Per capire appieno l’importanza storica e antropologica del sentimento artistico e delle sue forme moderne, come quelle sperimentate nel corso di alcuni lustri da Anna Seccia, in particolare nell’arte relazionale di cui sono espressione le decine e decine di “stanze del colore” da lei progettate, è opportuno partire dalla sostanza di ciò che è l’Arte per la sociologia sociatrica e per la Realtà dell’Uomo di oggi e di domani.
di Sergio Bevilacqua
Per capire appieno l’importanza storica e antropologica del sentimento artistico e delle sue forme moderne, come quelle sperimentate nel corso di alcuni lustri da Anna Seccia, in particolare nell’arte relazionale di cui sono espressione le decine e decine di “stanze del colore” da lei progettate, è opportuno partire dalla sostanza di ciò che è l’Arte per la sociologia sociatrica e per la Realtà dell’Uomo di oggi e di domani.
Realtà… Una parola che ha dentro un’etimologia delle più semplici: “res”, che significa “cosa”, cosa materiale soprattutto. Parola ripresa, con un poco di giusto riguardo, dalla linguistica, coi suoi fondamenti saussuriani, nell’accezione di “referente”: le cose sono il riferimento percettivo di nostri significati (contenuti descritti tramite segni) e che vengono poi sinteticamente battezzati con parole (significanti, portatori di segni). Il ciclo della realtà giunge quindi all’umano attraverso le relazioni tra percezioni dei sensi (referenti), che rimandano a nostra visione degli stessi (significati), per poi essere denominati attraverso parole (significanti).
Esiste però anche una funzione creativa, prometeica dell’Uomo: egli è capace di produrre oggetti della realtà e, quindi, a partire da una sua visione significativa, di dare ad essa altro contenuto materiale, altri referenti, e così appunto creare. Il risultato di questo secondo processo costituisce quindi un intervento sulla realtà (produrre altre res, cose che abbiamo intorno), in particolare con l’arte appunto e, dopo la rivoluzione scientifica, tecnologica e industriale, anche oggetti non esistenti prima. Quindi oggi la realtà, i referenti reali fornitici dai nostri sensi è costituita da un bacino autoctono di cose (in generale le cose della natura) e un altro, ormai finemente mescolato, allogeno (in generale le cose della produzione umana, manifattura e cultura o arte). Tutte hanno la base di percezione, e solo in seconda battuta parte la disanima se si tratti di cose presenti in natura (ma, se sì… da quando?) oppure prodotte dall’uomo.
L’arte è il campo della creazione per eccellenza, poiché inizia e finisce nel processo di comunicazione e oggi non ha quasi più scopi di rappresentazione oggettiva. Le arti visive sono quelle proprie del senso più sviluppato nell’uomo, quello della vista. La pittura è l’arte visiva per eccellenza storica, che più di tutte ci ha messo in contatto nella storia appunto con la natura del referente, nella sua principale accezione di oggetto reale. Ciò è stato vero fino all’emergere dell’ottica fotografica, che ha assorbito la grande parte della domanda fatta fino allora alla pittura, cioè quella della memoria, che fosse di persona (ritratto), situazione esterna (paesaggio), o di un ambiente con i suoi oggetti (natura morta). Il produrre immagini che non hanno scopo documentale, intrise di eventuale profonda e magistrale interpretazione e fattura, è divenuto via via valore assoluto. L’allontanarsi della pittura dal referente reale ha comportato il fallire della pura composizione critica, dovuta a Roberto Longhi, di linea, forma e colore di fronte all’autonomizzarsi dell’una e dell’altra e contaminarsi con tecniche e morfologie le più disparate.
Riconoscendo alla pittura nella sua accezione moderna il primato nel campo delle arti visive, potrebbe però venire un dubbio sulla sua eccellenza considerando la capacità di ottenere il medesimo risultato con l’arte digitale. Il dubbio è assai giustificato: gli enormi passi avanti compiuti dall’informatica fino all’intelligenza artificiale mostrano supporti molto efficienti per costruire un nuovo rapporto con il referente, autoctono o allogeno, e anche per seguire le vie dell’immaginario. Quale rimane la vera dimensione umanistica del dipingere, in quel senso lato che è necessario utilizzare oggi? Nel minimo e nel massimo possiamo dire che l’eccellenza insita nell’arte digitale è soprattutto nella conoscenza di programmi software e nell’uso magistrale dei comandi di un computer.
Per questo non è sbagliato dire che l’arte digitale è arte logica, che scorre, cioè, dalla logica del cervello umana alla logica produttiva di una macchina senza avere mediazioni con il corpo. La pittura invece si misura soprattutto in destrezza e coordinamento del corpo, azione del braccio e della mano, dopo che le gambe ci hanno portato dove le condizioni per la produzione dell’opera identificata dal cervello sono migliori, ad esempio nello studio del pittore o in plein air. La pittura usa l’elemento sistemico dell’umano, la sua interezza, mentre l’arte digitale si ferma a quello logico intellettivo.
Le condizioni di processo sono particolarmente importanti quando la produzione artistica assume una funzione sociale, relazionale, partecipativa, comunitaria, societaria, organizzativa. Ricordo una chiacchierata con Phil Rylands, che è stato direttore di Peggy Guggenheim Collection per più tempo della fondatrice Peggy, sulla socialità e socievolezza degli artisti. “L’artista si muove da solo, ma l’arte è un fenomeno sociologico: la catarsi è un sentimento e, perché la sua causa sia vera arte, non deve avvenire in modo sporadico e casuale, bensì deve diffondersi almeno in modo omogeneo target per target”, abbiamo convenuto. Credo che questa argomentazione nuova e centrale sia la prima e più importante per la critica d’arte oggi, accanto all’organizzazione del sistema dell’arte. E apre a una nuova disciplina critica, la Sociologia dell’Arte, appunto.
Se l’arte genera catarsi, è all’interno del suo processo che avviene questa specie di magia, e si produce come risultato questo sentimento quasi inconscio che mi sento di accomunare ad amicizia e amore. Si tratta di sentimenti associativi, che creano fattori comuni, costruttivi di relazioni e di società, meccanismi intimi che divengono strumenti di coesione sociale e di terapia per l’atomizzazione dissociativa, gravissima malattia dell’oggi e culla dell’ostilità ed entropia della specie umana. Le pratiche collettive nelle arti visive e soprattutto nella concreta pittura, fanno parte di tali meccanismi certo di più che quelle dell’arte digitale, che non vedono questo grande fattore fisico nelle loro esecuzioni. All’arte digitale non manca nulla fuorché il corpo. Il ciclo della esperienza sentimentale propria dell’Arte (catarsi) tocca tutti i fattori della percezione, e applica la meditazione come concime del terreno cognitivo, facendo vegetare le piante emotive del sentimento costruttivo e generoso, troppo spesso dimenticate, e curandone microscopicamente la fragile crescita. L’alimentazione estetica rinforza i fusti preziosi e delicati, che diventano alimento non digestivo ma osmotico e transustanziale per l’intera natura umana.
Era una doverosa premessa quanto sopra per capire ciò che avviene in una nuova forma di arte al plurale, che supera il concetto di Rylands che l’artista è individualista, aprendo a forme collettive. Anche il decadere degli elementi tecnico-accademici ha una importante funzione nello sviluppo dell’arte collettiva: tutti devono sentirsi a proprio agio e non devono avere alcun timore reverenziale verso gli strumenti della pittura oppure verso le altre persone con cui condividono l’esperienza. L’arte collettiva di Anna Seccia avviene attraverso la condivisione paritetica, infatti, di un insieme di condizioni e di oggetti. Si crea un gruppo che può essere fino anche a oltre dieci persone che ha lo scopo di realizzare un quadro in un ambiente ove sono presenti i colori e alcuni strumenti per il loro impiego sopra una tela in comune.
L’inizio del processo consiste nel liberare le qualità espressive individuali dai retaggi e limiti che la realtà quotidiana ci impone costantemente. Per questo motivo, i primi fattori di coinvolgimento derivano da tecniche di meditazione, che riportino il sé di ciascuno al centro del suo mondo percettivo; tali tecniche ricordano molto quelle orientali del millenario Yoga, cioè l’esecuzione di esercizi mentali di concentrazione su determinati aspetti ed elementi, nonché quella di determinate tecniche di respirazione, cosiddette pranayama, nello yoga.
Anche l’uso di strumenti sonori come le campane tibetane assimilano l’esperienza meditativa delle “stanze de colore” a quelle della meditazione yoga. Il tutor dell’esperienza è un’artista di grande esperienza, in questo caso la stessa Seccia, che nel momento della constatazione dello stato di libertà mentale (quasi un samadhi, termine sanscrito proprio delle culture religiose buddhista e induista che definisce l’unione cosmica del meditante con l’oggetto della meditazione, e la sua conseguente liberazione dai legami terreni) acquisita dai partecipanti, fornisce pennelli e colori e li invita a dare corpo a un dipinto sulla tela, in assoluta libertà di linea, colore e forma. Il samadhi può essere inteso anche come una fase della catarsi artistica, che è proprio dell’effetto dell’opera d’arte. Qui, invece, esso diviene prerequisito della sua realizzazione.
Nasce così, dopo un tempo appropriato, dell’ordine di alcune ore, un’opera comune che arriva ad esprimere quanto lo spirito calmo e rilassato del gruppo ha considerato come significativo di sé, ciascuna persona occupando con la sua realizzazione una parte della tela comune. Il tutor artistico stabilisce il momento della fine dell’esercizio poietico da parte delle persone. A questo punto, la responsabilità dell’opera diviene sua: Anna Seccia riceve il lavoro dai partecipanti, con le loro scelte libere di colori, forme e tecniche pittoriche.
Le varie tonalità del blu sono quelle che Anna Seccia utilizza maggiormente, sono il suo colore e la sua firma di finitura sull’opera realizzata. Del colore blu si possono dire molte cose, ma una che ha caratteristiche di originalità estrema è ad esempio quella che lo vede non essere colore di percezione abbinato ad alcun nodo (chakra) del corpo sottile dello yoga. Probabilmente esso si collega in modo esterno, cioè appunto nel samadhi, nel momento della catarsi totale, all’ultimo chakra, Sahasrara. Ci sarebbe quindi una coincidenza tra l’inizio dell’esperienza collettiva con la meditazione e la sua fine attraverso l’uso del colore del samadhi appunto. In altri termini, l’esperienza della stanza del colore è una rappresentazione della catarsi artistica, confermata anche dall’esperienza multi-millenaria del sapere proveniente dalla pratica dello Yoga.
Un caso recente di Arte relazionale molto interessante è stato quello organizzato sempre da Anna Seccia all’Hotel de Paris di Lanciano (PE), che ospita artisti ultrasessantenni, ove l’esperienza del sentimento artistico è avvenuta anche in modo deambulatorio. Ulteriore dimostrazione di come l’Arte possa toccare con grande rispetto tutti i confini dell’umano e mostrare così i suoi effetti di sentimento, la catarsi.
Sergio Bevilacqua