Nell’autunno del 1938 Filippo Bonfiglietti, ingegnere, generale del Genio Navale in pensione, presentò il progetto di massima da lui studiato per un “Porto Ridosso per Pescherecci” da costruire in Loano. Si diede da fare con le autorità competenti per ottenere le necessarie approvazioni.
Il porto, per posizione e disegno, era molto simile a quello che fu poi costruito intorno al 1950. Era un ridosso per pescherecci perché a quei tempi la nautica da diporto non esisteva ancora, anche se in un documento del 1936, a firma dell’allora Podestà di Loano, sta scritto che “sarebbe di incentivo allo sviluppo dello sport nautico tanto salutare ed utile per la formazione di gente pratica del mare sana come è sano al disopra di tutto tale genere di sporto, e che è trascurato ora per il semplice fatto che non esistono che spiagge aperte”. Curiosa, perché lo sport nautico veniva visto non tanto come fine a se stesso, ma in funzione della sua utilità a formare gente pratica del mare: una cosa che ai nostri giorni non verrebbe in mente a nessuno.
Il generale Bonfiglietti fu il primo a progettare il porto e lo fece gratuitamente, sia pure su mandato ufficiale (nella sua lettera di trasmissione del 24 settembre 1938 scrisse “in relazione al mandato che mi avete cortesemente affidato, di esumare una mia antica idea circa un rifugio per pescherecci in Loano”). Tanto che qualche Sindaco di Loano, venti anni più tardi, propose che al porto venisse dato il suo nome, in segno di riconoscenza. Poi tutto fu dimenticato e non se ne parlò più.
Filippo Bonfiglietti era certo un personaggio inconsueto, soprattutto per i suoi tempi. Due lauree in ingegneria, civile e navale, una carriera militare iniziata come soldato in Cavalleria e terminata al massimo livello del Genio Navale, docente universitario e membro del Consiglio Nazionale delle Ricerche quando ne era presidente Guglielmo Marconi. Una vita passata soprattutto tra Roma, Spezia e Genova, passando spesso per Tivoli (dove era nato nel gennaio del 1868 e cui rimase affezionato per tutta la vita) e per Loano, (per aver sposato Margherita Mazza, nata a Genova da padre loanese) dove gli piaceva trascorrere estati e vacanze, e dove morì settantenne, nel dicembre del 1939. Alto, robusto, grandi baffi, occhi azzurri, capelli biondi precocemente canuti, voce profonda, un accento che qualcuno definì più toscano che laziale, come succede a chi passa la maggior parte della vita lontano dal luogo dove nacque, magari dopo aver sposato una donna di altri luoghi.
Dal 1924 era stato direttore dell’Ufficio Studi e del Comitato Progetti di Navi, presso il Ministero della Marina, aveva firmato i progetti degli incrociatori pesanti classe Zara e nel 1924 era stato incaricato di progettare la prima portaerei italiana: progetto che presentò nel 1929 e che fu bocciato – a quanto si diceva – da Mussolini in persona per un’evidente errore strategico, tanto è vero che dieci anni dopo si cercò di correre ai ripari trasformando senza successo un transatlantico in una portaerei, smantellata subito dopo la guerra prima di essere terminata. In pensione dal 1932, da allora si dedicò a diversi progetti personali a cui pensava da tempo. Tra questi, il porto di Loano.
Loano, col mare, ha avuto tradizionalmente un rapporto alquanto diverso da quello della maggior parte delle località liguri. Scesa dalle colline al mare piuttosto tardi, nel ‘300, come feudo dei Doria, è stata uno dei non moltissimi luoghi liguri mai saccheggiati dai saraceni, per via delle mura volute dai feudatari. I quali, peraltro, per incominciare costruirono il loro castello sul primo spuntone di roccia disponibile, fornito di acqua potabile in quantità, dandogli un aspetto civettuolo in pieno contrasto con la solidità della base inespugnabile su cui fu costruito.
Dai Doria, Loano trasse almeno altri due vantaggi: quello di essere coperta da un nome – quello del grande ammiraglio – che i saraceni rispettavano e temevano; e quello di essere indipendente dalla soffocante repubblica di Genova. Finché, verso la metà del ‘Settecento, Loano venne ceduta ai Savoia ed entrò a far parte, più o meno virtuale, del regno di Sardegna. A quei tempi i porti erano pochi: i Savoia, fino alla rivoluzione francese, ebbero solo Nizza. E Loano, prima feudo dei Doria e quindi isola Sabauda in mezzo alla repubblica ligure, fu per secoli il punto dove arrivava il sale dalla Sardegna, diretto al Piemonte a dorso di mulo, attraverso territori stranieri ostili, ancorché liguri: una strada lunga e scomoda, ma molto meno lunga e meno scomoda di quella che collegava il Piemonte al porto di Nizza.
A Loano, priva di porto, le imbarcazioni più grandi sostavano all’ancora e quelle meno grandi venivano tirate in secco. E la combinazione tra la ricchezza di sale e la ricchezza della pesca delle acciughe creava un’altra fonte di ricchezza: la produzione delle acciughe salate che, ancora negli anni successivi alla guerra, veniva fatta artigianalmente sulla spiaggia dalle donne. Le donne, circondate da squadre di gatti, pulivano le acciughe, le sistemavano in vasi di coccio, uno strato di acciughe e una manciata di sale finché, arrivate in cima al vaso, le coprivano con un pezzo di ardesia abbastanza piccolo da poter scendere nel vaso e ci mettevano sopra un sasso. I gatti facevano pulizia mangiando teste e interiora. Il peso combinato dell’ardesia e del sasso faceva emergere l’acqua emessa dalle acciughe: quando non c’era più acqua, le acciughe salate erano pronte e potevano essere spedite anche loro in Piemonte, dove finivano per diventare anche “bagna cauda”.
Loano, a quei tempi, aveva una ragguardevole flottiglia di una quarantina di pescherecci, per la maggior parte gozzi liguri, alcuni superiori ai dieci metri di lunghezza, ma niente porto. I pescherecci venivano tirati a terra faticosamente con l’aiuto di argani a mano sparsi lungo l’attuale passeggiata, all’altezza dell’attuale filare di palme verso mare. La situazione offriva diversi inconvenienti: innanzitutto, il tempo e la fatica per mettere a mare e per tirare a secco. Per alare le barche grosse occorreva una decina di uomini e ci voleva più di mezz’ora. Senza contare che con il mare grosso le operazioni diventavano pericolose per uomini e barche. Negli anni ’40 un grosso gozzo stracarico di pescato si spaccò in due atterrando sui marosi. E, quanto alla sicurezza, non va dimenticato che la risacca superava spesso il livello dell’attuale passeggiata, mettendo a rischio anche le barche collocate più in alto.
Quanto agli ancoraggi, quello più tranquillo era la rada a levante del Nimbalto, dove non a caso era stata costruita la Madonnetta. Ma la sua spiaggia era quasi del tutto scomparsa, il mare batteva direttamente sui muri di sostegno della strada (che fu Aurelia fino al 1942, quando fu costruita la circonvallazione, ossia l’Aurelia attuale), così s’imponevano importanti opere di protezione, anche sulla ferrovia che la sovrastava. Tuttavia, se un’imbarcazione veniva sorpresa dal libeccio, l’unico luogo dietro cui ridossarsi era Gallinara. Perché la rada della Madonnetta a levante del Nimbalto, l’unica protetta dal libeccio, non offriva nessuna protezione dalla forza del mare: ancorché, sulle stampe del ‘600, si mostrino sciabecchi e pescherecci a vela ancorati proprio in quella zona.
Quindi il nuovo porto trovò la sua naturale collocazione proprio nella rada della Madonnetta, che faceva parte della località “Portigeux” (Portiglioli, secondo il catasto) perché nel passato serviva di ridosso alle imbarcazioni. E ne vennero proposte due versioni, la seconda delle quali era un po’ più grande della prima, forse in previsione degli sviluppi della nautica da diporto.
In ogni modo, il porto rispondeva ai criteri che lo rendevano un ridosso per pescherecci di allora, quando non solo erano molto scarse le imbarcazioni da diporto, ma anche le automobili. Quindi non aveva parcheggi, il molo di sopraflutto non era fornito di una banchina transitabile, non erano previsti esercizi commerciali e neppure un cantiere, mentre era previsto uno scalo di alaggio. Perché le barche di legno di quel tempo e di quelle dimensioni dovevano essere riverniciate e sistemate ogni tanto, ma non c’era bisogno di un cantiere per fare questi lavori.
Da allora molte cose sono cambiate. Filippo Bonfiglietti morì nel dicembre 1939 (proprio a Loano, all’hotel Villa Chiara, di fronte al luogo dove nascerà il nuovo porto) e subito dopo ci fu la guerra. Così tutto venne accantonato, salvo essere ripreso, approvato e costruito negli anni ’50, con poche modifiche di rilievo. Il porto fu costruito un centinaio di metri più a ponente ma, quanto a bacino, era pressappoco eguale alla variante maggiore proposta a suo tempo. Le innovazioni più importanti furono un ampia banchina fornita di negozi sotto la prima parte del molo di ponente e una piccola area verso levante, destinata a cantiere, che a protezione richiese un netto prolungamento del molo di sovraflutto.
Solo che i negozi sulla banchina vennero costruiti solo in un secondo tempo e all’inizio il porto fu quanto di più rustico si potesse immaginare, senza pontili e con le barche ormeggiate sui moli di sovraflutto o ancorate in mezzo al bacino
Nel frattempo cambiò radicalmente il rapporto tra le barche da pesca e quelle da diporto. Per qualche anno il porto fu quasi vuoto, anche perché era capace di oltre quattrocento barche e, invece, le barche da pesca erano soltanto poche decine.
Intanto arrivarono motoscafi e barche a vela, poche unità. All’inizio, le barche a vela erano costituite da quattro o cinque Alpa 7 più il Bengalin del comandante Genta, un Ketch di una ventina di metri costruito dai cantieri Baglietto di Varazze. E, più tadi, il “Tex Willer” di Gian Luigi Bonelli, un Alpa 11,50 di colore blu, che all’epoca sembrava immenso. E’ significativa la foto che pubblichiamo, risalente alla fine degli anni cinquanta, che mostra il porto del tutto privo di imbarcazioni. Poi arrivò tutto il resto, a incominciare dalle barche dei cantieri Nicolotti di Avigliana (il Panda e il Koala), che di Loano fecero il loro porto di armamento.
Così, negli anni ’70 il porto si riempì di pontili galleggianti e arrivò ad ospitare 450 imbarcazioni di vario tipo e misura, impossibili da immaginare quarant’anni prima per quantità e qualità. Il porto era buono, l’accessibilità eccellente anche con condizioni molto avverse, la risacca al suo interno modesta anche con mari cattivi, la diga foranea abbastanza alta da essere superata solo da qualche spruzzo occasionale. In compenso il servizio lasciò sempre a desiderare e il problema più grande fu sempre quello dei parcheggi. All’estremità di levante venne costruito un cantiere per le riparazioni, con un grande capannone, brutto ma utile.
Finché, negli anni ‘80, arrivò l’idea di quadruplicare il porto e di farne un oggetto di lusso. L’idea venne da Max Frey, editore svizzero nato a Loano, a quei tempo proprietario del castello del Borgo, quello che era stato costruito dai Doria. Il porto di Loano era strapieno, la rada della Madonnetta era tuttora disponibile e il nuovo progetto la coprì tutta, fino al confine con Pietra Ligure. Così, alla superficie del porto venne data una dimensione superiore a quella del Portosole di Sanremo, anche se il numero di barche non crebbe in proporzione: nel vecchio porto ce ne erano circa 470, in quello nuovo numeri ne sono stati indicati molti, da 1100 a 1400, variabili in funzione della grandezza delle barche ormeggiabili e dello sfruttamento più o meno intensivo della superficie. La diga foranea è stata pensata e costruita per resistere a qualunque condizione di mare. E di essa è stata realizzata una passeggiata lunga un chilometro. Sono stati creati un nuovo cantiere, nuovi locali di intrattenimento. I pontili sono stati forniti di ormeggi moderni e, al centro del porto, venne creato anche un minuscolo albergo a cinque stelle, con una decina di camere. In altre parole, è stata costruita una “Ferrari dei porti” che, al momento attuale, è tutt’altro che piena, un po’ perché a riempirla ci vorrà tempo, un po’ perché i prezzi sono stati tarati sui massimi della categoria. Incredibilmente, a nessuno è venuto in mente di poter inglobare il porto vecchio nel porto nuovo, così come era logico e come è stato fatto a San Jean Cap Ferrat, a Cavalaire e a Sanremo (per esempio) con il vantaggio, neppure immaginato, di lasciare le cose così com’erano per ciò che già esisteva, senza creare traumi per nessuno.
Così, dal punto di vista degli utenti tradizionali, l’iniziativa è stata traumatica. Costoro hanno dovuto vivere per anni al centro di un cantiere edile polveroso, rumoroso, soggetti a limiti pesanti, a trasferimenti forzosi e a percorsi di guerra, conclusi con un aumento dei prezzi che ne ha causato una fuga in massa. L’idea che si potesse lavorare su una parte del porto, terminarla, trasferirvi gli utenti e ricominciare dall’altra parte sembra non essere stata considerata.
Il porto Bonfiglietti del 1938 era stato concepito come ridosso per pescherecci e, come tale, in rapporto al numero di barche di allora era anche troppo grande, perché pensare alla nautica da diporto in quegli anni era davvero una prova di coraggio: però era stato concepito in due versioni e quella riprodotta da noi nella prima figura era la maggiore delle due, più grande del 20% circa.
Il porto realizzato negli anni ‘60, come abbiamo già detto, aveva all’incirca le stesse dimensioni del porto Bonfiglietti versione grande. Venne costruito quando la pesca, a Loano, stava perdendo importanza, anche se nessuno sembra che se ne fosse accorto. Lo si capisce da come, nelle foto anni ‘60, l’insieme delle barche da pesca sembri un nulla nel porto quasi vuoto. In compenso, vi si stabilirono una dozzina di pescherecci molto più grandi, provenienti dal meridione d’Italia. Il porto fu riempito più tardi, invece, dalla nautica da diporto: uno sviluppo abbastanza lento, per la verità, che condusse alla saturazione in una ventina d’anni.
Il porto attuale è tutt’altro, con dimensioni paragonabili a quelle di Sanremo (Portosole), di Lavagna, di Rosignano Solvay, ma anche di Mentone (Garavan), di Cannes, di Nizza (Saint Laurent du Vare), di Antibes. E’ in grado di ospitare anche imbarcazioni molto grandi, oltre cinquanta metri, ed è dotato di infrastrutture poderose, per numero e per eleganza, a incominciare da oltre mille posti auto e da diverse centinaia di grandi autorimesse. L’insieme degli edifici è decisamente gradevole, sia come forma che come struttura, ma il pezzo più bello è senza dubbio la splendida passeggiata a mare lunga più di un chilometro, ricavata sopra la diga foranea. E la diga foranea è davvero poderosa, costruita per resistere alle mareggiate più violente e dotata di una larga “berma”, ossia di un altro molo, esterno e a livello del medio mare, capace di frangere le onde prima che arrivino alla parte emersa della diga. L’unico difetto dell’insieme – se difetto si può chiamare – è che non consente le emozioni dovute al frangere dei marosi sugli scogli: perché i marosi non frangono ma si addormentano sulla berma..
Ma l’aspetto principale del nuovo porto è nell’impulso che potrà dare al futuro di Loano: e non solo a quello di Loano, ma anche a quello di Pietra Ligure e dell’intera piana.
Loano, nell’ultimo secolo è sempre stata meno nota di altre località della Riviera – come Alassio e Finale – pur non essendo inferiore né per struttura, né per storia, né per posizione. Questo, forse è dovuto al fatto che Loano, per qualche ragione, non è stata altrettanto “colonizzata” nell’Ottocento dagli stranieri (soprattutto inglesi) come è successo ad Antibes, a Cannes, a Mentone, a Bordighera, ad Alassio, a Nervi.
Loano, da oltre un secolo, ha una delle passeggiate a mare più belle della Riviera Ligure, lunga più di due chilometri. Loano è stata al centro di una battaglia così importante da averle meritato il proprio nome al primo posto sull’arco di trionfo di Parigi. E la struttura originale di Loano è rimasta quasi intatta, malgrado la discussa edificazione degli anni ‘50 e ‘60: un’edificazione che tuttavia, in fondo, è stata fatta soprattutto a spese degli orti a monte del “Borgo di fuori”, solo due file di edifici seicenteschi lungo il carruggio principale, una verso mare e una verso monte. Mentre il “Borgo di dentro”, il più antico, quello cintato dalle mura, è ancora come nel Seicento, ivi inclusi due bastioni, la torre pentagonale e più di metà delle mura originali.
Tuttavia, negli anni ‘50 Loano era ancora un paese dell’800, con il suono del maniscalco vicino alle porte di Passorino e con l’effluvio degli odori più incredibili quando si camminava lungo il Caruggio principale. Quando si voleva trovare qualche negozio più moderno si andava ad Alassio o, al minimo, a Finale. Poi, pian piano, le cose sono cambiate e le differenze sono quasi sparite.
In ogni caso i valori di Loano c’erano già, anche nell’Ottocento. Forse non sono bastati a stimolare l’orgoglio dei loanesi. I quali accettano che il loro carruggio principale sia chiamato “budello” dai villeggianti più beceri e, anzi, li imitano. I quali hanno accettato che i nomi originali di tante strade siano stati sostituiti con nomi di poeti come se, in Italia, non bastassero le cinquemila strade già intitolate a Dante, a Manzoni e a Carducci: banale per banale, tanto valeva numerarle come in America. Il Gioco del Pallone si chiamava così perché era proprio il gioco del pallone: poi è diventato “Largo Cadorna” a celebrare chissà perché il generale italiano più importante, più discusso, più spietato e più fucilatore della Grande Guerra. Il “Borgo di dentro”, del Trecento, nella vulgata locale, è stato svilito a “carruggetti orbi”. La bruttezza di Corso Europa è servita ad esaltare il senso di colpa locale. La battaglia di Loano, durata due giorni coinvolgendo ottantamila (!) uomini, con i suoi diecimila (!) morti, con i suoi complicati movimenti di truppe, con le sue battaglie e scaramucce su un’area di cinquanta chilometri quadrati, da Borghetto a Calizzano, dal Melogno a Pietra, non ha trovato ancora nessuno capace di cantarne nulla: in proposito non esiste lo straccio di un aneddoto, e al luogo dove Massena arringò la truppa prima dell’assalto fu assegnato per cinquant’anni un nome qualunque: forse ci si è resi conto della sua importanza solo quando qualche loanese, in vacanza a Parigi, ha visto il nome di Loano sull’Arco di Trionfo. E fortuna che, scolpito nel marmo, è in Francia dove nessuno può toccarlo, altrimenti avrebbero rubato a Loano anche la battaglia: qualcuno ci ha provato. Loano è stata per un secolo un’isola sabauda incastrata nel territorio dell’ottusa Repubblica di Genova, era il luogo dove arrivavano dalla Sardegna le navi cariche di sale destinato al Piemonte: nessuno se lo ricorda. Il sale e le acciughe salate dovevano arrivare a Bagnasco a dorso di mulo, perché la Repubblica Genovese rifiutò sempre di fare una strada decente. Loano è stato il luogo dove vissero e prosperarono i Rocca, una grande famiglia di armatori che nell’Ottocento possedeva innumerevoli navi salvo fallire per poi resuscitare nel Novecento quando creò il gruppo Techint, la società Italo-Brasiliana più importante del mondo, il maggior produttore di acciaio dell’America Latina. Eppure nessuno lo dice e nessuno lo sa. E il nome di Gianfelice Rocca è noto solo a qualche iniziato.
Ed ecco che, finalmente a Loano c’è qualcosa che non può essere minimizzato, né trascurato, né autofustigato, né nascosto, né dimenticato. E’ un porto grande, eccezionale per dimensioni, per estetica e per sicurezza. Un porto che raddoppia la passeggiata a mare, portandola fino al confine con Pietra Ligure e fino all’estremità della diga foranea. Un porto che è il triplo di quelli di Alassio e di Finale, più grande di quello di Sanremo, più comodo del Porto Antico di Genova, per uscire dal quale bisogna navigare a tre nodi per mezz’ora. Un porto, nel suo genere, tra i più straordinari d’Italia se non il più straordinario in assoluto. Più bello di tutti per architettura. E del tutto privo di abitazioni e di condomini più o meno surrettizi, come è successo quasi dappertutto, Francia compresa. Un porto che non dovrà assolutamente diventare “solo” un costoso parcheggio di inutili barche da diporto.
Resta solo da domandarsi se e come un’integrazione tra porto e abitato potrà avvenire, e quali vantaggi reciproci potrà dare. Si dovrà pensare come creare, adattare, organizzare locali tipici nel centro di Loano per accogliere una clientela del tutto diversa dal solito. Occorreranno iniziative per valorizzare i “caruggetti orbi”, la rete viaria interna del “Borgo di dentro”, tuttora negletti per quanto caratteristici. Si dovranno trovare luoghi suggestivi e non troppo lontani, dove le imbarcazioni da diporto possano dar fondo per brevi gite, riconsiderando i divieti che stanno rendendo impossibili la gita domenicale alla Gallinara e ai Saraceni: per non costringere le barche ad espatriare in Costa Azzurra e in Corsica. Perché la ricchezza prodotta dal porto va tenuta a Loano, non regalata agli altri con la superficialità che permette ai loanesi di sentir dire “Budello” senza infuriarsi: non va dimenticato che a Cannes, a Nizza, a Tolone, a Marsiglia e a Saint Tropez c’è tutto un sistema per aiutare le barche da diporto a passare una giornata in giro e rientrare la sera. A Loano non c’è, e neppure in Liguria.
Si dovrà riconsiderare l’entroterra come un tutto unico. Perché il porto si trova a Loano, ma è altrettanto vicino a Pietra Ligure, che pure lo ha subito col disgusto di chi vede un ectoplasma, senza darsi la pena di capirne l’importanza: due paesi diversi per ragioni amministrative, tradizionalmente ostili per una rivalità storica di cinquecento anni, mentre dovrebbero essere un tutto unico. Così come lo sono Rapallo e Santa Margherita, Chiavari e Lavagna, Oneglia e Porto Maurizio (ormai diventati Imperia da quasi un secolo), Alassio e Laigueglia, Diano Marina e San Bartolomeo.
Al servizio di Loano, Pietra e del loro porto si dovrà creare una stazione ferroviaria importante (anche se Trenitalia non sembra averlo ancora capito), si dovrà sviluppare una rete viaria integrata che includa un’Aurelia bis ragionevole per l’intera piana di Loano, Pietra, Borghetto, Borgio, Toirano e Boissano. Si dovranno creare nuove aree residenziali di pregio e quindi si dovranno nuovi piani regolatori integrati.
Non ci vuole molto a capire che il porto potrà stimolare innumerevoli idee innovative di tipo turistico, amministrativo, urbanistico: idee che potranno portare lontano oppure no, secondo come verranno capite, accolte e sviluppate. E secondo come verranno superati i campanilismi locali.
Filippo Bonfiglietti
20 gennaio 2010