Ogni linea di scrittura imprime al tempo una velocità diversa, lo incorpora con tutte le parole che a loro volta sono legate tra di loro e lo distende sulla pagina in modo che leggendo si percepisca il suo trascorrere, sia pure in modo non misurabile con precisione.
Il tempo nella pagine scritta rimane aleatorio e come sospeso avendo nella narrazione un sistema insicuro di progressione: da un paragrafo all’altro si possono compiere balzi di anni, sia in avanti che molto indietro nel tempo.
Tralasciando spiegazioni logiche e motivazioni personali, quello che narriamo è un tempo casuale che tuttavia è possibile considerare visivamente o calcolare empiricamente: bisogna tener conto del tempo che si impiega per riempire una pagina di scrittura, nel caso in cui le parole fluiscano regolarmente, oppure nel caso che siano più stentate perché rimangono aggrovigliate ai pensieri.
Ma in fondo non conta il tempo impiegato: principalmente è quello che rimane di nero su bianco che conta, ogni battuta sulla tastiera ci sposta avanti e una parola ci fa avanzare di qualche millimetro.
Anche noi avanziamo nel pensiero e nel tempo immateriale destrutturando le pagine che avevamo già raggruppate in forma di libro. È una condizione che scompiglia le carte e predispone a nuovi orientamenti; si rivedono le pagine con maggiore libertà ed ognuna singolarmente diventa valida e determinante.
Ad ogni modo il pensare e lo scrivere i pensieri è un modo in cui impiegando il tempo necessario, lasciare una traccia evidente di tale pratica letteraria. Forse è anche uno dei motivi per cui si scrive. Ovvero si può considerare ogni pagina una buona parte dell’intima nostra terra immateriale, ideale, invisibile che noi lavoriamo con le dita e con la testa per rendere percepibile, visibile e reale nel piccolo spazio di un libro.