Usare in questo caso l’avverbio solennemente non è retorico, se si considera quanto sia stata lunga e difficile nel nostro Paese la battaglia per il riconoscimento del diritto alla libertà di coscienza e di religione, battaglia che, peraltro, non sembra ancora vinta del tutto e perciò non finita.
1) LE DECISIONI DELLA CORTE COSTITUZIONALE
Una tale statuizione non è una pronuncia isolata; essa si trova ribadita in altre sentenze ( ad es. 925/1988, 13/19, 195/1993, 334/1996, 329/1997, 508/2000) e dall’insieme di queste si ricava un sistema di principi che può essere riassunto così:
La laicità, è perciò la non confessionalità dello Stato, è un supremo principio costituzionale e, come tale, non può essere derogato neppure da norme di rilevanza costituzionale (ivi compreso,dunque, il concordato con la Chiesa Cattolica) e deve ispirare tutta la materia del rapporto fra ordinamento giuridico e fatto religioso, sia nella dimensione individuale, sia nella dimensione collettiva;
nella tutela giuridica non si possono operare discriminazioni sulla base del maggiore o minor numero degli appartenenti alla confessione religiosa e ciò perché tale tutela è sempre tutela della coscienza individuale; su questa base si fonda il criterio della equidistanza e imparzialità della legislazione rispetto a tutte le organizzazioni religiose;
la religione non può mai considerarsi strumentale rispetto alle finalità dello Stato e parallelamente nessuna confessione religiosa può pretendere che lo Stato si ponga come strumento per il raggiungimento dei fini suoi propri;
il rapporto tra Stato e chiese o religioni si deve caratterizzare come rapporto fra ordini distinti e separati perché il fatto religioso e l’ordinamento giuridico appartengono a dimensioni differenti;questo criterio di separazione deve ispirare gli accordi bilaterali con le confessioni religiose previsti dalla Costituzione: Concordato con la Chiesa Cattolica e intese con le confessioni religiose diverse dalla cattolica;
per l’ordinamento costituzionale italiano il fatto religioso è da considerarsi essenzialmente come manifestazione di libertà;esso dunque è rilevante soltanto come tutela della libertà di coscienza e di religione e non può essere oggetto di prescrizioni obbliganti. L’orientamento espresso da questa giurisprudenza costituzionale data la sua univocità e autorevolezza,avrebbe dovuto informare di sè tutta la vita della nazione, ma ciò non è accaduto. Di recente il Presidente del Consiglio dei Ministri, secondo notizie diffuse dai media, peraltro non smentite, ha affermato che l’attuale coalizione politica di maggioranza in Parlamento non approverà mai leggi che contrastino con la visione cristiana. Fermo il pieno rispetto per le visioni cristiane, non mi pare che una dichiarazione di questo tipo, che adotta un particolare orientamento religioso come criterio di elaborazione legislativa, sia in armonia con il sistema di principi che si è sopra illustrato.
2) QUALE LAICITA’ NELLA SCUOLA PUBBLICA?
2.1 – L’insegnamento della religione cattolica Restano comunque altre ben più gravi questioni aperte alle quali chi ha a cuore la laicità dello Stato,delineata dalla Costituzione, non può non sentirsi impegnato a dare adeguata risposta. Prendiamo in considerazione la scuola pubblica italiana.
In uno stato moderno la scuola è come un biglietto da visita con il quale uno si presenta. Domandiamoci, dunque: come affronta e risolve il nostro ordinamento il rapporto fra scuola pubblica e fatto religioso? Il concordato con la Chiesa Cattolica del 1929 definiva addirittura l’insegnamento della dottrina cristiana, secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica, “fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica”. La sistemazione concordataria del 1984, conservando l’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica, si rifà ad altri presupposti e cioè al valore della cultura religiosa e alla circostanza che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano.
Orbene, la cultura religiosa è sicuramente un valore e i principi del cattolicesimo fanno di certo parte del patrimonio storico del popolo italiano. Ma la cultura religiosa non è esaurita dal cattolicesimo e, accanto ai principi del cattolicesimo, altri principi di carattere religioso, di pari forza e valore, fanno parte di questo patrimonio storico; forse che i Valdesi, Arnaldo da Brescia, fra Dolcino e i Dolciniani, Gioacchino da Fiore,Antonio Brucioli,Marsilio da Padova, i fratelli Fausto e Lelio Socino, Pietro Martire Vermigli, Aonio Paleario, Bernardino Ochino, Giovan Battista e Pier Paolo Vergerio, Mattia Flacio Illirico, Renata di Francia duchessa di Ferrara, Giordano Bruno, Giovanni Diodati (e per contenere tutto l’elenco questa pagina non basterebbe!) non fanno parte della storia del nostro Paese?
2.2 – Dubbi di Costituzionalità Ma l’approccio al fatto religioso nella scuola pubblica avviene con modalità pesantemente confessionali giacchè programmi e scelta dei docenti e dei libri di testo sono interamente nelle mani dell’autorità ecclesiastica cattolica, poiché senza il consenso di questa nessun programma può essere formulato, nessun docente può essere incaricato dell’insegnamento, nessun testo può essere adottato. Per cui una cultura religiosa non cattolica e principi di carattere religioso non cattolico, anche se facenti parte del nostro patrimonio storico, o resteranno fuori dell’orizzonte della nostra scuola pubblica o saranno mediati alle giovani generazioni da insegnanti confessionalmente caratterizzati: una situazione paradossale e comunque fortemente dissonante da un quadro laico, non confessionale, pluralistico. E come negare che una simile sistemazione del rapporto fra scuola pubblica e fatto religioso contraddice due altri fondamentali principi della nostra Costituzione e cioè il primo comma dell’art.34,che afferma “La scuola pubblica è aperta a tutti”, ed il primo comma dell’art.33, che prescrive “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”? Infatti: come può essere “casa di tutti” una scuola nella quale valori e principi della cultura cattolica, una delle culture religiose presenti nella storia, importantissima certo ma non unica, hanno un trattamento privilegiato e il fatto religioso viene quasi a coincidere con la dottrina e la prassi della Chiesa Cattolica?
Come si può conciliare la libertà di insegnamento con quanto stabilito nell’art. 5 del Protocollo addizionale al nuovo concordato del 1984, nel quale è stabilito che l’insegnamento della religione cattolica deve avvenire in conformità alla dottrina della Chiesa Cattolica? Per quanto fin qui esposto inclino a ritenere che la scelta concordataria, almeno per quel che riguarda l’insegnamento religioso, sia incostituzionale per contrasto con un principio “supremo”, quello della laicità – non confessionalità dello stato, ma devo riconoscere che nella sentenza con cui ho aperto questo articolo, la n° 203 del 1989, si afferma invece che l’insegnamento della religione cattolica previsto dal concordato è conforme alla Costituzione.
Tuttavia si deve sottolineare che tale decisione non riconosce questa costituzionalità senza condizioni: essa infatti afferma che la norma concordataria in questione (che testualmente, tra l’altro, dice “Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”) impone allo “…..stato laico …. il dovere di salvaguardare che non ne risultino limitate la libertà di cui all’art.19 della Costituzione (trattasi della libertà di coscienza e di religione) e la responsabilità educativa de genitori di cui all’art.30”. Orbene, mi sia consentito affermare che nella realtà di ogni giorno siamo ben lontani dalla “salvaguardia” di cui parla la sentenza della Corte Costituzionale.
Al momento dell’esercizio del diritto di scelta l’informazione da parte dell’amministrazione scolastica è inadeguata; chi dichiara di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica viene considerato un piantagrane e un disturbatore; la scuola non riesce quasi mai a organizzare una vera accoglienza per i non avvalentisi che raramente vivono in piena dignità il loro “stato di non obbligo” (vedi le incredibili vicende dell’ormai famosa “ora alternativa”,di cui hanno dovuto più volte interessarsi i giudici amministrativi e persino la stessa Corte Costituzionale!).
In sintesi la questione del rapporto fra laicità e scuola pubblica potrebbe essere riassunta così: la normativa vigente prevede quattro possibili soluzioni circa il rapporto fra scuola e fatto religioso, tutte di uguale dignità: a) insegnamento della religione cattolica; b) insegnamento materie alternative; c)attività di studio individuale assistito o meno; d) astensione della presenza scolastica in concomitanza con l’insegnamento confessionale. Solo se queste possibili soluzioni saranno vissute in una situazione di effettiva parità, si potrà affermare che l’insegnamento della religione cattolica non determina alcuna forma di discriminazione. Fino a quando, come adesso accade, questa parità non sarà garantita, la nostra scuola pubblica non potrà essere definita una scuola laica.
3) IL CROCIFISSO DI STATO
3.1 – Simboli religiosi e spazi pubblici Sergio Luzzato, docente di storia moderna all’Università di Torino ha di recente pubblicato (Einaudi editore) un simpatico libretto intitolato “Il crocifisso di Stato” nel quale con ironia, ma anche con amarezza, affronta il problema, per la verità non solo italiano (vedi la questione del velo islamico in Francia), dell’esposizione in uffici pubblici, scuole e fatti similari di simboli religiosi.
Ecco un altro aspetto della “questione laicità”di non secondaria importanza.Dal punto di vista religioso, il Crocifisso è respinto come simbolo dai Protestanti (eccezion fatta per i Luterani) e dagli Ebrei, per il divieto delle immagini contenuto nella Bibbia, e dagli Islamici per analogo divieto contenuto nel Corano. Per quel che riguarda i Protestanti diverso discorso va fatto per il simbolo della croce, che accolgono, perché ha un altro messaggio e si differenzia anche storicamente dal Crocifisso come esaurientemente spiega Luzzato ne su saggio.
Nel nostro Paese il problema si è posto esplicitamente per la esposizione del simbolo cattolico del Crocifisso nei seggi elettorali, nelle aule delle scuole pubbliche e nelle sale destinate alle pubbliche udienze negli uffici giudiziari. Sarà il caso di precisare che nessuna legge ordinaria ha mai imposto o vietato di esporre il crocifisso in uffici pubblici o scuole o similari luoghi, per cui dal punto di vista normativo si dovrà unicamente fare riferimento alle norme costituzionali sul rispetto della libertà di coscienza e di religione, la cui portata è stata assai ben precisata dalle sentenze della Corte Costituzionale riportate e commentate all’inizio di questo articolo.
L’esposizione del crocifisso nei luoghi predetti è dunque prevista soltanto in atti amministrativi, quali regolamenti o circolari, tutti, tranne uno, emanati dopo la presa del potere da parte del fascismo: circostanza che, ci sembra, specie per i lettori di questo periodico, si commenta da sé! A mio parere, tutti questi atti amministrativi si sarebbero dovuti ritenere già abrogati con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, perché contrastanti con le norme sulla libertà di coscienza e di religione quivi consacrata, ma, quanto meno, tale abrogazione avrebbe dovuto conseguire al nuovo concordato con la Chiesa cattolica del 1984, che aveva espressamente dichiarato non più in vigore il principio del cattolicesimo come religione di stato.
E invece il Ministero dell’Interno , con una nota del 5 ottobre 1984, afferma che le stesse sono ancora valide perché l’articolo 9 del nuovo concordato, dettato, come abbiamo visto sopra, a proposito della conservazione dell’insegnamento della religione cattolica nella scuola pubblica , dice che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, per cui il crocifisso sarebbe addirittura il simbolo della nostra civiltà. Ed a questo orientamento fa eco il Consiglio di Stato che in un parere espresso nel 1988, sostiene che il crocifisso è simbolo di un’etica collettiva e quindi universale “indipendente da una specifica confessione religiosa”.
3.2 – Cosa dicono i giudici ordinari La questione dell’esposizione del crocifisso nei seggi elettorali è giunta all’esame della Suprema Corte di Cassazione, la quale, nella sentenza n°439 del 1° marzo 2000, ritenendo giustificato motivo di rifiuto dell’ufficio di scrutatore la esposizione nei detti seggi del crocifisso, ha inequivocabilmente affermato che tale esposizione contrasta col supremo principio di laicità adottato dalla nostra Costituzione, e quindi col diritto da tale Costituzione garantito al rispetto della libertà di coscienza e di religione.
Sempre la Corte di Cassazione ha avuto occasione di esaminare la questione della esposizione del crocifisso nelle aule giudiziarie con la sentenza n° 5924 del 14 marzo 2011-e, pur ritenendo che un magistrato non può rifiutarsi di tenere udienza per la presenza, generale, di simboli religiosi, e in particolare del crocifisso, nelle aule giudiziarie della Repubblica, ha riconosciuto che la esposizione di tale simbolo religioso cattolico nelle dette aule confligge con il supremo principio costituzionale della laicità e non confessionalità dello stato e viola il diritto al rispetto della libertà di coscienza e di religione garantito dalla Costituzione. Sembra, dunque, potersi concludere che per la giurisprudenza dei giudici ordinari la esposizione del crocifisso in uffici pubblici non è legittima, perché gli atti amministrativi che la prevedono sono in contrasto con le norme costituzionali più volte richiamate.
Il giudice ordinario non ha il potere di revocare gli atti amministrativi, per il rispetto del principio della separazione dei poteri, ma il pubblico ufficiale non è tenuto ad osservare un ordine illegittimo. Se mi è consentito citare me stesso, quando ho ricoperto l’incarico di Presidente del nostro Tribunale, non ho disposto l’esposizione del crocifisso nelle aule di udienza del nuovo palazzo di giustizia motivando la decisione proprio in questi termini, e cioè per l’assenza di una normativa di legge al riguardo e per il contrasto tra la normativa amministrativa e le norme costituzionali sulla laicità dello stato.
3.3 – Cosa dicono i giudici amministrativi e quelli europei Diversa sorte hanno avuto i ricorsi sulla questione della esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica, dei quali sono stati investiti innanzi tutto i giudici amministrativi. Il Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, nel 2005, e il Consiglio di Stato, in sede di appello nel 2006, hanno giudicato che l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non confligge con i principi costituzionali sulla libertà di coscienza e di religione perché esso sarebbe, addirittura, un simbolo laico, simbolo della storia e della cultura italiane, simbolo dell’identità nazionale, simbolo di uguaglianza, libertà e tolleranza.
E’ probabile che tanti valdesi, leggendo queste sentenze, abbiano sorriso con molta, molta amarezza, ripensando ai loro antenati trascinati in catene davanti al crocifisso per sentirsi intimare piuttosto che eguaglianza, libertà e tolleranza, o l’abiura o la morte, e che molti italiani abbiano ripensato con altrettanta amarezza alla storia del loro Risorgimento, avversato con tanta durezza da chi, brandendo il crocifisso, negava che l’Italia fosse una nazione! La questione è stata portata, poi, davanti alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, emanazione del Consiglio d’Europa, che giudica sull’applicazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, accolta dall’Italia con la legge 4 agosto 1955, n°848. Questa Corte ha esaminato la questione in prima istanza ed ha pronunciato una sentenza di accoglimento della doglianza del genitore di alunni che lamentava, appunto, l’esposizione del crocifisso nelle aule frequentate dai propri figli, ma in seconda istanza ha riformato tale decisione, ritenendo invece che tale esposizione fosse consentita dalla ricordata Convenzione.
La prima sentenza richiama le decisioni della nostra Corte Costituzionale, che sono state riportate all’inizio di questo articolo, le quali stabiliscono con estrema chiarezza la natura laica del nostro stato; afferma poi l’insostenibilità della tesi dei nostri giudici amministrativi, sopra esposta, secondo la quale il crocifisso non sarebbe un simbolo religioso, ritenendolo invece soltanto espressione della fede religiosa dei cattolici; conclude, quindi, che, dovendo lo stato laico mantenersi equidistante e imparziale rispetto alle confessioni religiose, l’esposizione del crocifisso nelle aule della scuola pubblica viola il principio della libertà di coscienza e di religione, sia il diritto educativo dei genitori e quindi la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
La seconda sentenza, che essendo pronunciata in sede di impugnazione travolge ovviamente la prima, conferma che il crocifisso non può ritenersi simbolo laico e deve essere trattato quale simbolo religioso, ma introduce circa i simboli religiosi una distinzione che, per quanto a mia conoscenza, rappresenta una assoluta novità nel mondo del diritto. Sostiene infatti la Corte Europea che i simboli religiosi hanno una portata attiva che, se imposta, violerebbe il diritto di libertà di coscienza e di religione nonché il diritto dei genitori sull’educazione responsabile dei loro figli, e una portata passiva che, di per sé, non avrebbe un tale carattere. Se abbiamo ben capito, imporre atti di ossequio, devozione e simili al simbolo esposto costituirebbe violazione dei detti diritti, mentre la semplice esposizione del simbolo non avrebbe alcuna incidenza sui diritti medesimi.
Di qui la conclusione della sentenza nel senso che la semplice esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non confligge con la laicità dello stato italiano e non viola la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. Mi sia consentito esprimere il più assoluto dissenso da una tale lettura della esposizione di un simbolo religioso, anzi di un qualsiasi simbolo. Il simbolo, per sua natura, esaurisce il suo significato, la sua forza, la sua portata, il suo messaggio nella sua esposizione; per adempiere la sua funzione non ha assolutamente bisogno di atti di devozione o di ossequio. Si pensi alla imposizione di propri simbolo da parte di un potere egemone sui soggetti oppressi non già per ottenere atti di devozione o di ossequio, esclusi in partenza, ma per dimostrare, simbolicamente appunto, la presa di possesso e la propria autorità. Esponendo il crocifisso in un’aula scolastica la chiesa cattolica, e per essa l’autorità scolastica, non pensa affatto di promuovere atti di devozione o di ossequio, pur non escludendoli, ma mira invece ad imporre il segno della presenza di questa confessione religiosa in uno spazio che, secondo la stessa lettera della norma costituzionale, deve essere aperta a tutti, e perciò non “segnato” da nessuno.
La situazione su questa delicata questione della esposizione di simboli religiosi in uffici e aule pubblici è dunque del tutto insoddisfacente. La giurisprudenza amministrativa non convince e quella europea meno ancora, ma a parte questo la divaricazione tra le pronunce che si è sopra illustrata (da una parte la giurisprudenza dei giudici ordinari; dall’altra la giurisprudenza dei giudici amministrativi e di quelli europei) crea incertezza e confusione. Almeno per la scuola si dovrebbe giungere ad un orientamento che preveda la libertà per gli insegnanti di esporre o meno i simboli religiosi, al di fuori di qualsiasi imposizione, a seconda della composizione della classe, del programma che si svolge, della sensibilità e degli interessi manifestati dagli alunni. Mi pare invece che per gli uffici pubblici o per le aule ove si amministra la giustizia dovrebbe essere esclusa la esposizione di qualsiasi simbolo, religioso o meno, ad eccezione di quelli ufficiali dello Stato o dell’ente pubblico, perché qui il contrasto con i principi di laicità e di imparzialità dell’Amministrazione mi sembra difficilmente contestabile.
4) PER CONCLUDERE – La battaglia per la laicità in Italia, dunque,non è persa, ma è lungi dall’essere vinta. Per vincerla occorrerebbe innanzitutto che il cattolicesimo mutasse il proprio atteggiamento in materia e, in secondo luogo, che la cultura del nostro popolo accogliesse veramente diversità e differenza come valori. Solo la società convintamente plurale sa costruire davvero un’integrazione che non distrugga le identità, ma anzi le esalti in uno spirito di libertà. Le questioni aperte in tema di laicità sono ancora molte: menzioniamo solo quelle legate ad una procreazione responsabile ed assistita, attualmente affrontate da una legge sbagliata, perché pesantemente influenzata dalle discutibilissime opzioni cattoliche in questa materia, nonché quelle poste dai cosiddetti problemi di fine vita, per i quali si sta approntando una legge altrettanto discutibile e quasi sicuramente sbagliata, sempre per le pressioni esercitate da parte cattolica. Intendiamoci bene: nessuno contesta il diritto della chiesa, della cultura, del mondo cattolico di sostenere e battersi per le proprie scelte e le proprie visioni; ciò che si contesta è la pretesa che queste scelte e queste visioni siano le uniche giuste, e perciò non “trattabili”, sicchè l’ordine giuridico avrebbe l’obbligo morale di tradurle in norme cogenti per tutti. A ben guardare il problema è ancora una volta un problema di libertà.
In una Società ispirata a principi di laicità nessuno è obbligato a praticare un determinato culto, a seguire una determinata regola etica, a divorziare,ad abortire nei casi consentiti, a servirsi di una particolare assistenza in caso di procreazione, a cessare determinati trattamenti medici o curativi, e via elencando.
In una società siffatta il cattolico può essere interamente se stesso e può propagandare liberamente le soluzioni proposte dal proprio credo ai problemi che questi comportamenti sottendono. Ma non è accettabile che egli pretenda che i divieti o i comportamenti attivi che egli propone divengano norma di legge obbligatoria per tutti: questa è la fine della libertà.