Trucioli

Liguria e Basso Piemonte

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Il Giorno della Memoria, 70 anni fa, per non dimenticare l’Olocausto


Il 27 gennaio 2015 ricorre 70° anniversario della liberazione campo di concentramento di Auschwitz.

 

Il complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso di San Sabba

(foto ANED: www.deportati.it )

Da non dimenticare e tramandare ai giovani!

Elio Toaff, nella presentazione del libro – pubblicato da L’Arca Società Editrice dell’Unità spa nel 1996 – “Dal liceo ad Auschwitz – Lettere di Louise Jacobson“, ha scritto: ” Ogni testimonianza che viene alla luce e che riguarda l’Olocausto è come aggiungere una nuova tessera al grande mosaico della tragedia che ha colpito il popolo ebraico mezzo secolo fa. Quel mosaico non potrà mai essere completato, perché tanto grande è stata la dimensione della sofferenza che è impossibile riuscire a descrivere compiutamente l’offesa recata ad ognuna dei sei milioni di vittime.

Le lettere di Louise Jacobson sono piene di delicatezza e di drammaticità; esse riportano il pensiero e il dramma di tanti bambini e adolescenti che hanno mantenuto il sorriso della loro innocenza e del loro ottimismo anche sulla soglia dell’orrore e della fine prematura. La dimensione dell’Olocausto non si esaurisce nel tempo e tanto meno nella testimonianza dei superstiti. E’ un evento che è parte della storia e dell’essenza stessa dell’umanità. Tra le molte problematiche di quei tragici eventi c’è anche l’impegno rivolto a ciascuno di noi di mantenere la memoria dei Martiri e al tempo stesso di operare in maniera decisiva a favore dell’armonia fra gli uomini.

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LA RISIERA DI SAN SABBA

La Risiera – Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani dopo l’8 settembre 1943 [Stalag 339]. Verso la fine di ottobre, esso venne strutturato come Polizeihaftlager [Campo di detenzione di polizia], destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

Nel sottopassaggio, il primo stanzone posto alla sinistra di chi entra era chiamato “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in ciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri: tali celle erano riservate particolarmente ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto [tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sonno attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia]. Le porte e le pareti di queste anticamere della morte erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez [ora conservati dal Civico Museo di guerra per la pace a lui intitolato], ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini ance di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. A favore di cittadini imprigionati nella Risiera – ed in particolare dei cosiddetti”misti” ebrei coniugati con cattolici] – intervenne direttamente presso le autorità germaniche il vescovo di Trieste, mons. Santin, in alcuni casi con successo [liberazione di Giani Stuparichh e famiglia], ma in altri senza alcun esito [Pia Rimini]. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Un canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa ill forno alla ciminiera.

Sull’impronta metallica della ciminiera sorge una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici e segno della spirale di fumo che usciva dal camino.

Dopo essesi serviti, nel periodo gennaio – marzo 1944, dell’impianto del preesistente essicatoio, i nazisti lo trasformarono in forno crematorio, in grado di incenerire un numero maggiore di cadaveri, secondo il progetto dell’esperto “Erwin Lambert, che già aveva costruito forni crematori in alcuni campi di sterminio nazisti in Polonia. Questa nuova struttura venne collaudata il 4 aprile 1944, con la cremazione di settanta cadaveri di ostaggi fucilati il giorno prima nel poligono di tiro di Opicina. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo [ l’originale è stato purtroppo trafugato nel 1981 ].

Sl tipo di esecuzione in uso, le ipotesi sono diverse e probabilmente tutte fondate: gassificazione in automezzi appositamente attrezzati, colpo di mazza alla nuca o fucilazione. Non sempre la mazzata uccideva subito, per cui il forno ingoiò anche persone ancora vive. Fragore di motori, latrati di cani appositamente aizzati, musiche, coprivano le grida ed i rumori delle esecuzioni. Il fabbricato centrale, di sei piani, fungeva da caserma: camerate per i militari SS germanici, ucraini e italiani [questi ultimi impiegati in Risiera per funzioni di sorveglianza] nei piani superiori, cucine e mena al piano inferiore, ora adattato a Museo. L’edificio oggi adibito al culto, senza differenziazione di credo religioso, al tempo dell’occupazione serviva da autorimessa per i mezzi delle SS cola’ di stanza. Qui stazionavano anche i neri furgoni, con lo scarico collegato all’interno, usati probabilmente per la gassificazione delle vittime.

All’esterno, a sinistra, il piccolo edificio – ora adibito ad abitazione del custode – costituiva il corpo di guardia e abitazione del comandante. A destra, nella zona attualmente sistemata a verde, esisteva un edificio a tre piani con uffici, alloggi per sottufficiali e per le donne ucraine. Quante sono state le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i “rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio. Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori “quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo.

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IL LITORALE ADRIATICO

Dopo l’8 settembre 1943, data che segna la dissociazione della monarchia italiana dalla Germania e la proclamazione dell’armistizio, la Venezia Giulia cessa di fatto di far parte dello Stato italiano e, con la costituzione della zona di operazione dell’Adriatiches Kùstenland (Litorale Adriatico), diventa un territorio direttamente amministrato dal Reich. In tale modo l’istituzione del “Litorale Adriatico”, comprendente le province di Udine, Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Lubiana, sancì l’annessione di fatto alla Germania di un’ampia area gravitante sull’Alto Adriatico e sul bacino della Sava.

Il governo del “Litorale” viene affidato da Hitler al Gauleiter della Carinzia Friedric Rainer, nazista autriaco che odiava l’Italia. Secondo le sue valutazioni etnico-razziali il Friuli e la Venezia Giulia erano per la gran parte estranei alla nazione italiana per cui la loro separazione dallo Stato italiano si giustificava anche sotto questo profilo. L’ “alto commissario” Rainer assume in data 1° ottobre 1943 tutti i poteri politici e amministrativi e in breve tempo fissa i capisaldi della sua praticamente illimitata sovranità, sottoponendo prefetti e podestà al controllo di “consiglieri” tedeschi e stabilendo norme per l’impiego delle milizie collaborazioniste locali, sia italiane che slovene e croate, le quali a vario titolo e con diverse denominazioni, furono poste al servizio degli occupanti. Passano cosi alle dipendenze delle SS le formazioni della milizia fascista, che qui non si trasformeranno, come nella neo-costituita repubblica di Salò, in Guardia Nazionale Repubblicana, ma assumeranno il nome di “Milizia Difesa Territoriale”, e i vari reparti di polizia, tutti impiegati anche nelle operazioni di rastrellamento. Tra questi l’Ispettorato Speciale di P.S. Per la Venezia Giulia, agli ordini dell’ispettore generale Giuseppe Gueli, la cui sede era nella cosidetta, “Villa Triste” di via Bellosguardo, creato sin dall’aprile 1942 con specifici compiti di repressione della guerra partigiana e di controllo della classe operaia nelle grandi fabbriche. Tale Ispettorato – la cui sezione operativa divenne tristemente nota come “banda Collotti”, dal nome del suo comandante, il commissario Gaetano Collotti – continuò il suo “servizio” dopo l’8 settembre fornendo ai tedeschi una preziosa e fattiva collaborazione contro gli antifascisti e nella cattura degli ebrei. Prima della seconda guerra mondiale gli ebrei triestini erano circa 5000. Dopo le leggi razziali fasciste del 1938 e l’istituzione anche a Trieste di uno dei famigerati “Centri per lo studio del problema ebraico” (erano quattro in tutta Italia), molti ebrei decisero di emigrare all’estero. Ciò nonostante i nazisti riuscirono a deportare nei campi di sterminio più di 700 ebrei triestini. Di questi solo una ventina sopravvissero e fecero ritorno. Nella Risiera, inoltre, accanto agli ebrei triestini furono imprigionati e poi deportati anche moltissimi ebrei catturati in Veneto, in Friuli, a Fiume e in Dalmazia. Il controllo poliziesco, la repressione politica, razziale, antipartigiana, vengono affidati alla supervisione delle SS. Il cui comandante, Odilo Lotario Globocnik, triestino di nascita, legato ad Himmler e già organizzatore dei massacri di oltre due milioni e mezzo di ebrei in Polonia (Aktion Reinhard), si installa a Trieste con un nutrito seguito di “professionisti” della morte, già distintisi in modo sinistro nelle varie operazioni di sterminio in Germania, Polonia, U.R.S.S. e nei campi della morte polacchi di Belzec, Sobibor e Treblinka. Con Globocnik arrivano a Trieste gli uomini dell’Einsatzkommando Reinhard, ben novantadue specialisti tra i quali numerose SS ucraine, uomini e donne. Gli Einsatzgruppen o Einsatzkommandos erano reparti speciali, creati allo scopo di “condurre la lotta contro i nemici ostili al Reich alle spalle delle truppe combattenti” e di svolgere compiti di particolare “impegno” per l’attuazione della politica di occupazione, di repressione e di sterminio praticata dal Terzo Reich nei territori invasi. Questi gruppi dipendevano dall’RSHA, cioè dall’ufficio centrale della polizia di sicurezza del Reich (Reichssicherheits-hauptmat), a sua volta dipendente dal Ministero degli Interni alla cui testa era Reichsfùhrer SS e ministro Heinrich Himmler. Pochi giorni dopo l’8 settembre arriva a Trieste Christian Wirth, con alcuni suoi uomini che avevano partecipato all’Aktion Tiergarten 4, cioé, fin dal 1939, all’eliminazione di “malati inguaribili” tedeschi e successivamente di prigionieri dei campi di concentramento segnalati come “inguaribili” con false certificazioni dai medici di campo. L’Einsatzkommando Reinhard costituisce territorialmente diversi uffici contrassegnati dalla sigla R. Il gruppo che opera a Trieste ha la sigla R1, quello che opera a Udine ha la sigla R2, quello di Fiume ha la sigla R3. La sigla è impressa sui documenti e sulle celle della Risiera.

Il primo comandante dell’ Einsatzkommando a Trieste è Christian Wirth; dopo l’uccisione di Wirth, in una imboscata partigiana a Erpelle il 26 maggio 1944, gli subentra August Dietrich Allers. Il braccio destro di Allers e comandante della Risiera sarà Joseph Oberhauser.

La presenza di un tale “staff”, eccezionale per responsabilità direttive e organizzative nella politica di sterminio in Europa, nel “Litorale Adriatico” è giustificata dall’estrema importanza che tale territorio aveva per il Reich. Il “Litorale” è l’ultima conquista europea dell’imperialismo nazista. Trieste, l’Istria e il Friuli sono una piattaforma economica e politica dell’espansionismo germanico nel Sud – Europa e nell’area mediterranea e sono, nel contempo, una “cerniera” strategica essenziale fra il settore balcanico, sconvolto dalla guerra partigiana e minacciato dall’avanzata sovietica, il fronte italiano e la Germania meridionale. Gli sviluppi del conflitto, la ribellione eroica dei popoli qui conviventi, costringeranno l’apparato repressivo nazista ad abbandonare questa sua ultima conquista territoriale.


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IL PROCESSO

 

Si è concluso a Trieste nell’aprile 1976, a distanza di trent’anni, il processo ai responsabili dei crimini commessi durante l’occupazione tedesca alla Risiera di San Sabba. Erano accusati – fra gli altri – due nazisti Joseph Oberhauser, un birraio di Monaco di Baviera, e l’avvocato August Dietrich Allers di Amburgo. Il primo era il comandante della Risiera, il secondo era il suo diretto superiore fin dal tempo del Tiergarten 4, il centro organizzativo. della “operazione eitanasia” dei minorati mentali e fisici della Germania e dell’Austria. Alla sospensione, in seguito alle proteste levatesi in Germania da parte di coraggiosi uomini di chiesa, del programma di eutanasia – secondo i dati del Tribunale di Norimberga erano state già eliminate in nome dell’ “igiene razziale” circa 100.000 cosidette “bocche inutili” – il personale del “T4” passa in Polonia ove, nel quadro della “soluzione finale”, organizza i campi di sterminio di Treblinka, Sobibor, Belzec. Le fonti ufficiali polacche – le più prudenti – stimano in circa due milioni di ebrei e in cinquantaduemila gli zingari (dei quali circa un terzo bambini) uccisiin questi campi. Terminato il proprio compito in Polonia, questa gente – tra loro c’è Franz Stangl, il “Boia di Treblinka”, ritenuto responsabile da un tribunale tedesco della morte di 900.000 persone ed Erwin Lambert, lo specialista nella costruzione di forni crematori – viene inviato in Italia e si stabilisce a Trieste. Al processo per i crimini della Risiera di San Sabba il banco degli imputati è rimasto vuoto: parecchi di essi erano stati giustiziati dai partigiani, altri deceduti per cause naturali.

August Dietrich Allers è morto nel marzo 1975, Joseph Oberhauser è rimasto a vendere birra a Monaco. La giustizia italiana non ne ha chiesto l’estradizione in quanto gli accordi italo-tedeschi che regolano questo istituto si limitano ai crimini successivi al 1948. Il processo si è concluso con la condanna dell’ Oberhauser all’ergastolo. Il criminale nazista è deceduto all’età di 65 anni il 22 novembre 1979. Dunque un processo inutile? Al di là dell’originaria impostazione processuale fondata su un incredibile e inaccettabile distinzione fra “vittime innocenti” e “vittime non innocenti”, al di là di una logica formalistica che ha voluto dissociare i fatti criminosi dalle loro radici storiche e politiche, al di là di una condanna mai scontata, resta il fatto che alfine si è incrinata la coltre di silenzio scesa per oltre trent’anni sul lager di San Sabba.

Simon Wiesenthal, un ebreo che ha dedicato tutta la sua vita a far luce sui crimini nazisti e a ricercarne i responsabili, ha detto in merito al processo: “Non è solo un’esigenza di giustizia, ma anche un problema educativo. Tutti devono sapere che delitti come questi non cadono sul fondo della memoria, non vengono prescritti. Chiunque pensasse ad un nuovo fascismo deve sapere che, alla fine, sarà sempre la giustizia a vincere. Anche se i mulini della giustizia macinano lentamente”.


Nei prossimi numeri di Trucioli.it

Gilberto Costanza



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G. Costanza

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