Cà di Berta, locanda elegante ed esclusiva. Adagiata in un silenzio d’oro. Cinque suites, cinque camere, sala colazione (all’apertura anni ’90 anche ristorante), piscina, un parco alberato che nel ponente savonese è secondo alla Pergola di Alassio. Un complesso armonioso immerso nel verde della natura, impreziosito dall’opera instancabile di Pietro Delfino e della sorella Concetta che ha chiuso gli occhi alla fine dello scorso luglio. Non aveva fatto notizia né la scomparsa di Pietro, né di Concetta. Eppure erano due personaggi con una storia lavorativa, umana, che non capita di conoscere frequentemente. Una vita dedicata, tra Savona, Albenga e viceversa, al commercio all’ingrosso e al dettaglio di frutta e verdura, con banco vendita nella città della Torretta, poi trasferito a Pilalunga di Quiliano. Erano gli anni che le primizie di Albenga invadevano i mercati di mezza Europa. Il destino volle che, in vista della vecchiaia e senza figli, i Delfino dopo aver ceduto l’attività, si innamorarono del progetto di recupero di un insediamento di antiche case, tra Salea ed Albenga, in gran parte ruderi.
L’obiettivo era quello di realizzare armoniosi insediamenti unifamiliari, da mettere in vendita una volta ristrutturati, con la riqualificazione dell’area verde, ricca di alberi, flora mediterranea, ulivi secolari. Il progetto, fatto e rifatto, riveduto. Più passaggi in commissione edilizia, ebbe finalmente il via libera del Comune di Albenga. Iniziarono i lavori, non semplici tenendo conto che la concessione edilizia, ma anche la volontà dei Delfino, era di valorizzare al massimo la parte antica, a cominciare dai muri a pietra vista, le sagome degli edifici rimasti in piedi. L’opera era quasi conclusa e al Secolo XIX arrivò una delle tante lettere in cui era nel mirino il sindaco del Pci, Angelo Viveri ed il suo stretto entourage. Si facevano dei nomi, si indicavano date, carteggi, il leit motiv era una speculazione edilizia mascherata in un’area dove per il piano regolatore non era possibile realizzare edifici singoli, né per civile abitazione, ma unicamente insediamenti ricettivi, tipo hotel, agriturismo e residence. Quella lettera finì sul tavolo del sostituto procuratore della Repubblica, dr. Emilio Gatti, magistrato giovane, scrupoloso ed al quale il procuratore affidava gran parte delle inchieste sull’edilizia.
Sta di fatto che in meno di un mese scattò un provvedimento di sequestro, con i Delfino indagati di lottizzazione abusiva, reati ambientali vari, abusi rispetto al progetto approvato, ma erano in corso delle varianti in attesa di concludere l’iter. E a quanto pare era stato proprio il ricorso alle varianti, pratica assai abituale per aggirare vincoli edilizi, che aveva indotto i firmatari (nome fasull0) a dare tutti gli estremi della pratica. Il cantiere rimase bloccato a lungo e solo dopo che Delfino dovette accettare un’inversione a 360 gradi della originaria destinazione che aveva in mente, furono tolti i sigilli. C’è da dire che l’inchiesta non portò ad incriminazione del sindaco, nè di componenti dell’ufficio tecnico che avevano seguito la pratica e che nell’esposto venivano indicati quali beneficiari di una ‘mazzetta’. Tanto è vero che parte del fascicolo venne trasmesso alla procura del tribunale per presunti reati di sua competenza.
Pietro Delfino che era la mente dell’operazione – investimento, attraversò momenti difficili. Al cronista ebbe a dire: “Ad un certo punto volevo abbandonare tutto, ormai i soldi li avevo spesi e mai più pensavo di fare l’albergatore….”. Invece realizzò, affidandosi a gente del mestiere, un spettacolare resort che faceva onore ad Albenga, alla Riviera, all’industria ricettiva. Decise anche di creare, nello stabile, un locale ristorante che per anni ha ospitato matrimoni, banchetti, ritrovo di gourmet e clienti di buon livello. Quel ristorante, che contrariamente alle camere, richiede un enorme impegno soprattutto nella ricerca dello staff, del cuoco e che nonostante a leggere i media si trovino dei maestri di cucina come i funghi, non è affatto così. C’è una carenza di professionalità spaventosa e i bravi non lasciano facilmente il posto che hanno, le pretese non sono neppure da mensile di chi si accontenta di una paga dignitosa, tenendo conto dello standard italiano. E’ la categoria professionale dipendente meglio pagata, che va ben oltre, salvo le immancabili eccezione, la busta paga di un secondo livello. E Delfino ne sapeva qualcosa.
Il Cà di Berta, dalla sua inaugurazione, ben presto è stato inserito nelle più prestigiose guide nazionali ed internazionali. Per parecchi anni era diventato, con la Meridiana – Rosmarino di Garlenda, il ritrovo della clientela chic, di associazioni elitarie. Ad esempio era il punto di riferimento per le aziende e la famiglia Orsero quando era in vita Raffaello, così pure dei Noberasco, dei titolari di grosse aziende dell’albenganese di import ed export. Un tre stelle, rispetto ai 5 del Meridiana, ma quanto a fascino (non parliamo di lusso ed eleganza strutturale)che incontrava la preferenza e la piena soddisfazione di turisti stranieri: tedeschi, svizzeri, austriaci, belgi, olandesi in particolare. Le auto di grossa cilindrata erano di casa.
La vecchiaia, problemi di salute seri, hanno spezzato la forte fibra di un gran lavoratore e gentiluomo, umile, modesto, di esemplare buon senso. Pietro Delfino ha lasciato il timone alla sorella con la quale viveva in simbiosi. Una donna a modo, concreta. L’ultima volta che la incontrammo, al pastificio San Giorgio di Ceriale, lamentava un andazzo che ignoravamo. Molti pranzi e banchetti di matrimoni, non solo, venivano organizzati all’interno di strutture camping, sfuggendo ad ogni controllo fiscale. Una vera e propria concorrenza sleale e impunita per chi magari puntava a risparmiare la spesa di un ristorante vero e proprio.
Poi è stato, oltre dieci anni fa, Angelo Fresia quando era corrispondente de La Stampa a dare notizia che Concetta Delfino , unica titolare, aveva chiesto la cancellazione del vincolo alberghiero per “l’impossibilità di apportare incrementi qualitativi e quantitativi al resort in Regione Case di Berta” e quando il ristorante Carlotta, al suo interno, aveva cessato da tempo l’attività. I prezzi delle camere e colazione partivano da un minimo di 90 euro fino ad un massimo di 170. Incluso l’uso della piscina. Manco a dirlo impossibile ottenere lo svincolo ed arriviamo al 28 luglio 2018 quando è partita per sempre la signora Delfino. Locale chiuso e in attesa che gli eredi ( un fratello, i due nipoti) valutino le opportunità future. Un ventaglio che difficilmente prevedere soluzioni in tempi brevi. Vendita inclusa. L’investitore può contare sulle caratteristiche uniche della strutture e su clienti ormai sempre più esigenti e alla ricerca delle oasi in cui trascorrere periodi di ‘disintossicazione’ dalla routine quotidiana delle città e dei sobborghi. Nel cuneese, ad esempio, come in Alto Adige, gli hotel ameni hanno un crescente successo ed attirano investimenti.
Una contadina che da 30 anni abita poco lontano, espone tutta la sua tristezza nel vedere il Cà di Berta desolatamente chiuso, con i primi segnali di abbandono. “Aveva un’ottima clientela – osserva – e sapesse quanti sacrifici, sudore e preoccupazioni per fratello e sorella; ora abbiamo sentito che è stato messo in vendita. Chissà quanto chiedono, ogni tanto si vede qualcuno, probabilmente è stato affidato ad un’agenzia”. Già, qual è il valore di una struttura gioiello ? Se si chiede ad un albergatore proprietario di muri risponde: “In Riviera nessuno compra più, ritiene conveniente investire. Le volte che le banche hanno messo in vendita qualche hotel pignorato si sono trovate con meno della metà di quanto aveva periziato il tribunale con il suo perito”. Certamente i Delfino hanno investito qualche miliardo di lire. Chi diceva 4, chi 5. O forse più. E negli anni occorre sempre rinnovare. Quando l’industria alberghiera tornerà ad essere redditizia ? Ed attrarre, come accade in altre aree del Paese, investimenti italiani e stranieri ? Non palazzinari. (l.cor.)