Vergogna! Risuona non di rado la parola da parte di italiani indignati. Tra i luoghi più frequenti, negli ultimi tempi, ci sono i palazzi di giustizia. E’ successo nel caso ETERNIT e nel processo per il terremoto de L’Aquila. Polemiche ed indignazione anche dopo la sentenza Cucchi. Le decisioni possono e debbono criticarsi, ma sono decisamente pericolosi e poco meditati, a mio parere, gli interventi di importanti giornalisti sulla stampa ed in TV che, senza alcun contraddittorio e puntando su una retorica fine a se stessa, pretendono di ergersi a custodi della sensibilità umana da cui dovrebbero derivare le sentenze.
C’è da indignarsi, sono d’accordo. Ma basta davvero gridare vergogna all’indirizzo di chi ci si trova davanti? E’ utile ? E’ giusto? Ce la prendiamo contro l’autista del bus che non si ferma perché stracarico di passeggeri o contro l’impiegato allo sportello perché la coda è troppo lunga. Vergogna, ci viene da dire e, talora, lo diciamo. Ma che c’entrano loro? Il numero di autobus che serve quella linea non lo decide l’autista; nemmeno spetta all’impiegato decidere il numero di addetti da destinare al disbrigo delle pratiche per il pubblico.
I magistrati sono lì, per applicare la legge, utilizzando strumenti tecnici che il loro sapere e la loro esperienza suggerisce. Possono e devono anche accettare di essere considerati una vergogna della giustizia. Ci sta se ad urlarla sono le mogli, i figli, i prossimi congiunti di chi è stato ucciso dal suo lavoro perché ingurgitava fibre di amianto che altri gli facevano respirare in libertà. Ci sta se a scagliarla sulle toghe, quella vergogna, sono le donne e gli uomini che hanno perso i loro cari e le loro case dopo un terremoto.
Quelle toghe s’indossano anche per questo; s’indossano quando i terroristi ti uccidono per strada o la mafia ti fa saltare in aria; s’indossano quando prevedi che quella decisione porterà a quell’urlo, straziante e dignitoso, di vergogna. In fondo sarebbe facile evitare quell’urlo: basterebbe decidere diversamente. Ci sono casi in cui un giudice sa perfettamente che una certa interpretazione della legge porterà delusione ed avversità, facilmente ovviabile adottandone un’altra, che, viceversa, farebbe lucrare consenso. La conferma della condanna per la vicenda ETERNIT avrebbe avuto il sostegno di un intero comune, Casale Monferrato, e l’adesione morale della stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Perché i giudici non l’hanno fatto, allora? La risposta è tanto semplice quanto incompresa. Devono decidere secondo coscienza, non secondo consenso. Una coscienza formata dalla propria esperienza tecnica, dall’assimilazione del proprio ruolo di garanti imparziali dei diritti di tutti, dalla coerenza con il proprio pensiero giuridico. Se decidessero seguendo gli umori e le aspettative del popolo, finirebbero, prima o poi, per essere in balìa non tanto della volontà dei cittadini, difficilmente consultabile ed enucleabile, ma di chi è più capace di autorappresentarsi all’esterno come il miglior custode di quell’apparente volontà collettiva. Sarebbero decisioni adottate prescindendo dall’analisi del caso concreto, dallo studio faticoso degli elementi di fatto e dalla loro riconduzione ad un inquadramento giuridico. Sarebbero decisioni manipolate, tipiche di un regime fondato sulla propoganda. Ci conviene come cittadini? Nell’immediato potremmo esserne sollevati; le decisioni conformi ad un’attesa alimentata dalla propaganda, danno indubbiamente sollievo; cosi come le decisioni che obbediscono ad un senso di giustizia che appare collettivo. Ma il giudice non puo permetterselo. Le decisioni del giudice secondo la coscienza del popolo nella storia hanno portato ai regimi dittatoriali o al governo delle oligarchie; il governo, cioè, di coloro che sono in grado di meglio autopresentarsi come custodi ed interpreti di quella coscienza, una coscienza impalpabile, magmatica, manipolabile da alcuni ai danni di altri. La rincorsa del consenso da parte del giudice porterebbe a sacrificare l’eguaglianza e, con essa, la democrazia.
In realtà dietro quella vergogna, urlata e dignitosa, dei congiunti delle vittime dell’amianto c’e qualcosa che merita di essere indagata, oltre che rispettata: c’è il diritto di quelle persone ad essere risarcite e c’è il regime della prescrizione del reato. Su entrambe i giudici non possono nulla, perché la responsabilità è di altri. Ed allora, quella vergogna che viene urlata ai giudici, come agli autisti del bus o all’impiegato allo sportello, esaurita la rabbia del momento, varrebbe la pena convertirla in indignazione, determinata e ragionata, ed indirizzarla verso chi la merita, verso chi può e dovrebbe cambiare il corso della vergogna.
Pasquale Profiti
(magistrato)