Molti sono stati gli scrittori che nelle loro pagine hanno parlato di Genova. Poeti e prosatori che, nei secoli, hanno tratto ispirazione dalla “Superba” o ne hanno subito il fascino.
di Tiziano Franzi
Alcuni sono stati semplicemente di passaggio durante viaggi più lunghi, mentre altri l’hanno scelta come meta di soggiorno. Altri ancora ne hanno cantato l’aspetto o le impressioni che da essa hanno ricevuto.
Hermann Hesse (1877-1962) scrittore e poeta tedesco naturalizzato svizzero, premio Nobel per la letteratura nel 1946. “A Genova mi arricchii di un altro grande amore. Era una limpida giornata ventosa, appena dopo mezzogiorno. Avevo appoggiato le braccia ad un largo parapetto: Genova ricca di colori si stendeva alle mie spalle, mentre sotto di me vivevano e si ingrossavano i grandi flutti azzurri del mare. Il mare. Con il suo cupo mugghiare e i suoi desideri incompresi l’eterno ed immutabile mi si avventava contro, ed io avvertii in me stringere eterna amicizia, per la vita e per la morte, con quei flutti azzurri e schiumosi. Altrettanto fortemente mi commosse l’ampio orizzonte marino. Nuovamente rividi, come già nella mia fanciullezza, l’odorosa azzurra lontananza che mi aspettava invitante simile ad una porta aperta… Per uno oscuro impulso crebbe dentro di me l’antico e doloroso desiderio di gettarmi fra le braccia di Dio ed affratellare la mia povera esistenza all’infinito ed all’eterno”.
E ancora: ” A Rapallo lottai per la prima volta contro le onde del mare, e nuotando assaggiai l’acre sapore dell’acqua salata, e provai la potenza dei flutti. Tutto attorno onde azzurre e chiare, scogli color avana, un cielo profondo e tranquillo, e l’eterno, incessante rumoreggiare delle acque. La vista delle barche che scivolavano al largo sull’acqua, con la loro nera alberatura e le vele bianche, o il piccolo pennacchio di fumo di un piroscafo che passava lontano mi colpiva ogni volta… Oltre alle mie predilette, le irrequiete nuvole, non conosco simbolo dell’ardente brama di errare per il mondo più bello e più pregnante di quello di una nave, che passa a grande distanza, diventando sempre più piccola sino a scomparire nell’orizzonte aperto”.
Paul Klee (1879-1940) pittore tedesco- “Del mare avevo un’idea approssimativa, non però della vita in un porto. Vagoni ferroviari, minacciose gru a vapore, carichi di merce e uomini lungo argini di solida muratura, funi da scavalcare. Sfuggire ai barcaioli: «giro del porto, panorama della città!», «Le navi da guerra americane!», «I fari!», «Il mare!». Sedersi sui grossi cavi di ferro. Clima insolito. Piroscafi da Liverpool, Marsiglia, Brema, la Spagna, la Grecia, l’America. Rispetto per la grandezza del globo terrestre. Centinaia di vapori accanto a innumerevoli vaporetti, velieri, rimorchiatori. E gli uomini, poi? le figure più strane, col fez. Qui, sugli argini, emigranti, italiani del Sud, accoccolati al sole (come lumache), gesticolare da scimmie, madri con lattanti al petto, i bambini più grandicelli che giocano e si bisticciano. Un vivandiere si fa largo con un recipiente fumante di «frutti di mare». Colpisce l’odore d’olio e di fumo. Donde proviene? Poi gli scaricatori di carbone, belle figure robuste, il torso nudo, agili e veloci, col carico in groppa (in testa un fazzoletto, a riparo dei capelli), sulla lunga passerella su al magazzino, per la pesatura. Poi, liberi, per un’altra passerella giù al piroscafo, dov’è pronta un’altra cesta piena. Così in incessante giro, uomini abbronzati dal sole, neri di carbone, rudi, sprezzanti. Lì un pescatore. L’acqua schifosa non può contenere nulla di buono. Non pesca nulla, e neppure gli altri. Gli arnesi: una corda, con un sasso attaccato, una zampa di gallina, un mollusco. “Case alte, fino a tredici piani, vie strettissime nella città vecchia, fresche e maleodoranti, di sera una fitta folla, durante il giorno quasi solo bambini. I loro panni sventolano come bandiere di una città in festa. Cordicelle tese da una finestra a quella di fronte. Durante la giornata sole pungente in quelle viuzze, riflessi metallici del mare, dovunque una luce abbagliante. Con tutto questo, le note di un organetto, un mestiere pittoresco. Attorno bambini che ballano. Il teatro nella realtà. Ho portato molta malinconia oltre il San Gottardo. Dioniso non ha effetti semplici su di me”.
Sugli argini case e magazzini. Un mondo a sé. Noi semplici oziosi. Eppure fatichiamo, almeno con le gambe”. “Il viaggio per mare è stato un avvenimento. Come andava gradatamente sparendo lontano, la grande Genova notturna, disseminata di luci, assorbita dal chiaro di luna, così come un sogno trapassa in un altro! […] Come un sogno Genova si sprofonda nel mare. Sono morto per questo mondo, dileguato con l’ultima luce? Oh, fosse così! Sarebbe possibile?”.
Valery Larbaud (1881 – 1957) romanziere francese- “Genova austera, vibrante, ampia! Luogo unico dai trecento ripiani a terrazza sul mare, ornata di parchi stupendi! Genova, dove i tramways sono gli ascensori! Le strade ed i quartieri, sovrapposti, si aggrovigliano, si superano, si ricongiungono, si dividono ancora … Città a sorpresa!, il cui uso insinua un’astuta saggezza: una scalinata, un àndito, un archivolto, una passerella, una galleria conducono in pochi minuti ad un palazzo, ad una piazza alla quale non si sarebbe giunti che in un’ora, seguendo le strade”.
Camillo Sbarbaro (1888-1967) poeta italiano. “Oh covata con gli occhi dalla spianata di Castelletto, la città che lì sotto s’accavalla! un mare in burrasca pietrificato, verso cui d’ogni parte si sporge questa terrazza spazzata dal vento. Fessure vi si aprono le strade e vi si stacca qua e là il verde d’un parco, la nebbia rugginosa dell’Acquasola. Ecco il palazzo a imbuto del Municipio, la colombaia delle monache di clausura, l’occhio giallo del Carlo Felice. A momenti si specchierà nel mare che impaluda tra i docks il mazzo di lumi di San Benigno. Quassù il caffè Spertino, gabbia di vetro che il tramonto fondeva, pare adesso di madreperla. Dentro vi affiora e risprofonda l’ascensore in un silenzio irreale. Uscendone, una donna mi sfiora. A questo balcone spalancato su Genova si potrebbe, un’ora come questa, aspettare l’Amore.”
E ancora: “M’assorbì per le scale della Prefettura la pianta dell’Antica Genova, affrescata sulla parete. Genova era o Caffa o Famagosta? Più volte tornai alla leggenda. Per quanti scavi, allacciamenti, interpolazioni, sovrastrutture s’era trasformata così? Cercai invano, pur in embrione, via XX Settembre, figlia bastarda e cosmopolita di quella via Giulia che compare nei ricordi dei nonni. Crescevano ortaggi dove si spampana Genova nuova. Un monte bisognò umiliare per dare il passo a via Assarotti. Superstite fra tanta prole che gli soppiantava intorno la città coetanea, San Lorenzo restò: l’unico segno che il cuore riconosceva. E vidi San Lorenzo con la sua patina d’antichità, in mezzo a una Genova fosca e superba come lui; dalle vie anguste; abbarbicata a poca sponda che due riviere turbolente le scavavano ai lati; avida come lupatto; con gli occhi alle vie del mare; la Genova di cui non rimane, vestigio, che qualche lapide incisa, qualche portale d’intagliata ardesia…
Attraverso i secoli muta dunque faccia la città come in un minuto il mare colore [….].
Eppure se, dopo tanto mutare, l’antenato della regia guardia che l’ingenuo dipintore segnò con uno sgorbio a piè della cittadella, spaesato rivivesse per la Genova d’oggi; d’un vico, scommetto, s’informerebbe, dove abitava la sua donna; e, in mancanza, dell’insegna, dov’era uso vuotare il gotto coi compagnoni.”
Eugenio Montale (1896-1981) poeta, giornalista e critico letterario italiano- “Quando io venni al mondo Genova era una delle più belle e tipiche città italiane. Aveva un centro storico ben conservato e tale da conferirle un posto di privilegio tra le villes d’art del mondo, una circonvallazione più moderna dalla quale il mare dei tetti grigi d’ardesia lasciava allo scoperto incomparabili giardini pensili; e a partire dalla regale via del centro una ragnatela di caruggi che giungeva fino al porto Genova era una città fatta a chiocciola, con un unico centro abitato dai ricchi e dai poveri. Non saprei dimenticarla. Ne conosco il dialetto, l’ho parlato a casa e fuori.Una città che è una striscia di venti chilometri, da Voltri a Nervi, e a mezza via il grosso nodo centrale. Vista da un aereo sembra un serpente che abbia inghiottito un coniglio senza poterlo digerire. ”
E ancora:
Corso Dogali
Se frugo addietro fino a corso Dogali
non vedo che il Carubba con l’organino
a manovella
e il cieco che vendeva il bollettino
del lotto. Gesti e strida erano pari.
Tutti e due storpi ispidi rognosi
come i cani bastardi dei gitani
e tutti e due famosi nella strada,
perfetti nell’anchilosi e nei suoni.
La perfezione: quella che se dico
Carubba è il cielo che non ho mai toccato.
Ernest Hemingway (1899-1961) scrittore e giornalista statunitense- “Pioveva a dirotto quando passammo per i sobborghi di Genova e anche andammo molto piano dietro ai tram e ai camion, il fango schizzava sul marciapiede così che la gente si affrettava a rifugiarsi nelle porte delle case quando ci vedeva arrivare. A San Pier D’Arena, il sobborgo industriale di Genova, c’era una larga strada con delle rotaie da una parte e dall’altra, e ci tenemmo nel mezzo per evitare d’infangare gli uomini che tornavano a casa dal lavoro. Alla nostra sinistra avevamo il Mediterraneo. C’era mare grosso, le onde si rompevano e il vento ne portava gli spruzzi fino all’automobile. Il letto di un fiume che quando eravamo passati venendo in Italia era largo, asciutto e pieno di pietre, adesso scorreva in piena e l’acqua arrivava fino agli argini. Quest’acqua fangosa scolorava in quella del mare e quando le onde rompendosi si assottigliavano e diventavano bianche, anche l’acqua gialla si schiariva e fiocchi di spuma, portati dal vento, volavano attraverso la strada. Una grossa automobile ci sorpassò ad alta velocità e una cortina d’acqua fangosa ricoperse il parabrezza e il radiatore. Il tergicristalli automatico si muoveva avanti e indietro appannando il vetro. Ci fermammo a mangiare a Sestri (Ponente). Non c’era riscaldamento nella trattoria e tenemmo addosso pastrano e cappello. Potevamo vedere la macchina fuori, attraverso la finestra. Era coperta di fango e stava accanto a barche tirate a secco lontano dalle onde. Nella trattoria il nostro fiato faceva nuvolette.
La pasta asciutta era buona; il vino sapeva d’aceto (qui concorda con Magone) e lo allungammo con l’acqua. Dopo il cameriere portò una bistecca con patate fritte. Un uomo e una donna sedevano all’estremità più lontana della sala. Lui era un uomo di mezza età e lei giovane e vestita di nero. Durante tutto il pasto si vide il suo respiro nell’aria fredda e umida. L’uomo la guardava e scuoteva la testa. Mangiavano senza parlare e lui le stringeva la mano sotto la tavola. La donna era bella ed entrambi sembravano tristi. Avevano vicino una valigia.
Avevamo i giornali e lessi forte a Guido (l’autista) il resoconto dei combattimenti a Shangay. Dopo mangiato, Guido uscì col cameriere in cerca di un posto che nella trattoria non esisteva e io pulii con uno straccio il parabrezza, i fanali e la targa posteriore. Quando Guido tornò voltammo la macchina e partimmo. Il cameriere lo aveva portato dall’altra parte della strada in una vecchia casa. Le persone che l’abitavano erano molto sospettose e il cameriere era rimasto con lui per vedere che non rubasse niente”.
Fernand Braudel (1902-1985) storico francese- “Genova, con i suoi colossali bastimenti famosi allora nel mondo intero, con le sue case ammonticchiate che spuntano come candele – l’ho amata e l’amo ancora. Anche Genova bisogna incontrarla venendo dal mare. Avendo proclamato a gran voce che l’amavo, mi sono visto arrivare lettere, segni di amicizia. Ma anche delle domande: dicevo proprio quello che pensavo? Anche in tempo di maestrale, che cola come una sfilza di rivoletti ghiacciati per strade e stradette, Genova mi incanta. Dalla città alta un breve movimento delle spalle, una svolta ad angolo retto, ed eccovi nella città vecchia, nera, un altro universo, segreto, pieno di odori forti… Siete perduti. Ci si riprende, si torna alla ragione solo al termine del pendio, quando appare il mare. Questa straordinaria città divorante il mondo è la più grande avventura umana del secolo XVI. Genova sembra allora la città dei miracoli”.
Giorgio Caproni (1912-1990) poeta e critico letterario italiano-“Intanto, più che chiese le direi bui gusci marini (conchiglie che sembrano a volte fossilizzate) ed entrare in una di tali chiese di dure pietre grige annerite dai fumi portuali e industriali (in San Donato, in San Giovanni in Prè, per tacer di tutte le altre, arci famose), sempre mi è parso un poco entrare in una sorta di murice, ingrandimento di quelli, ruvidi d’incrostazioni calcaree e saline, che i ragazzi raccattano sul litorale, e accostano all’orecchi per sentire il rumore del mare.”
E ancora…“È un diffuso e impalpabile rumor di mare, quello che senti o ti par di sentire tra le navate nere di secoli e di semi tenebra, ch’è anche, per chi abbia orecchio esercitato ad intenderlo, sommesso brusio di traffici e di lucri: di cantieri in opera lungo i due corni della città, nonché di gravi sirene mercantili, le quali da navi che vengono e vanno, e sempre profonde come bassi d’organo, specie di notte fanno vibrare le invetriate, quando placatosi il concerto delle gru, dei magli e delle perforatrici, odi più chiaro l’ansito della risacca, la cui rotolante ghiaia dà anch’essa il suono e l’idea, nella doppia caligine di quelle chiese, d’un fosforico rotolio di zecchini.”
E ancora: “S’è fatto tardi. È già buio. Ne approfitterò per godermi ancora una volta – anche se sa un po’ troppo di cartolina illustrata – l’imparagonabile spettacolo della Genova notturna.
Dalle bianche lune delle navi […] o dalle gialle fiamme della zona industriale, è tutto un rincorrersi e un salire di lunghe file di luci: linee oblique, linee orizzontali, linee verticali, tutte da dar l’impressione d’una vetrina di gioielliere in pieno scintillamento. O, se vogliamo un’immagine meno logora, di un firmamento rovesciatosi sulla terra e sul mare.”
E ancora:
Litania
Genova città intera.
Geranio. Polveriera
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.
Genova città pulita.
Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale.
Genova nera e bianca.
Cacumine. Distanza.
Genova dove non vivo,
mio nome, sostantivo.
Genova mio rimario.
Puerizia. Silabario.
Genova mia tradita,
rimorso di tutta la vita.
Genova in comitiva.
Giubilo. Anima viva.
Genova di solitudine,
straducole, ebrietudine.
Genova di limone.
Di specchio. Di cannone.
Genova da intravedere,
mattoni, ghiaia, scogliere.
Genova grigia e celeste.
Ragazze. Bottiglie. Ceste.
Genova di tufo e sole,
rincorse, sassaiole.
Genova tutta tetto.
Macerie. Castelletto.
Genova d’aerei fatti,
Albaro, Borgoratti.
Genova che mi struggi.
Intestini. Carruggi.
Genova e così sia,
mare in un’Osteria.
Genova illividita.
Inverno nelle dita.
Genova mercantile,
industriale, civile.
Genova d’uomini destri.
Ansaldo. San giorgio. Sestri.
Genova di banchina,
transatlantico, trina.
Genova tutta cantiere.
Bisagno. Belvedere.
Genova di canarino,
persiana verde, zecchino.
Genova di torri bianche.
Di lucri. Di palanche.
Genova in salamoia,
acqua morta di noia.
Genova di mala voce.
Mia delizia. Mia croce.
Genova d’Oregina,
lamiera, vento, brina.
Genova nome barbaro.
Campana. Montale. Sbarbaro.
Genova di casamenti
lunghi, miei tormenti.
Genova di sentina.
Di lavatoio. Latrina.
Genova di petroliera,
struggimento, scogliera.
Genova di tramontana.
Di tanfo. Di sottana.
Genova d’acquamarina,
area, turchina.
Genova di luci ladre.
Figlioli. Padre. Madre.
Genova vecchia e ragazza,
pazzia, vaso, terrazza.
Genova di Soziglia.
Cunicolo. Pollame. Triglia.
Genova d’aglio e di rose,
di Prè, di Fontane Marose.
Genova di Caricamento.
Di Voltri. Di sgomento.
Genova dell’Acquarola,
dolcissima, usignola.
Genova tutta colore.
Bandiera. Rimorchiatore.
Genova viva e diletta,
salino, orto, spalletta.
Genova di Barile.
Cattolica. Acqua d’aprile.
Genova comunista,
bocciofila, tempista.
Genova di Corso Oddone.
Mareggiata. Spintone.
Genova di piovasco,
follia, Paganini, Magnasco.
Genova che non mi lascia.
Mia fidanzata. Bagascia.
Genova ch’è tutto dire,
sospiro da non finire.
Genova quarta corda.
Sirena che non si scorda.
Genova d’ascensore,
patema, stretta al cuore.
Genova mio pettorale.
Mio falsetto. Crinale.
Genova illuminata,
notturna, umida, alzata.
Genova di mio fratello.
Cattedrale. Bordello.
Genova di violino,
di topo, di casino.
Genova di mia sorella.
Sospiro. Maris Stella.
Genova portuale,
cinese, gutturale.
Genova di Sottoripa.
Emporio. Sesso. Stipa.
Genova di Porta Soprana,
d’angelo e di puttana.
Genova di coltello.
Di pesce. Di mantello.
Genova di lampione
a gas, costernazione.
Genova di Raibetta.
Di gatta Mora. Infetta.
Genova della strega,
strapiombo che i denti allega.
Genova che non si dice.
Di barche. Di vernice.
Genova balneare,
d’urti da non scordare.
Genova di “Paolo & Lele”.
Di scogli. Fuoribordo. Vele.
Genova di Villa Quartara,
dove l’amore is impara.
Genova di caserma.
Di latteria. Di sperma.
Genova mia di Sturla,
che ancora nel sangue mi urla.
Genova d’argento e stagno.
Di zanzara. Di scagno.
Genova di magro fieno,
canile, Marassi, Staglieno.
Genova di grigie mura.
Distretto. La paura.
Genova dell’entroterra,
sassi rossi, la guerra.
Genova dicose trite.
La morte. La nefrite.
Genova bianca e a vela,
speranza, tenda, tela.
Genova che si riscatta.
Tettoia. Azzurro. Latta.
Genova sempre umana,
presente, partigiana.
Genova della mia Riina.
Valtrebbia. Aria fina.
Genova paese di foglie
fresche, dove ho preso moglie.
Genova sempre nuova.
Vita che si ritrova.
Genova lunga e lontana,
patria della mia Silvana.
Genova palpitante.
Mio cuore. Mio brillante.
Genova mio domicilio,
dove m’è nato Attilio.
Genova dell’Acquaverde.
Mio padre che vi si perde.
Genova di singhiozzi,
mia madre, via Bernardo Strozzi.
Genova di lamenti.
Enea. Bombardamenti.
Genova disperata,
invano da me implorata.
Genova della Spezia.
Infanzia che si screzia.
Genova di Livorno,
partenza senza ritorno.
E ancora:
Su cartolina
Qui forse potrei vivere,
potrei forse anche scrivere:
potrei perfino dire:
qui è gentile morire.
Genova mia città fina:
ardesia e ghiaia marina.
Mare e ragazze chiare
con fresche collane di vetro
(ragazze voltate indietro,
col fiasco, sul portone
prima di rincasare)
ah perdere anche il nome
di Roma, enfasi e orina.
Qui forse potrei scrivere:
potrei forse anche vivere.
E invece lascerò Genova,
l’estate dei rimorchiatori.
Lascerò nella tenebra
illuminata, in rosso
o in blu ragazze a coppie
con il petto commosso.
Ragazze appena visibili
ma acutamente sensibili
nell’aria nera che brilla
lucida come una pupilla.
Lascerò la mattina
(la mattina, non l’alba)
coi passeri che hanno calda
anche se grezza la voce.
Lascerò la persiana verde
sopra l’ortensia:
il geranio, la chenzia
e la distesa campana
dal vasto popolare eloquio
che suona in perpetuo gioco.
Lascerò così Genova:
entrerò nella tenebra.
Albert Camus (1913-1960) scrittore, filosofo, saggista e drammaturgo francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957
“Ma è facile perdere la felicità perché è sempre immeritata. Così per l’Italia. E la sua grazia spesso improvvisa, non sempre è immediata. Perché fin da principio essa prodiga poesia per nascondere meglio la sua verità. I suoi primi sortilegi sono riti di oblio: gli oleandri di Monaco, Genova piena di fiori e di odori di pesce e le sere turchine sulla costa ligure. Poi Pisa finalmente e con lei un’Italia che ha perso il fascino volgare della riviera”.
E ancora:“Lunga passeggiata per Genova. Città affascinante e assai simile a quella che ricordavo. I monumenti sontuosi esplodono da uno stretto busto di viuzze brulicanti di vita. Qui la bellezza nasce sul posto, irradia nella vita di ogni giorno. Ad un angolo di strada un cantante improvvisa sugli scandali d’attualità. E’ il giornale cantato. Piccolo chiostro di san Matteo. Il vento schiaccia la pioggia a raffiche sulle grandi foglie del nespolo. Un breve attimo di felicità. Ora bisogna cambiar vita. Sera; partenza per Milano sotto la pioggia”.
E ancora: “Decise di raggiungere Algeri da Genova. Sul treno che lo portava a Genova attraverso l’Italia del nord ascoltava le mille voci che dentro di lui cantavano verso la felicità. Sentiva ancora la sua debolezza e la sua febbre. Subito man mano che il sole si avanzava nel giorno e si avvicinava al mare, sotto il gran cielo fiammeggiante e ansante che riversava fiumi d’aria e di luce sugli olivi frementi, l’esaltazione che agitava il mondo si univa all’entusiasmo del suo cuore. Il rumore del treno, il cicaleggio puerile che lo circondava nello scompartimento stipato. tutto ciò che rideva e cantava intorno a lui ritmava e accompagnava una specie di danza interiore che lo portò per ore immobile ai confini del mondo e finalmente lo scaricò giubilante e interdetto in una Genova assordante, che scoppiava di salute davanti al suo golfo e al suo cielo in cui fino a sera lottavano il desiderio e la pigrizia. Aveva sete, fame di amare, di godere e di baciare. Gli dei che gli bruciavano dentro lo gettarono in mare, in un angolo del porto dove assaggiò un miscuglio di sale e di catrame e perse l’orientamento a furia di nuotare. Si smarrì poi nelle strade strette e piene di odori della città vecchia, lasciò che i colori urlassero per lui, che il cielo si consumasse sopra alle case sotto il suo peso di sole e che i gatti si riposassero per lui nell’immondizia e nell’afa. Andò sulla strada che domina Genova e lasciò salire verso di lui in una lunga lievitazione, tutto il mare carico di profumi e di luci.
Chiudendo gli occhi stringeva la pietra calda su cui stava seduto e poi li riapriva su questa città in cui l’eccesso di vita urlava in un esaltante cattivo gusto. Nei giorni seguenti gli piaceva anche sedersi sulla scalinata che scende al porto e a mezzogiorno guardava passare sulla banchina le ragazze di ritorno dall’ufficio. Coi sandali ai piedi, i seni liberi nei vestiti leggeri e sgargianti, lasciavano a Mersault (il protagonista del romanzo) la lingua arida e il cuore in subbuglio per un desiderio in cui ritrovava al tempo stesso libertà e giustificazione. Di sera incontrava per strada le stesse donne e le seguiva, con nelle reni la bestia calda del desiderio che si muoveva con selvaggia dolcezza. Per due giorni bruciò in questa inumana esaltazione. Il terzo giorno lasciò Genova per Algeri”.
Italo Calvino( 1923 –1985) romanziere e saggista italiano- “La realtà e la storia di Genova possono essere una chiave per capire qualche carattere di fondo che è di tutta la Liguria: suo limite e insieme sua forza. Se è decadentismo volgersi al passato per assaporarne l’agonia, Genova è una città così poco decadente da tenersi stretto il proprio passato fin quasi a non vederlo, portandolo con sé nel presente, che è la sua vera dimensione. Se è narcisismo non sapersi staccare dalla contemplazione della propria immagine, Genova è così poco narcisista che della propria immagine non sa né se ne cura, tutta presa com’è da quello che fa e mette insieme e moltiplica”.
I genovesi sono un popolo assai attaccato alla propria terra, tradizioni, cultura e Calvino ne distingue di due principali tipi: “quelli che restano attaccati agli scogli come le patelle e quelli che invece partono e vanno a girare per il mondo”.
“Genova digerisce e supera tutte le sue crisi, attaccandosi tenacemente al presente. […] Città che sembra chiusa, incapace di slanci, e poi reagisce sempre nel modo più diretto alle occasioni decisive: supera il declino della repubblica marinara mettendosi alla testa del movimento risorgimentale per l’unità italiana; supera la crisi della sua industria pesante protezionistica ritrovando l’efficienza con l’industria a partecipazione statale; al termine della guerra disastrosa salva il suo porto con una delle più riuscite insurrezioni partigiane d’Europa, costringendo — fatto unico nella storia — un’armata tedesca di 30 mila uomini ad arrendersi a un comitato di cittadini; questa città che oggi è un campo di lotte sociali in cui le forze opposte si fronteggiano con meno mediazioni e sfumature che altrove; questa città che è difficile da capire, perché parla poco, ma certo non gira a vuoto”.
E ancora: “La realtà e la storia di Genova possono essere una chiave per capire qualche carattere di fondo che è di tutta la Liguria: suo limite e insieme sua forza. Se è decadentismo volgersi al passato per assaporare l’agonia, Genova è una città così poco decadente da tenersi stretto il proprio passato fin quasi a non vederlo, portando con sé nel presente che è la sua vera dimensione.. S è narcisismo non sapersi staccare dalla contemplazione della propria immagine, Genova è così poco narcisista che della propria immagine non sa né se ne cura, tutta presa com’è da quello che fa e mette insieme e moltiplica. E così è tutta la Liguria. in fondo così poco attenta all’immagine di se stessa anche dove quest’immagine è la ricchezza principale che. come il paesaggio per molte località della Riviera. L’attaccamento alla realtà pratica del momento è talmente forte che non ci si preoccupa di cancellare il paesaggio con un’ininterrotta barriera di muri di cemento. […]
Oggi la Liguria sta diventando qualcosa di completamente diverso da quello che è stata: economicamente fa parte di un tutto italiano ed europeo che presenta sempre meno soluzioni di continuità; e ancora più diversa è la popolazione. Come negli ultimi 150 anni una diaspora di liguri mise radici nelle Americhe, così negli ultimi decenni masse nuove si sono stabilite in Liguria a livelli sociali, differenti dagli abitanti della lunga striscia residenziale in maggioranza settentrionali, allo spostamento di paesi interi dal sud che hanno dato all’agricoltura e all’economia ligure un apporto di lavoro fondamentale. Nel giro di poche generazioni si parlerà della Liguria in nuovi termini che ancora non riusciamo a prevedere. A rappresentare un antico modo di vivere la Liguria non resterà che la patella attaccata allo scoglio.”
Pier Paolo Pasolini (1922-1975) poeta, scrittore, drammaturgo e regista italiano–
“Il mare cambia colore, dopo essere scomparso per decine di chilometri in una enorme fuligginosa città di magazzini: ricompare dietro due spunzoni di roccia e una torre campanaria tra barbaresco e liberty, con una fila di grattacieli sopra un’altura color polvere, com’è polvere tutto. Genova fuma, sfuma in un guazzabuglio supremo. L’attraversi, a metà Corso Italia, già verso Levante, ti volti, e alle tue spalle ecco la più bella visione di tutta la Liguria.
Il porto, con catene di navi, banchine battute da un mare color paglia, una frana di palazzi, impastati in un’unica polvere, e più vicino vecchie navi ruggini, moli di massi neri, il mare verde oliva, torbido come un fiume in piena, con un ghirigoro di scoglietti, isolotti, rotonde, tutto di ferro battuto, e orridi, qui sotto, con erbe, fichi d’India e spazzatura.
Nel limite di questi quadro, ai piedi di chi guarda, in fondo a un vertiginoso muraglione da città del futuro, sotto una rete di protezione, c’è una piccola spiaggia di ciottoli. Si intravede, nella luce del temporale, qualcuno che fa il bagno. Una ragazza bionda, nuda, di carne, di carne calda, in mezzo a tutto quel ferro”.
Cesare Fera (1922-1995) architetto italiano- “Genova è un atto di prepotenza dell’uomo sull’ambiente naturale e ancora oggi sconta le conseguenze di questo atto. Essa infatti si è sviluppata per un fatto di posizione nodale rispetto alle correnti di traffico. Ma alla posizione corrispondeva un sito impossibile per una città. Senza terreni pianeggianti, ma pendii precipitosi verso il mare, senza entroterra che la potesse sostenere, la sua condizione normale non era dissimile a quella di una nave e si capisce come il popolo che questo sito selezionò fosse una razza di marinai, di commercianti, di finanzieri cioè di gente abituata a ricavare altrove il proprio sostentamento e il proprio guadagno o di sfruttare il traffico che doveva passare per questo porto. Un sicuro approdo per le merci che dalle altre sponde del Mediterraneo per le vie di oltregiogo transitavano verso i mercati della Valle Padana e dell’Europa centro occidentale o riprendevano per mare la rotta del nord Europa. E ancora adesso le possibilità di vita della città non devono essere basate su una abbondante disponibilità di terreno, ma sulle risorse umane”.
Vito Elio Petrucci (1923-2002) poeta, scrittore e commediografo italiano-
La Lanterna ha due volti. Uno per noi che la vediamo ogni giorno: un volto serio grave buio, e quindi il simbolo, il monumento, la lunga anima di una città e di un popolo.Il momento in cui il tempo si ferma per incontrarli tutti, per riviverli assieme o almeno fieramente ricordarli.Uno per quelli che vivono ed hanno vissuto sul mare.
E allora è la casa, la patria, una mano tesa, un fazzoletto agitato, il primo segno della tua famiglia che aspetta. Una luce nella notte, che nasce dal mare e ti grida: vieni, corri; qui c’è la tua casa, qui c’è la tua famiglia, qui c’è il tuo focolare con un caldo ceppo che brucia incensando la gioia dei secoli.
La sua forza è questa, non voler restare solo un simbolo, anche se la parola simbolo per lei si arricchisce di poesia, né essere un logo, un’icona, non è più neanche un monumento, è la lunga anima di un popolo nel quale i genovesi si riconoscono. Una somma di immagine e di sentimento.”
E ancora: “E Genova, bizzarra e coerente, superba e modesta, orgogliosa e benevola, è mezza mare: gli uomini, i timidi, i mortali che si sono nascosti nelle grotte, arroccati sui monti, seminati lungo le vallate; gli Altri, giganti, sul mare, al di qua del cobalto che segna l’orizzonte, nella invisibile parte che dà la sp “I passi di chi cammina nella sua città volendone vivere tutti i momenti, ricalcano le orme già lasciate in altre ore; è un fatto automatico che considero una caratteristica dei genovesi. Comperare sempre nello stesso negozio, passare dalla stessa strada, prendere il bianco (una volta) o aperitivo nello stesso bar, girare a quell’angolo. Un tempo si controllava l’ora al solito orologio (erano verdi con lo stemma di Genova) e si diceva magari la preghierina propiziatoria davanti alla Madonnina illuminata. Una ripetitività che dimostra il senso del possesso delle cose e soprattutto una gran voglia genovese di non cambiare, di non correre”inta, che domina gli eventi”.
Andrea Camilleri (1925-2019) scrittore, sceneggiatore e regista italiano–
“Ho avuto un colpo di fulmine per Genova a 25 anni, grazie a un premio di poesia. Ecco perché la fidanzata di Montalbano vive in questa città dei mille incontri. Un siciliano una volta mi disse che “pensava in genovese”: così ho scritto “La mossa del cavallo”.
Ho ripensato alla bellezza di Genova. Andai per la prima volta a Genova nel 1950, a venticinque anni, perchè avevo vinto ex aequo il premio di poesia indetto dalle Olimpiadi culturali della gioventù. Vissi una settimana incantata a contatto con personaggi come Sibilla Aleramo, Giacomo De Benedetti, Galvano Della Volpe, Massimo Bontempelli e altri che facevano parte delle varie giurie.
Ma, appena terminavano gli incontri, mi mettevo a girare per la città da solo. Perchè già nel tratto dalla stazione all’albergo, il primo giorno, mi ero subito reso conto che tra me e quella città era scattato un colpo di fulmine. Perché? Perché era una città di mare come di mare era il mio paese? No, ero stato in tante città portuali e non avevo mai provato la stessa sensazione. Allora cos’era?
E’ assai difficile spiegare perché ci si innamori di una persona, figurarsi di una città. Beh, forse era la perfetta armonia tra gli abitanti e le loro case, tra gli abitanti e il loro cielo, tra gli abitanti e il loro mare, forse era la parlata strascicata e indolente, forse erano i volti che incontravi verso il porto, cotti dalla salsedine ma cosi pronti ad aprirsi in un bonario sorriso.
Tempo prima m’era capitato di leggere un libretto di versi di un giornalista genovese, Tullio Cicciarelli, che poi conobbi, e quel libretto mi servì da guida. Cicciarelli parlava di Piazza di Negro? Ed io via a piazza Di Negro, ripetendo dentro di me le parole del poeta.
Al terzo giorno trovai più che una mia compagna, una guida per il mio vagabondaggio. Una bella ragazza che un pomeriggio mi portò a casa sua, a Boccadasse.
Altro colpo al cuore. Passai qualche ora alla finestra dalla quale si vedeva la discesa che portava alla spiaggetta e il mare che sciabordava pigramente. Sentii mio quel paesaggio, come se mi fossi portato appresso un pezzo della mia Sicilia. M’è rimasta dentro così a lungo che quando ho cominciato a scrivere di Livia, la fidanzata genovese del commissario Montalbano, m’è parso più che naturale farla abitare a Boccadasse.
La seconda volta ci sono stato molti anni più tardi per dirigere un romanzo sceneggiato radiofonico presso la sede Rai di Genova. Ho voluto avere come interpreti i bravissimi attori del Teatro Stabile di Genova. E anche in quell’occasione, appena finivo di lavorare, me ne andavo in giro.
Fu in una trattoria del porto che incontrai un trentenne siciliano, che da bambino, si era trasferito con i suoi a Genova. Ad un certo punto mi rivelò che, mentre a casa con i suoi parlava in dialetto siciliano, spesso gli capitava di “pensare” in genovese. Ho scritto “La mossa del cavallo” ricordandomi di questa persona. Ma per farlo “pensare” in genovese mi sono fatto una sorta di full immersion nelle poesie di Edoardo Firpo, da ‘O Grillo cantadò a ‘O Fiore in to gotto.
Poi, per la revisione del mio improbabile genovese, la mia cara Gina Lagorio, alla quale sono stato debitore di molte cose, mi segnalò Silvio Rjolfo Marengo che non finirò mai di ringraziare.
E’ stato per presentare proprio questo mio romanzo che sono tornato a Genova.
La presentazione avvenne alle Vele di Piano, gremitissime. Quella sera ebbi modo di sentire che il mio amore per Genova era ampiamente ricambiato. E l’indomani mattina mi feci portare a Boccadasse. Se non ci fossi andato, avrei fatto uno sgarbo a Livia”.
Edoardo Sanguineti (1930-2010)poeta, scrittore e saggista italiano- “Genova, come tutti sanno, e come i versificatori e i cantautori ci cantano e ricantano, è una città verticale, verticalissima. Dunque, salite al Castelletto, al Righi, infunicolatevi in alto, in alto, se non soffrite di allucinosi spaziali, o funzionali o psichiche. E se capitate qui per via aeroplanica, scrutate bene lo spettacolo che il finestrino vi propone, con questo ammasso di edifici che scappa su dalle acque, che in quelle si precipita, dipende dai gusti, dipende dalle fantasie. Anche l’accesso marittimo non è male. Venire in treno a Genova, invece, non sarà un delitto, ma certamente è un errore. In auto, varcate la mura, si raccomanda di percorrere, al minimo, avanti e indietro, indietro e avanti, la sopraelevata (prima che sia abbattuta, come molti suggeriscono e sperano) e, che forse è meglio ancora, la circonvallazione a monte. La superba Genova ama essere guardata con sguardi superbi, alti e altieri”.
Manuel Vázquez Montalbán (1939-2003) scrittore spagnolo- “Genova, forse il vecchio quartiere preportuale, un labirinto medioevale dove le facciate si toccano quasi e talvolta celano palazzi che si direbbero clandestini, rovinati dal capitalismo e dall’umidità”.
Antonio Tabucchi (1943-2012) scrittore italiano- “Ci sono giorni in cui la bellezza gelosa di questa città sembra svelarsi: nelle giornate terse, per esempio, di vento, quando una brezza che precede il libeccio spazza le strade schioccando come una vela tesa. Allora le case e i campanili acquistano un nitore troppo reale, dai contorni troppo netti, come una fotografia contrastata, la luce e l’ombra si scontrano con prepotenza, senza coniugarsi, disegnando scacchiere nere e bianche di chiazze d’ombra e di barbagli, di vicoli e di piazzette”.
“C’è qualcosa di diverso qui da altri luoghi, cosa sarà mai? Forse “lo spiro salino che straripa dai moli”? Ti viene in mente questo verso perché lo “spiro salino” è sicuramente il maestrale o un vento simile: libeccio, mistral, scirocco, comunque un vento del Mediterraneo, e dunque siamo in un paese del Sud, e nei paesi del Sud, con questi venti, ci sono anche i panni alla finestra, lenzuola che schioccano al vento come bandiere. Venti nostri, panni nostri. […]
Sono partito da Sottoripa, punto cardinale di una città che serba intatto il suo mistero. Che forse la farebbe pensare avara, perché è guardinga, non si concede, non si fida. Ma chi la pensa avara non ha capito la sua generosità: è città medaglia d’oro della Resistenza.
Genova si concede quando è necessario”.
Giuseppe Conte (1945) scrittore e poeta italiano-
Genova
Mia vita
sempre cruda e in salita
io ti assomiglio a Genova
città di fili a piombo
dove le case in bilico
crescono sulle case
e i muri sopra i muri
incastrandosi ciechi
tracciano come un carcere
da cui sai che non esci
se non voli nel cielo
o se non prendi il mare.
Che esistere è fatica
qui impari con più antica
sapienza. Che esistere è
restare in ginocchio
sopra grani di sale.
Salire amare scale.
O Genova
sempre per me straniera
sempre come stasera
che mi fingo protetto
nel tepore di un caffè
di piazza Corvetto.
O vita
sempre sin troppo amata
sempre a me sconosciuta.
Nando Dalla Chiesa (1949) scrittore e politico italiano-“Scoprire Genova come ti venne raccontata sui libri (e come i suoi abitanti amano narrarla) procura una sensazione incantevole. In primo luogo perché ti restituisce quel minimo di fiducia necessaria nella parola scritta e nel racconto orale, senza di cui vagheresti senza bussola nelle tue elucubrazioni sull’universo mondo. In secondo luogo perché Genova è bellissima davvero. La guardi e brilla nei suoi palazzi meravigliosi, a qualunque altezza sul livello del mare. Di più: è letteralmente sfolgorante nelle successioni di bianco impero, di ocra, di verde muschio, di rosso bruno. Dal Porto Antico al Matitone nelle ore della tarda mattinata che dovrebbero essere infuocate e non lo sono. Le strade non starnazzano, perché il traffico d’agosto rende tutti più civili e spensierati. Intorno e sopra di te c’è solo un’architettura mozzafiato di forme e di colori che ti puoi fermare a contemplare estasiato, senza temere che ogni minuto di sosta ti renda più appiccicosa la camicia. Insomma quando non piove e non c’è la macaia (non ho mai capito come si scriva) Genova è davvero la più bella città di mare d’italia“.
Maurizio Maggiani (1951) scrittore e giornalista italiano- Non avevano mai voluto mettersi d’accordo tra di loro i mastri muratori che avevano innalzato un secolo via l’altro la palizzata di Sottoripa, la rincorsa di torri e castelli e palazzi pigiati l’uno a fianco all’altro per un chilometro e più che anticamente si faceva sciacquare le lastre dei porticati dalla risacca di scirocco che penetrava nella vecchia Darsena.
Né era sembrato onorevole ai patrizi e ai ricchi della repubblica avere riguardo per l’opera del vicino e consonare con uno sforzo d’armonia le architetture. Perciò, indissolubilmente inchiavardati tra loro, sfilavano davanti agli occhi attoniti del mondo che si affacciava al porto della Superba i capricci di stile e di ripicca di gusto romanico, moresco, franco e pisanino, gotico prudente e gotico svettante, barocco, avignonese, castrense e chissà cos’altro ancora.
Le colonne dei portici naturalmente erano il vanto dei loro padroni; una doveva invidiare l’altra, e dai capitelli sgorgavano, in perpetuo malcontenti della pietra che frenava i loro furori, tutto il serraglio degli animali esotici e dubbi che dovevano montare la guardia alle magnificenze dei piani superiori”.
E ancora: “Ho scelto di vivere a Genova da adulto, in un singolare momento di grande libertà e privilegio in cui avrei potuto vivere ovunque nel mondo. Ho scelto questa città non per ragioni di lavoro o familiari o affettive, come capita a moltissime persone, ma per puro piacere, considerando la possibilità di sceglierla come il più grato dei privilegi di cui la fortuna mi aveva favorito. Ho scelto quella che è sempre stata ai miei occhi, più di qualunque altra città del mondo che mi è capitato di conoscere, la città della meraviglia e della bellezza. Dello stupore che non finisce mai. E della complicazione: la città dove non basta mai un solo sguardo, una sola idea, un solo concetto, una sola parola, per contenerla tutta, descriverla senza banalizzarla, decidere se volerle bene o volerle male”.
Ferit Orhan Pamuk (1952) scrittore e saggista turco- “Mi sono perso nel dedalo del centro storico di Genova, lungo i caruggi che sono simili ai vicoli della mia Istanbul più segreta, più nascosta. Ho ritrovato gli stessi odori e gli stessi profumi un po’ aspri e pungenti portati dal mare, che balugina con improvvisi lampi di luce lontano fra le case simili a quelle che si affacciano sul Bosforo o sul Corno d’Oro. Case un po’ scrostate, ma anche palazzi orgogliosi e monumentali, che hanno le stesse persiane verdi, gli stessi grandi portali, imponenti e pomposi, o gli stessi modesti portoni, i cui anditi sono invasi da muffe umide. Case e palazzi che custodiscono storie antiche e accolgono un’umanità che ha attraversato le acque del Mediterraneo, in fuga da paesi bruciati dal sole dove il terrore e la fame sono in agguato. Anche i gatti sono simili a quelli di Istanbul. Indolenti e sornioni, si lasciano accarezzare e poi scompaiono quasi per incanto, persi nelle loro cacce imperscrutabili”.
“Anche i suoni che ho ascoltato nei vicoli e delle strade di Genova avevano armonie comuni a quelle di Istanbul. Erano quelle delle musiche che scendevano dalle finestre aperte fino sull’acciottolato. Erano canzoni che parlavano di amori lontani e della nostalgia per la propria terra, contrappuntate dalle parole agglutinate delle mille lingue del Mediterraneo. Poi ci sono le parole che Genova condivide da secoli con la Turchia portate e contaminate da marinai e mercanti: mandilli, i grandi fazzoletti che servono anche a coprire il capo delle donne; camallo, il facchino del porto; gabibbo, il forestiero indesiderato; giöxìa, la persiana, l’imposta, la gelosia, nata per tenere nascosta la bellezza delle donne pur permettendo loro di guardare all’esterno. Ho ritrovato nella cucina genovese i sapori dei cibi che più amo: i minestroni di verdure, densi e spessi, come quelli che preparava mia madre; le acciughe fritte e croccanti come quelle che si gustano nei ristorantini sotto il Ponte di Galata; le torte pasqualine infarcite di verdure dell’orto che ricordano nella loro preparazione in modo impressionante il nostro börek.”
Renzo Piano (1937) architetto italiano- “Naturalmente non esiste la città perfetta ma nel mio immaginario… la città perfetta è Genova. Lo capisco che è una risposta di parte ma Genova è una città straordinaria. É una città di pietra ma al tempo stesso una città di mare … É una città che cambia continuamente … le navi che vengono e che vanno, è come se cambiasse ogni cinque minuti, ogni mezz’ora.
É una città straordinaria. É una città silenziosa, attenta, introversa, un po’ selvatica però allo stesso tempo straordinariamente potente … Il Centro Storico, che è di pietra, è il luogo della certezza, della protezione ; il mare è il luogo dell’avventura…” Si dice che i Genovesi siano tirchi, in realtà io credo profondamente che siano parsimoniosi ed è una qualità straordinaria che si è un po’ dimenticata … qui non si spreca niente funziona perfettamente sempre… funziona a tavola, funziona nel lavoro, funziona nei rapporti tra le persone…
A Genova non manca niente per essere europea. Nel ‘600, il siglo de oro, è stata una capitale mondiale e non ha mai perso quelle caratteristiche che l’hanno resa unica. […] Spero che chi non c’è mai stato capisca la sua bellezza, troppo spesso nascosta e silenziosa. Genova, è una delle città più belle del mondo. Prima del ’92 il porto era separato dalla città, ma da allora Genova ha potuto ritrovare il suo contatto con il mare e ristabilire un rapporto con l’acqua”.
Fausto Fantoni Minnella (1959) scrittore e saggista italiano- “L’assenza solo apparente di architetture storicamente celebrate ha spesso allontanato la grande massa (formatasi attraverso la frusta retorica monumentalistica) da un’esatta percezione della segreta bellezza della Superba, che crediamo risieda nella totalità del suo manufatto urbano, dove ciascun episodio architettonico, sacro o profano, è parte significativa di una lunga, lunghissima narrazione di secoli che è quindi una metafora della stessa idea di città. Genova, infatti, non può che apparire ai nostri occhi come città-paesaggio, laddove la stessa edilizia diviene paesaggio, adattandosi di volta in volta ai movimenti del terreno su cui è sorta, generando per effetto naturale sempre nuove e talora vertiginose prospettive. In altre parole, siamo immersi in una verticalità superba di fronte all’infinità orizzontalità del mare”.
Tiziano Franzi