Riguardo al recente articolo dell’Economist “BEWARE A WORLD WITHOUT AMERICAN POWER” (attenti a un mondo senza il potere americano) urgono alcune riflessioni. Per il testo dell’articolo ringrazio Alberto Lasagni, anche per averne reso disponibile una corretta traduzione in italiano. Eccolo di seguito.
di Sergio Bevilacqua
“La deterrenza nucleare funziona, o almeno fino ad ora è stato così. Per comprenderne il funzionamento, osserviamo la guerra in Ucraina: l’America e l’Europa armano il loro alleato ma evitano di inviare truppe contro la Russia. Quest’ultima, a sua volta, non osa (per ora) attaccare l’Occidente. Il reciproco terrore assicura che le potenze nucleari non si sfidino apertamente, evitando così che la guerra fredda esploda in un conflitto diretto, nonostante i numerosi scontri indiretti. Un indice di successo è rappresentato dal fatto che solo nove paesi possiedono armi nucleari, un numero inferiore a quello temuto in passato, e ben al di sotto delle capacità effettive di diversi Paesi nel mondo.
In occasione del 75° anniversario della firma del Trattato del Nord Atlantico, questa settimana, la NATO celebra la “deterrenza estesa”, grazie alla quale l’America ha garantito protezione nucleare agli alleati europei e asiatici. Questo impegno mira sia a contenere i nemici, sia a prevenire che alleati come Germania, Giappone e Corea del Sud sviluppino propri arsenali nucleari.
Il possibile ritorno alla presidenza di Donald Trump minaccia di gettare il mondo nel caos e in un periodo di instabilità nucleare. La sua intenzione di lasciare che la Russia “faccia ciò che vuole” con gli alleati della NATO, che non investono abbastanza in difesa, potrebbe erodere la fiducia essenziale per la deterrenza estesa, rischiando di innescare una pericolosa proliferazione nucleare, scenario che l’America ha sempre evitato.
In quanto prima potenza nucleare, gli Stati Uniti hanno lungamente lavorato per impedire la diffusione di tali armamenti. Il cosiddetto “problema dell’n-esimo paese” suggerisce che, quanto più i paesi si dotano di armi nucleari, tanto più altri ne vorranno, aumentando il rischio di crisi fuori controllo, e accrescendo il pericolo di un attacco nucleare agli stessi USA. La deterrenza in un mondo con due superpotenze nucleari era già sufficientemente inquietante; l’aggiunta di nuovi attori nucleari potrebbe rendere la situazione ingestibile.
Per prevenire la proliferazione, gli USA hanno adottato una “strategia di inibizione” basata su norme e trattati, come il Trattato sulla Non Proliferazione Nucleare del 1968, sulla convinzione di alleati e avversari tramite la diplomazia, sanzioni e minacce militari, e su rassicurazioni mediante alleanze e garanzie di sicurezza.
La deterrenza estesa, che vede gli USA rischiare per proteggere gli alleati, essendo controintuitiva, ha sempre generato dubbi. Per rafforzarla, sono state dispiegate truppe e armi nucleari in Europa, coinvolgendo gli alleati nelle missioni nucleari. Churchill ironizzava sul fatto che per difendere l’Europa gli bastava un soldato americano, “…preferibilmente morto”.
Trump, in un testa a testa con il presidente Joel Biden secondo i sondaggi, considera gli alleati un peso. Il suo disprezzo era meno rilevante nel suo primo mandato, quando il mondo sembrava più tranquillo. Ora, con l’America coinvolta in aiuto di Ucraina e Gaza, e con la tensione su Taiwan, l’ombra di una corsa agli armamenti nucleari si fa più minacciosa, mentre la Russia minaccia, e la Cina potenzia il suo arsenale.
Non è chiaro cosa farebbe Trump, forse neanche lui lo sa, nonostante le sue fanfaronate. I suoi commenti e le idee dei suoi possibili consiglieri indicano una riduzione o l’abbandono delle garanzie di sicurezza americane alla NATO e ai suoi alleati. L’attuale ostruzionismo repubblicano posto nel Congresso all’assistenza per Ucraina, Israele e Taiwan è un segnale preoccupante.
Gli alleati sperano che, come nel primo mandato di Trump, i membri più tradizionalisti dell’amministrazione limitino i danni. Ma alcune voci influenti nella cerchia di Trump sostengono che i paesi della NATO che non investono il 2% del PIL in difesa non meritino protezione, o propongono una NATO “dormiente“, mantenendo l’ombrello nucleare ma ritirando tutte le forze di terra. Sono ipotesi assurde. Senza difendere l’Europa orientale e le sue linee di approvvigionamento, l’America non può garantire la sicurezza del continente. E Trump rischierebbe davvero un attacco nucleare sulle città americane quando non è disposto a difendere gli europei con armi convenzionali?
I governi europei considerano scenari precedentemente inimmaginabili. L’avvertimento del ministro degli esteri polacco sul possibile sviluppo di programmi nucleari autonomi da parte degli alleati riflette una preoccupante tendenza. La proposta di “europeizzare” la NATO o di affidarsi alle armi nucleari britanniche e francesi, nonostante le limitazioni, mostra la crescente volontà europea di assumersi maggiori responsabilità, cercando di proteggersi dall’incertezza rappresentata da Trump.
Tuttavia, nulla può sostituire una deterrenza americana credibile. Un mondo privo del potere statunitense espone l’America a rischi maggiori, sia per l’incoraggiamento dei nemici, sia per la perdita di fiducia degli alleati.
L’isolazionismo, l’ “America First“, lungi dal proteggere il paese, ne accentua solo i pericoli.
(The Economist)
L’articolo è raziocinante, ma privo della prova contraria: lo spostamento da una strategia micro-bellica o di guerra fredda, per tamponare le pretese extra-NATO, a una di pace, farebbe aumentare la volontà di potenza e relativa aggressività militare non-NATO oppure creerebbe delle condizioni per un opportuno sviluppo economico congiunto pacifico?
Si sa che l’orientamento dell’Economist è verso i Democratici e non a caso gli argomenti logici che l’articolo porta sono favorevoli a ciò che sembra essere la linea di Biden, moderata ma mondialista. Inoltre, l’articolo è incentrato anche sul problema della difesa del territorio e città USA, vedendo il pericolo nucleare soprattutto in quella direzione. In realtà, l’Apocalisse nucleare potrebbe accadere già ora e più Apocalisse o meno Apocalisse è variabile illusoria, e specificamente militaresca, in questo caso miope verso le drammatiche conseguenze civili: qualcuno vincerebbe, cioè, ma i popoli avrebbero comunque perso.
Per capire meglio se e quanto sia limitato lo sviluppo del tema e anche il conseguente allarme dell’Economist, occorre includere un altro soggetto principale non considerato nell’articolo: i poteri economico-finanziari apolidi e globali, che agiscono pesantemente su tutto il tessuto civile e comunicazionale e sono in grado di incidere anche in modo rilevante sulle strategie geo-politiche di Stati e alleanze.
La strategia naturale e il lavoro conseguente delle lobby globali economico-finanziarie (in accezione anglo-americana, cioè semanticamente “tecnica”, e non italiana, che le considera erroneamente un gradino sulla scala mafiosa) coerentemente ai loro interessi materiali di tipo commerciale va oggi nella seguente direzione (SÌ/NO):
- Conflitto globale: NO. Il livello di globalizzazione raggiunto in tutti i settori industriali fa sì che le distruzioni massicce di un conflitto globale oggi, enormemente superiori a quelle dei due precedenti conflitti mondiali, non costituiscano un volano per aumentare il valore delle imprese e dei capitali.
- Potere politico mondiale: NÌ > SÌ. I gruppi globali oscillano oggi tra l’utilità di appoggiarsi a governi deboli e la sicurezza di un forte governo mondiale unico, col quale fare progettazione antropologica.
- Proliferazione nucleare: NO. La proliferazione nucleare è una grandissima condizione di rischio, che i gruppi globali vedono come fumo negli occhi. Limitare il numero degli Stati dotati dell’arma nucleare è in ogni caso limitare la probabilità che avvenga un disastro, che coinvolgerebbe il successo da loro raggiunto.
- Conflitti locali: NÌ > NO. I conflitti locali convenzionali non sono graditi ai gruppi globali, ma possono presentare qualche vantaggio contingente, di breve termine, su alcuni settori (armamenti, edilizia, grandi opere). Invece sul lungo termine, l’ipotesi antropologica delle aziende globali è quella di sostituire l’ostilità umana bellica con quella della concorrenza economica, su cui sono già ora preparati e vincenti, e anche considerata eticamente migliore da tutte le scale ideologico filosofiche umane rispetto alle guerre.
- Governi locali: SÌ > NÌ. Al momento, lo spezzettamento del potere politico mondiale favorisce i gruppi locali sui mercati di Paesi piccoli in termini di patrimonio ed economia. Rimane però un contro la giurisdizione giuridica, che obbliga a una declinazione spesso difficoltosa per le modalità operative.
- Sviluppo eurasiatico: SÌ. È il più grande business del futuro, dietro cui si cela quasi il raddoppio del PIL mondiale. I grandi gruppi sono favorevoli alla facilitazione di tutti i fattori politico-sociali e infrastrutturali relativi.
- Pretese dei Paesi a economia primaria: NO > NÌ. I Paesi a economia primaria sono in generale fornitori dei gruppi globali. La valorizzazione delle materie prime nella strategia dei gruppi globali comporta delle redistribuzioni nelle catene del valore, e in questo senso sono soltanto una questione di efficienza e produttività. Ci sono però vie ulteriori, come ad esempio il loro indebolimento con la soppressione del legame perverso con il potere dei loro Stati di riferimento, con adozione dei modelli democratici, cui i Paesi primari sono in generale molto resistenti per via della naturale concentrazione oligarchica e l’inglobamento in sovra insiemi economici integrati con il secondario (caso Canada), che li sposterebbe verso condizioni da domanda-offerta e non autarchiche.
- Totalitarismi politici: NÌ > NO. Per i gruppi globali i totalitarismi sono trattabili soprattutto perché facilmente corruttibili; ma sono anche considerati pericolosi a causa delle discrezionalità presenti in poche mani non soggette a controlli istituzionali di sistema politico.
- Pacifismo oltranzista: SÌ > NÌ. Utile nei fatti per evitare i peggiori rischi di distruzione del potere economico e sostanziale accumulato dai gruppi globali, in particolare in epoche turbolente e venate da rischi del tipo peggiore, cioè quelli di conflitti di tipo nucleare (vedi punto 1 sopra). In prospettiva, l’elemento oltranzista diviene ostacolo alle strategie strettamente economiche che i gruppi economico-finanziari globali conducono in grande prevalenza.
- Islam: NÌ > NO. Vale quanto detto per i Paesi primari (quelli islamici lo sono anche), con l’aggravante di aspetti sociali che limitano lo sviluppo e si basano su una diversa articolazione del potere economico e sostanziale. Momentaneamente i gruppi globali considerano l’Islam un fatto sociologico da gestire in termini pragmatici, ma considerano che sia da dissolvere a medio lungo termine, perché di ostacolo allo sviluppo.
Si potrebbe allungare la lista, ma già dal Decalogo si nota qual è il profilo ulteriore.
Una riflessione corretta, e non superficiale, oppure limitata e un poco di parte, come quella dell’Economist, vede semplici sfumature di differenza (quasi irrilevanti…) tra Trump e Biden sul piano strategico. Battaglia, cioè, di retroguardia, perché politicamente ottusa e non concretamente olistica e davvero popolare (globale, com’è ormai imprescindibile).
Sbottigliare l’Eurasia, evitando le pretese arroganti (ricatti?) dei Primari: questo l’interesse dell’intera umanità, e delle lobby economico-finanziarie in particolare. Ovviamente senza Armageddon, e questo è comune a tutti, salvo i bluff, ridicoli o da film dell’orrore, di Putin che più alza la posta più trova interlocutori (vedi Cina) che mostra di “andare a vedere”, in gergo pokeristico.
La via d’uscita per la Russia di Putin, barriera geografica e strategica all’integrazione eurasiatica, è uscire dalla partita e cambiare gioco: dal Poker violento al Bridge (ponte) costruttivo. E a questo fine, un cambiamento in politica estera degli USA (New-Dem o Trump) risulterebbe una ottima via d’uscita dal cul-de-sac in cui Putin (e la “sua” Russia) si è ficcato, e dunque particolarmente opportuno.
Sergio Bevilacqua