Trucioli

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Gabriele D’Annunzio a Varazze: lo scandaloso rapporto con la giovane Evelina Morasso


Oltre che essere celebre per le sue opere in poesia e in prosa e per la sua avventurosa vita di “vate e militare”, Gabriele d’Annunzio lo fu anche per le sue numerose amanti.

Una di queste fu la giovane Evelina Morasso che il poeta conobbe a Varazze: lui 75 anni, lei meno di trenta.

L’incontro avvenne grazie all’amico Mario Morasso, editore, giornalista e scrittore genovese, che lo ospitò nella sua villa. Proprio su incarico della Gazzetta di Venezia, Morasso aveva intervistato D’Annunzio e tra i due nacque una sincera amicizia.

D’Annunzio conosceva già Varazze perché nel 1932 si era fatto costruire dai locali cantieri Baglietto un motoscafo cabinato a cui aveva dato il nome di “Alcyone“, per ricordare la sua più importante raccolta poetica.[vedi Tiziano Franzi, Varazze nei secoli, Erga ed., Ge, 2024]

Lo yacht Alcyone costruito per Gabriele d’Annunzio dai cantieri Baglietto di Varazze

Villa Morasso è ancora esistente sulla Punta Aspera e confina con il Castello Casati Cappelli; da essa si gode di una vista aperta sulla cittadina che, nei giorni sereni, spazia oltre il monte di Portofino.

Varazze, villa Morasso

La conoscenza tra i due fu l’origine di uno dei tanti scandali amorosi in cui venne coinvolto D’Annunzio e che coinvolse anche Varazze.

Evelina, la figlia di Morasso, e D’Annunzio si innamorarono nonostante lui avesse quasi 75 anni e lei meno di trenta. Ma lei era già sposata con il conte Scapinelli di Leguigno e lui con la duchessa Maria Hardouin di Gallese.

Nonostante questo, il rapporto d’amore fra i due continuò per anni e fu molto intenso.

La contessa Evelina Scapinelli Morasso fu ripetutamente ospite del Vittoriale a Gardone Riviera fra il 1936 e il 1938 e il “vate” nutrì per lei un sentimento intenso, profondo, con esplitici accenti erotici e passionali.

Ce lo rivelano le 228 lettere di DAnnunzio inviate alla contessa, chiamata dal poeta, Manah, Maya o Titti, secondo il suo speciale gusto onomastico di appropriarsi delle persone assegnando loro nuovi nomi, che fanno parte dell’epistolario D’Annunziano donato alla Fondazione d’Annunzio da Martino Zanetti, da cui si evince un rapporto erotico e sentimentale molto intenso fra i due.

Annota Giordano Bruno Guerri, attuale presidente del Vittoriale degli italiani « Martino Zanetti, presidente e titolare di Hausbrandt, marchio storico del caffè, ha conservato queste carte, credute disperse, per trent’anni. Erano appartenute al collezionista Mario Guabello. Zanetti le ha lette e rilette, tenendo quelle giovanili sempre a portata di mano, nel cassetto della scrivania. Ha deciso di donarle «perché è giusto che tornino a casa». Un regalo generoso, il più importante nella storia del Vittoriale.»

Evelina fu l’ultimo amore del Comandante, che stava per compiere 75 anni. Colta e spiritosa, la giovane donna non è stata una delle anonime ammiratrici e impiegate del sesso che negli ultimi anni facevano ressa davanti alla porta del Poeta.

Era la moglie del conte Scapinelli, da cui aveva avuto una bambina, e soprattutto figlia di Mario Morasso, amico di D’Annunzio e ideologo che aveva influenzato molte avanguardie, a partire dal futurismo. È stata presentata al Vittoriale da Antonietta Treves, la “Comarella“, alla quale D’Annunzio scrive il 4 giugno 1936: “Tu hai voluto e saputo farmi un ultimo dono vivente” “Nessuno meglio di me poteva conoscerne il pregio”.

Scrive ancora Giodano Bruno Guerri: «Elegante, filiforme, affusolata nei lunghi vestiti di sartoria, le piaceva farsi fotografare di profilo: il volto severo, lo sguardo ora perso nel vuoto ora rivolto alla macchina, con una punta di compiaciuta ingenuità. “Una donna di alto stile:Finalmente – conclude Gabriele in una lettera ad un’amica – “dopo tante donne addomesticate”.
Per lui sembra il preannuncio di un’ultima gioventù gaudente, ma si trasformerà in una lunga appendice di felicità e tormenti: uno stillicidio esaltante e insieme doloroso, di cui così scrive a Evelina: “La vecchiaia rende melenso e vile anche un eroe” “Voglio morire”, le confessa, “Tu non puoi amarmi. Ed io sono tanto decaduto che non mi ricordo, in una cabala d’or è molti anni, d’aver scelto Amare senza essere amato.

La giovane cerca, inutilmente, di rassicurarlo: “Ti supplico di non parlarmi di vecchiaia. Se tu sapessi come in questi due soli giorni di lontananza io ho pensato e desiderato te. Mi sono sentita io vecchia ed inutile e stupida. Sei tu la mia giovinezza ed il mio amore e il mio respiro”. Evelina sa come solleticare la passione di Gabriele, e sfodera abiti e acconciature studiatissime, da perfetta femme fatale. “Indosso una veste spumosa, fiorita come il tuo giardino”, gli scrive nel luglio del 1937. E poi: “Le mie gambe inguainate nelle nuovissime calze raggiungono la tanto lodata perfezione di quelle di Mistinguette”. Altrove promette anche di vestirsi “di tartaruga perché le carezze siano più lente”. D’Annunzio le ha fatto dono da subito di abiti, stoffe, volpi argentate e profumi: ora si accontenta di un meno sperimentale, e meno impegnativo, Chanel n. 5: “Perché sa di te”.»

Negli anni dell’amore passionale, più volte la giovane contessa si fa accompagnare dall’autista del Vittoriale a Milano, in via della Spiga dove ha la propria abitazione e in quello che oggi è definito “il quadrilatero della moda”, per fare acquisti. L’auto su cui viaggia è una delle preferite da D’Annunzio, amante tanto delle belle donne quanto delle belle vetture. Si tratta di una Alfa Romeo berlina Touring 4 posti, targa BS 10764, soprannominata per la sua linea leggerissima “Soffio di Satana“.

La “Soffio di Satana”

Il rapporto amoroso fu, come già detto, molto forte, vissuto dal poeta con grande intensità, quasi come sfida alla vecchiaia che ormai ne stava compromettendo il fisico.

Nelle lettere, tutte scritte su carta intestata del Vittoriale che ne reca il logo (realizzato dal poeta stesso) si alternano espressioni di aperto erotismo (talora accompagnati da espliciti disegni erotici), ad altre di affettuoso trasporto d’amore, ad altre ancora velate da profonda malinconia e tristezza per la consapevolezza di non potere più vivere quella passione nella completezza che egli tanto vorrebbe.

In una lettera a Evelina del 18 giugno 1936 D’Annunzio scrive:

« Manah, dopo quella selvaggia febbre di iersera, dopo quella vorace voluttà tra due precipizii, io mi rifugiai nell’Officina con la Malinconia senza sussulti. Seppi che tu per fortuna e per saviezza eri andata a mensa con Luisa. Allora scesi nella nostra stanza, in quella del Prigione. Ti avevo dato tutto, con tutte le carezze. Ero insonne da tre giorni e digiuno da due. Dopo aver divorato la tua carne odorante, non avevo nessuna voglia di cancellare in me i tuoi sapori con gli intrugli della cucina comune. Ma fui preso da una specie di letargo, e non mi svegliai se non dopo la mezza notte.

Non venni a cercarti, per misericordia di te. Sperai che tu ricevessi dal Dio carnale il meritato sonno. Per disanimarti feci spegnere le lampade.

Ma la Dessa Voluttà, con le tue forme, si giacque meco.

Non mi eri piaciuta mai tanto. Anche le tue pesche liguri mi parvero scipite al paragone.

«Tre + tre + tre e una donna.» La donna assommava in sé cento + cento + cento frutti.

Sii laudata.

Io sono sveglio dalle sette, perché ho voluto salutare Luisa che partiva per la sua cura penosa.

Ora m’è detto che anche tu sei sveglia, e che hai preso prima il caffè e poi il latte!

Quando potrò baciarti le belle zampe?

Qui c’è un altro guaio.

Il camino del mio Bagno era per cadere. Gli operai lavorano sul tetto.

Posso salire per il consulto? Come vorrei ritrovare nel tuo stretto letto la voluttà di iersera, simile al delirio di un fauno e di una ninfa quasi iddia su l’orlo di una rupe tremenda!

Il mio letto è fresco. I colpi sul tetto rinnovellano il pericolo. È bello delirare con la minaccia delle tegole sul capo.

Ho sete e fame del tuo seno.

Gabri

18.VI.’36.

In un’altra ancora: « Manah, dove sei? che fai?

sei perduta nei labirinti del Vittoriale?

tendi agguati nel Giardino?

Manah, io ho dormito, nel sogno tessendoti questa veste nera che si parta da’ tuoi òmeri bianchi senza offenderli.

Io solo potrò aprirla o sollevarla per toccare il tuo triangolo bruno là dove la tua pelle è ancor più tenue.

Io ora entro nell’acqua blu. Poi salirò all’Officina. E griderò senza musica finché tu accorra.

Ti offro il mio libro arcano, e pongo fra le pagine il mio segnale come vorrei porne uno tra le due carezze, o fra due pieghe del tuo spirito ove non è dato leggere.»

In altra dell’8 ottobre: « Titti, sono rimasto a lungo nel tuo letto: nel tuo odore, nel pallido e arido fiore del tuo corpo magico, rimanendo pur sempre con la bocca premuta sul tuo cespo bruno, a tratti sonando il doppio flauto su le tue gambe di corritrice favolosa.

Ero ebro di te, e soffrivo di te.

Ora soffro di te. La gelosia di te mi tortura senza pause.

Bisogna che tu ritorni alla tua casa di seduttrice, e che tu mi lasci morire di consunzione.

Ero libero e insofferente.

Ora non posso se non morire.

Mi prolunghi nel sangue una febbre che i fantasmi attizzano.

E non ho la forza di ucciderti senza che tu abbia il tempo di guardarmi.

Sono fatto di te.»

Nel luglio dell’anno seguente: « Amica nemica; Delizia delle delizie, Tormentatrice di là da tutti i tormenti, alla fine del tuo foglio tu mi raffiguri la tua bocca sovrumana nell’atto di farla più rossa col minio d’inferno… Volevi bruciarmi? sapevi di bruciarmi?

Piccola, piccola mia, sono stregato, sono attossicato. Non posso resistere fino a domani. Ti chiedo la carezza della bocca, quella dell’altra notte, con la Neve: nella piccola stanza dell’incantesimo e del precipizio, o nell’Officina, o nel letto del Prigione, dove tu vuoi.

Se io potessi ardirmi di dirti la mia scelta, io ti direi: «nella stanzetta fatata.»

Se non vuoi, mandami un cartello con una ingiuria sanguinosa (ahi!)

Ma, se hai il ricordo e la pietà, fammi sapere a voce il consenso con un semplice «Sì».

Perdonami. Ho ritrovato la tua scatola nielata dinanzi al tuo ritratto in piedi presso la Colonna.

Ti bacio la fica di là dalla sciagura senza rimedio, prima di domani. Il domani è sempre incerto.

Gabri»

E nell’ottobre dello stesso anno: « Cara cara, io sono stato molto male fino a ora.

Ma più male, più male, pensando che tu sei qui e che non puoi – non devi – venire accanto a me.

Il mio male è irreparabile. Non avevo mai sentito fino a oggi, così profondamente, l’orrore della vecchiezza. Ecco che il coraggio mi manca: dico il coraggio di lottare.

Ho la morte nelle ossa: «la corporal sorella morte.»

Se tu non fossi qui, se io non dovessi accettare il tuo sacrifizio – io che in tutta la mia vita non ho accettato il sacrifizio di alcuno, pronto sempre io a sacrificarmi con un sorriso in pace e guerra – forse potrei sforzarmi di curarmi, di consultare il gran medico, con la speranza del miracolo di rivederti, di stringerti per un’ora a me. Forse.

Piccola, siimi indulgente e pietosa. Non è colpa mia che il carico degli anni mi opprima, e che io tanto ti ami.

Gabri»

Questa alternanza di ardori, autocommiserazione, passione e dolore convincono D’Annunzio che il rapporto con Evelina è diventato ormai per lui più letale che corroborante. Così, nell’ottobre 1937, impedisce alla giovane contessa di presentarsi ancora al Vittoriale, se non come amica.

E’ per il vate il crollo di tutte le illusioni, l’amarissima consapevolezza del progressivo disfacimento di quel corpo carnale che aveva attratto a sé tante amanti e che ora lascia il posto soltanto alla sofferenza.

Così commenta Giordano Bruno Guerri: «”Gli abiti non mi servono, io mi facevo bella per te, ero bella per te”, gli scrive lei nell’ottobre del 1937, quando il Poeta l’ha ormai liquidata. Evelina subisce un’eclissi repentina, apparentemente inspiegabile a meno che non si ricorra all’unica spiegazione plausibile, alla minaccia che allunga la propria ombra, alla vecchiaia che impone un pudore ignoto, la vergogna di mostrarsi, l’orgoglio di non lasciare traccia della sua decrepitezza. Meglio troncare e impedire – anche a se stesso – confronti imbarazzanti con un passato, un vigore e una giovinezza tramontati per sempre. L’esteta che ha vissuto per la bellezza, ora si sente discorde con il sogno che ha incarnato e guidato la sua vita. È come se quella sua vergognosa senilità lo costringesse a dichiararsi incoerente: non può accettare se stesso, dunque Evelina viene messa alla porta senza preavviso né spiegazioni. Le sarà consentito di tornare, e volentieri, soltanto come amica.»

Gabriele D’Annunzio muore a Gardone Riviera l’1 marzo 1938.

Tiziano Franzi

 

 


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