Il mio “sogno nel carruggio” [pubblicato sulla Gazzetta di Loano] ha ridestato in molti miei coetanei i ricordi di quel periodo, di guerra e immediato dopoguerra, dei nostri anni ’40 e i commenti più ricorrenti si sono incentrati su due temi: “la fame e la guerra” da un lato e “la solidarietà” dall’altro. I miei commentatori all’epoca erano tutti bambini, come me, o ragazzi adolescenti ma già con la testa sulle spalle, quindi i fatti da loro citati sono ‘elementari’ ma anche molto significativi. Pochi o frammentari i ricordi sui giochi, ovviamente poveri e ‘semplici’, molti i ricordi di guerra e di fame.
La guerra aveva portato ovunque la miseria più nera e livellato molte cose: tutti se ne sentivano minacciati in quanto nessuno poteva veramente sentirsi esente da pericoli o disgrazie e questo generò una diffusa solidarietà per parecchi anni. Negli anni dal ’43 al ’47 mancò quasi tutto: generi alimentari, coperte, vestiario, scarpe, mezzi di trasporto, medicinali, sussidi, pensioni e, per molti, anche il proprio lavoro, obbligando le famiglie a ripieghi d’ogni sorta mentre i prezzi raddoppiavano ad ogni stagione!!! Quanti vecchi pensionati ho visto uscire in mare anche di notte o piegarsi sui campi per raccogliere magri frutti non solo per se ma anche per aiutare chi, invalido o malato, non poteva farlo!
Su molti volti si poteva leggere la preoccupazione per quei momenti di vera “crisi generalizzata“, ma la disperazione la ricordo solo sui volti di chi aveva improvvisamente perso gli affetti del coniuge, del padre o di un figlio, spesso anche unica fonte di reddito di famiglia. Ricordo ancora le lacrime della moglie del capitano Parodi (morto nell’infelice attacco coi ‘barchini’ a Malta nel 1940) venuta, con le sue due bimbette ben più piccole di me, da mio padre in cerca di un aiuto, come tante altre famiglie loanesi, per superare le gravi difficoltà non solo burocratiche di quei tempi (1943-47).
Chi poteva allevò per 4 o 5 anni un paio di galline e di conigli persino nei sottotetti o sui terrazzi e il sale “fatto in casa” veniva barattato con i più svariati generi alimentari. I miei vestiti (e persino le prime scarpe) li tagliò e li cucì mia madre (come fecero anche tante altre madri) e con la parte rossa di una vecchia bandiera mi fece una camiciola da ‘garibaldino’ (scavezzacollo le ero già di mio). Mai potrò dimenticare le espressioni di esultante gioia di mio padre quando riuscì a portare a casa due zampe d’asino, sufficienti per dare un pò di sostanza al consueto minestrone di cavoli e carote ….
I ricordi dei miei amici più grandicelli, quelli che prima della guerra avevano già assaggiato lo zucchero, i dolci casarecci o di pasticceria, vertono sulla “fame” patita per la generalizzata scarsità di generi alimentari razionati al lumicino, mentre quelli dei più piccoli, come me, sono più incentrati sulla guerra e le sue paure: i bombardamenti, i tedeschi, le requisizioni, il ronzio notturno del “pipetto”, l’aereo che di notte teneva tutti svegli in attesa di sentire dove avrebbe ‘mollato’ la sua bomba intimidatoria; per noi il “dolce” era un po di pan secco, un pomodoro o una patata da lessare nella sabbia sotto un focherello di legnetti.
Ecco perchè ricordo con piacevole riconoscenza quando i miei mi dicevano: “piggia stu bellu toccu de pan seccu cù te piaxe tantu” e a me piaceva davvero come una gratificante delizia! Mio padre ha voluto lasciarmi, assieme all’uovo pasquale di legno del ’43, dipinto così bene da sembrare vero cioccolato (che più volte, illuso, mi provai a mordere e succhiare!), un messaggio che conservo con cura: “Pasqua di guerra 1943, ricordo di quando non c’era niente ma bastava tutto!” volendo puntualizzare che oggi, pur avendo tutto, non ci basta mai niente.
Poi venne la ricostruzione, il lavoro e il benessere, sempre più diffuso, si, ma a poco a poco sempre più disuguale; seguì il “boom” economico, con la “rapallizzazione” della Riviera e la cementificazione più spericolata che generò l’illusione di una società del benessere senza fine [mitico “welfare”] che, così come la droga chimica distrugge le menti, a poco a poco drogò e distrusse il senso del risparmio (tanto lo Stato avrebbe provveduto a tutto e per sempre!) e, quel che è peggio, generò crescenti iniquità tra le varie categorie di cittadini, aree geografiche e generazioni. Da troppo tempo ciò che abbiamo non basta mai e, volendo sempre di più, abbiamo contribuito tutti, chi più chi meno, a far crescere quei debiti, pubblici e privati, che ora strozzano imprese e famiglie.
Il debito pubblico, cresciuto a dismisura negli ultimi 30-40anni, a ricostruzione ormai avvenuta, non ha generato equivalenti benefici in opere durature, strutture e valori sociali; tutti chiedevano, chiedevano e i sempre più numerosi enti dello Stato, come le Regioni – che prima non c’erano – le Province – che ora si vorrebbe ridurre o abolire – i Comuni e innumeri altri enti, davano, davano a piene mani, senza limitazioni di sorta, sperperando risorse per “elargizioni a pioggia” o per opere incompiute e “cattedrali nel deserto”, ruberie dissennate e scandali senza pudori, indebitandoci[si, loro spendevano indebitando noi tutti e sopratutto le generazioni a venire!] al punto che nei ventanni che vanno dal 1982 al 2002 il debito pubblico italiano è ingigantito in valori reali: da circa 500 miliardi di euro a quasi 2000 miliardi. Il credito facile per tanti sprechi, pubblici e privati, è stato la droga che ci ha dato l’illusione d’un benessere senza fine, generando l’incoscienza generale su cosa ci aspettava per il futuro.
Quella montagna di debiti, non solo italiana ma di tutto il mondo cosidetto ‘sviluppato’, è poi cresciuta a dismisura proprio in questi ultimi anni: sul finire del 2011 il Sole 24 Ore ha segnalato che i debiti pubblici a livello mondiale sono aumentati di oltre il 50% rispetto alla fine del 2007, a crisi finanziaria già iniziata. Questo colossale “buco” è cresciuto nelle aree più industrializzate (USA, Europa, Giappone, ecc.) quasi tutte con debiti superiori al 100% del loro prodotto interno ordo (PIL). Mentre le “cicale” affondavano nei debiti, le laboriose “formiche” (Cina, India, Brasile, ecc.) accumulavano i prodotti e i crediti che ora vanno pagati!!!
In questi ultimi quarant’anni il denaro facile è diventato un “credo” ideale per quasi tutta la società civile. Oggi però, solo le banche sono rimaste depositarie del denaro facile, grazie a finanziamenti a tassi irrisori erogati dalla Fed e dalla Bce [e che non si sa ancora come e da chi saranno poi ripianati] ma solo una infinitesima frazione di essi va a beneficio dell’economia reale e delle famiglie. E così ora soffriamo tutti per le restrizioni al credito alle imprese, allo sviluppo dell’economia, alle famiglie, ai mutui per la prima casa, ecc. ecc.
Nel lamentarci di questa “crisi economico-finanziaria” tutti ci riteniamo solo “vittime” e nessuno se ne ritiene personalmente responsabile; invece, poco o tanto, siamo tutti partecipi e quindi solidalmente responsabilidi un sistema “globalizzato” ma senza regole, da tutti tollerato (e da molti osannato fino a qualche anno fa). Ben pochi hanno avuto voglia e modo di contestare o anche solo commentare a fondo la “globalizzazione”, lasciando crescere senza fine troppe “concorrenze sleali“, spinte da poco o nessun rispetto dell’ambiente, dei diritti umani o sindacali, incluso lo sfruttamento di mano d’opera minorile. Così, costrette a competere senza regole, le nostre imprese lasciano il nostro Paese senza lavoro e portano altrove macchinari, impianti, servizi, competenze, tecnologie cercando solo mano d’opera a bassissimi costi, senza oneri sociali, previdenziali, ecc., ecc., inondando poi il nostro mercato di prodotti di dubbia qualità ma a basso prezzo, strozzando così anche le poche imprese che tentano di resistere in Patria. Dare la colpa all’Euro o a “ignoti speculatori” è come dar la colpa all’arbitro, quando perde la squadra del cuore, o al vigile quando ci appioppa una multa per sosta vietata. All’origine di tanti squilibri economico-finanziari è il concetto che tutto è merce, anche la mano d’opera a basso costo, che può essere scambiata con un qualsiasi prodotto, quindi praticamente mercificata!: un essere umano trattato come semplice “strumento” che opera e produce ne è l’aspetto più ignobile. Un essere umano deve essere considerato come qualcosa di più e di meglio di un semplice produttore o consumatore.
Siamo tutti preoccupati del lavoro che manca ma troppi rifiutano i posti di lavoro che danno da vivere in Europa a milioni di extracomunitari senza i quali il nostro benessere/welfare si dissolverebbe presto: infermieri, falegnami, assistenti e badanti, idraulici, elettricisti, informatici, parrucchieri, carpentieri, manovali, muratori, tecnici e diplomati specializzati in ogni genere di attività, vanno a riempire i vuoti lasciati da molti nostri giovani abbagliati da lauree troppo spesso inutilizzate ma rese loro facili solo grazie ai sacrifici dei genitori e nonni.
Ci preoccupiamo del crescente costo della benzina che ci consente di correre nei week-end al mare, ai monti o nelle discoteche più lontane ma chi si preoccupa dell’acqua potabile le cui risorse si assottigliano giorno dopo giorno? Dovremmo preoccuparci della siccità che porta alla desertificazione di sempre più vaste aree del pianeta, delle disastrose alluvioni causate da dissennate deforestazioni, indiscriminate cementificazioni e scandalose corruzioni, dell’inquinamento dei mari, dell’aria che respiriamo e del territorio in cui viviamo, dove i crescenti “scandali dei rifiuti urbani” sono solo un ben pallido segnale d’allarme. Critichiamo chi ci governa ma una buona metà di noi non si prende nemmeno la briga di andare a votare, rifiutando di esercitare un diritto/dovere duramente conquistato dalle generazioni passate, quindi accettando, evidentemente beati e contenti, la situazione esistente e la “casta” che la genera.
Oggi, in tempi di tempeste finanziarie, allarmante mancanza di lavoro e di liquidità, restrizioni del credito, difficoltà delle famiglie a risparmiare e consumare, borse “in picchiata” e scandali politici e finanziari a ripetizione, si è incrinato ma ancora non spento il “credo” sul denaro facile che il “turbocapitalismo a trazione finanziaria” [la tanto idealizzata “leva finanziaria”] aveva diffuso a piene mani fino a pochi anni fa. La crisi non ha spento la società dei desideri infiniti ne sopito egoismi sociali sempre alla ricerca di meschine scorciatoie, ma ha almeno acceso il disincanto verso un capitalismo finanziario [con le sue “bolle immobiliari” e i suoi “derivati”] fine a se stesso, un’illusione che ora paghiamo con la compressione dei consumi e dell’economia reale. Oggi tutti invocano risparmi, ma non nel settore di propria competenza: bisogna tagliare le spese pubbliche ma non quelle che ci riguardano; via le province, si, ma quelle degli altri; via gli enti inutili, tutti d’accordo: ma appena se ne pubblica l’elenco, risultano subito tutti più o meno indispensabili.
Ora, distrutti come siamo nelle aspettative (nel ’45 eravamo distrutti materialmente ma pieni di speranze e di valori sociali) serve più coesione, collaborazione e sopratutto solidarietà per “ricostruire” quella atmosfera da dopoguerra di allora, tra individui, classi sociali, popolazioni e generazioni. I miei viaggi di lavoro nei più lontani e diversi paesi mi hanno insegnato che si può superare ogni tempesta, se si fa tesoro di esperienze e “radici” (anche storiche e morali) ben radicate avendo disponibilità all’adattamento. In Giappone mi hanno spiegato che i più violenti tifoni riescono a sradicare anche gli alberi più robusti ma non i bambù che hanno radici profonde e sanno piegarsi alla furia del vento; e in Sicilia sentii gli stessi saggi concetti: “chinati giunco quando passa la piena”!!!
Dobbiamo rafforzare le nostre radici e adattarci a qualsiasi cambiamento, anche se spiacevole, in attesa che “passi la piena”. “La capacità di affrontare senza panico qualsiasi cambiamento sarà certamente un requisito essenziale per gli anni a venire, quando ben altre “crisi” attanaglieranno il pianeta: inquinamenti ambientali, siccità, crisi alimentari, energetiche, ecc.” [estratto da Ruth Stafford Peale, Maggio 1975].
Dopo la “carenza di liquidità finanziaria” ci aspettano ben più serie “carenze” che vanno affrontate per tempo, con coraggioso rigore e ferma determinazione. Basta con le “allegre cicale”; ora urge saper competere con le moderne “industriose formiche”!!!
Antonio Garibbo