta coraggiosamente e, arditamente ma senza crudeltà, sa piegarle al proprio volere.
Il leone è raffigurato in due maestose rappresentazioni:
* la prima, in cui la fiera, re della savana, immedesimata nel suo isolamento e nella sua forza, attraverso la fierezza della sua criniera e la potenza del suo sguardo, trasmette tutta la sua evidente regalità e fornisce una chiara lettura, saldamente interiore e intensamente esteriore, di tutta la sua riconosciuta grandezza;
* la seconda, che sembra quasi esplorazione e proiezione insieme di una poetica e romantica termografia indagata ai raggi x, comunica un’energia prevalentemente interiore, ma incredibilmente articolata, tutta concentrata e tutta da scoprire in quanto l’intensità dello scavo operato da Carrea pare evocare tracce di non perduta, selvaggia ‘belluinità’ e pare portare chi osserva agli antipodi del concetto stesso di realtà esistenziale che ha preso corpo, si sussegue e si sovrappone in una rappresentazione cromaticamente precisa e suggestiva.
Potrei concludere dicendo che Carrea non prova e non avverte alcuna repulsione – ed è evidente e lo si vede nei suoi quadri – per il mondo africano e i suoi abitatori, uomini o animali, quali che essi siano; all’opposto egli, come uomo e come pittore, nutre e sperimenta un’attrattiva verso quel mondo, a lui caro e da lui costantemente frequentato, talmente sentita e talmente forte da sentirsi obbligato a riconoscerlo e ad accettarlo quasi come l’unica realtà possibile e da lui raffigurabile, essendo volutamente vittima dell’entusiasmo e dell’euforia che l’Africa suscita in lui.
Benito Poggio