Per raggiungere quel luogo detto Lavà [dal nome della strada, la Levata] bisognava attraversare tutta la piana della Rocchetta sul carro dello zio, poi passato il ponte Romano, si raggiungeva la strada che sale verso san Zuan. Quando cominciava la dura salita bisognava scendere dal carro e salire a piedi, sovente sotto il gagliardo sole estivo che ti accompagnava per tutto il ripido tragitto. Lo zio Mario, era l’unico contadino della famiglia che abitava in paese, piantava le patate, le cipolle e le fave nei miseri terreni che possedevano.
Falciava a mano tutti i prati di Lavà per riempire il fienile vicino alla casa in paese. Il prato più difficile da falciare discendeva quasi a precipizio sul lato destro della cascina, giù fino al limitare di un bosco, un centinaio di metri più in basso. Forse era questo terreno a precipizio uno degli abissi a cui si riferiva il burattinaio-poeta che lo scrisse sulla cascina. Quando il fieno era secco lo si faceva scendere con il rastrello e si caricava là in fondo sul carro. Una volta impilato con il tridente sul carro a due stanghe veniva legato con il cavo disteso come due bretelle e poi si tirava bene con il verricello incorporato nella parte posteriore del carro; lo zio attaccava il suo bel cavallo bianco e poi scendeva fino in fondo alla valle dove scorreva il rio Vadermo.
Il ritorno al paese avveniva per quella via da carri che procede lungo il ruscello che, dopo il Chirten, si butta in Bormida; questa strada arriva al ponte Romano e prosegue attraverso la Piana verso la Rocchetta. Poi si scaricava con i tridenti il carro stipando tutta quell’erba secca nel fienile, come scorta che il cavallo avrebbe masticato tutto l’inverno nella sua greppia.
Chiusa la parentesi famigliare in cui ricordo le mie splendide vicende infantili vissute con gli avi paterni, vorrei fare un salto in avanti per giungere ai giorni nostri. Tralascio molto non detto che ancora rimane nei miei archivi mentali chiusi a ogni ispezione: dentro ci sono episodi che con sorpresa ho cominciato a capire solo dopo cinquanta o sessant’anni e li ho potuti riesumare per dar loro una collocazione più organica. Altri sono ancora in sondati e impensati, pertanto li lascio a stagionare fino a che verranno a galla da soli.
Per adesso è meglio che li lasci tranquilli a decantare nella memoria profonda come libri inscatolati in soffitta nel loro potenziale inespresso. Se il cielo nuvoloso fin dal mattino non invoglia ad uscire di casa, dai scava una buca in soggiorno e distenditi dentro di essa. Continua il letargo proficuo che matura dolci frutti in primavera e poi nell’estate caldissima. Posa il capo e dormi tranquillo: il mondo gira continuamente tra caldo e freddo, tra luce e ombra per i secoli dei secoli. La pioggia cade e scola, il sole batte sui tetti delle case e sulla natura arruffata. Molti nomi locali mi ricordano quando venivano usati dai nonni e dalla gente di quegli anni subito dopo la guerra.
Erano anni di trasformazione e si parlava sovente della vita prima della guerra. Sentivo in casa dei nonni che i figli qualche volta andavano nel Gerbazzo (in tu zerbaz) e capivo che scendevano verso la piana dove si estendevano campi vastissimi fino alla riva del fiume, lasciati a gerbido dove immaginavo vi fossero stoppie ed erbe altissime piene di semi e di fiori gialli. Per la mia fantasia di allora era un piccola pampa argentina ed era bello andarci a cavallo fin dentro il corso della Bormida.
Mio padre e gli zii ci andavano con la doppietta in spalla, a caccia di tordi o di beccacce oppure in cerca di lumache dopo la pioggia da mettere nel tascapane. Capitava magari di trovare un riccio e allora si portava a casa anche quello: la fame era la norma quotidiana e sulla stufa di casa si poteva fare lo stufato di riccio con patate. Erano tempi magri perché la terra rendeva poco: il clima inclemente e la breve stagione calda non favorivano la crescita dei prodotti agricoli. I contadini giovani furono costretti ad entrare in fabbrica a lavorare in mezzo alla puzza, all’inquinamento, di giorno e di notte per portare a casa uno stipendio regolare ogni mese.
A casa si mangiava polenta o castagne e latte, per chi aveva la mucca, altrimenti solo castagne bollite. Il pane era un lusso e per pochi: il terreno del luogo produceva poco grano che di conseguenza costava caro e non era per tutti. Nei boschi si coltivavano i castagni che davano molti frutti e quindi erano una risorsa per i proprietari. Si raccoglievano molti funghi: la raccolta era libera per tutti, non così per le castagne perché erano riservate ai proprietari dei boschi. Nel bosco si andava anche per raccogliere rami secchi abbandonati e radunarli in qualche fascina per scaldarsi in casa. Nei campi, portati via i raccolti, si potevano cogliere erbe selvatiche e spighe di grano sfuggite dai covoni e lasciate dai proprietari.
La gente comune si ingegnava per sopravvivere, raccoglieva ogni cosa: frutti caduti dagli alberi, come mele e pere, se il proprietario lo consentiva, funghetti nei prati ed anche lo sterco di mucche e cavalli caduto lungo le strade. Si curavano piccoli orti improvvisati, seminando patate al bordo dei campi, cipolle, cavoli, pomodori. La varietà degli ortaggi era molto limitata e le piantine venivano preparate mettendo i semi a crescere in scatole e vasi pieni di terra, collocandoli in luoghi riparati e raggiunti dal sole.
Una vita molto ingegnosa che si svolgeva in comunità solidali e fraterne: le malattie e le disgrazie di una persona venivano condivise e seguite da tutti così come le feste e le gioie. Ognuno conosceva i dispiaceri degli altri ed era una vita in comune, come una famiglia allargata che si occupava di seguire l’educazione di tutti i bambini piccoli e il rispetto e il sostegno per tutti i vecchi del rione. Erano nate, all’inizio del secolo scorso, le società di mutuo soccorso che davano l’opportunità agli iscritti di passare ore in compagnia giocando a bocce, a carte o seguire spettacoli di teatro, recite e serate di ballo, oltre a sostenere spese per i più bisognosi.
Non starò qui a dilungarmi oltre su questi tristi argomenti già ampiamente trattati in vari libri di settore e romanzi famosi come “Il mondo dei vinti” di Nuto Revelli, oppure i racconti di Remo Fresia nella sua raccolta “La scatola dei baci al rum”, ma anche e soprattutto “La cauzagna” di Rosilde Chiarlone, romanzo autobiografico che testimonia, con ispirazione e verità, il passaggio dalla terra povera dei nostri posti alla fuga dei contadini verso il lavoro in fabbrica.
Questi sono appunto testi utili per conoscere meglio la miseria drammatica dei contadini in Val Bormida, che molti hanno rimosso velocemente. Ma il boom economico è stato un tuffo verso il maggiore benessere e un modo nuovo di vivere, distogliendo le persone dal loro duro passato. Sono arrivati gli elettrodomestici, magari pagati a rate, (frigorifero, lavatrice) e tante altre novità per migliorare la vita di tutti. Non ultima la “lanterna magica”, la signora degli elettrodomestici: la televisione, un solo canale RAI, ha dilagato pian piano in tutte le case.
Bruno Chiarlone Debenedetti