Se ne è andato anche l’on. sen. Giovanni Urbani che fu Sindaco di Savona dal 1957 al 1958, più volte consigliere provinciale, senatore della Repubblica per quattro legislature nelle file del PCI e antifascista. Riportiamo i primi due capitoli del suo libro “Perché non posso non dirmi comunista” (Marco Sabatelli editore, 2016).“Sono nato a Venezia il 3/11/1923 da una famiglia piccolo – borghese (commercianti) e sono il primo di quattro figli (due fratelli, di cui uno morto, e una sorella). La prima educazione fu caratterizzata dalla mancanza di tradizioni familiari ( i miei genitori ebbero ambedue ragioni di malcontento nei riguardi delle rispettive famiglie) e da un ostentato disprezzo delle convenzioni sociali. Mio padre dimostrò sempre un’aperta avversione per la religione e soprattutto per la Chiesa”. Urbani che accenna alla madre ebrea di parte materna. Le minacce subite furono per renitenza alla leva del figlio, che così si presentò. Altro particolare, l’avversione del padre verso la chiesa. Alcuni cenni li ha fatti, nel ricordo funebre, l’ex sindaco ‘compagno’ Bruno Marengo, ex sindaco di Savona e Spotorno, scrittore e memoria storica nel Savonese.
Frequentai le scuole elementari a Marghera (periferia di una zona industriale di recentissima formazione con masse di proletari e sotto proletari). A dieci anni entrai nel ginnasio – liceo dei Padri Cavanis a Venezia come “esterno” su interessamento di mia madre per i vantaggi economici e la sua fama di serietà (la scuola era gratuita). Vi rimasi sino alla licenza liceale conseguita con l’anno scolastico 1941 – 42. In questi anni l’influenza dell’ambiente religioso andò via via attenuandosi dopo un iniziale momento di interesse; negli ultimi anni del ginnasio e negli altri due successivi del liceo (l’esame di maturità l’ho sostenuto saltando la terza) venni ad assumere una posizione di semiopposizione rispetto all’ambiente.
Grandissima influenza ebbe in tutti questi anni l’amicizia stratta con il mio vecchio maestro elementare, che rappresentò con qualche altro compagno di scuola l’unico grande interesse umano e intellettuale della prima giovinezza. Fu attraverso questa amicizia che sviluppai l’interesse per la politica (già in fermento per i numerosi discorsi di mio padre tendenzialmente antifascista e vagamente socialistoide) e mi orientai verso l’antifascismo e il comunismo. La mia adesione successiva al movimento comunista fu dettata da un bisogno “morale” di giustizia universale e da una fede entusiastica nella Russia “redentrice dell’umanità”.
Fui sempre restio a partecipare alla vita delle organizzazioni giovanili fasciste e ciò diede luogo a qualche incidente, senza risultato però, data anche la mia qualità di “privatista”. Solo nel 1942, durante la guerra, accettai l’incarico di organizzare l’attività culturale del reparto della legione di giovani marinai cui ero aggregato e feci un paio di discorsi. Avevo l’intenzione di svolgere una qualche attività di chiarimento in senso antifascista; abbandonai il tentativo dopo un mese, quando mi accorsi che nulla ero riuscito a fare e che i miei discorsi avevano suscitato allarme e qualche intervento da parte di alcuni ufficiali.
Nel 1942 – 43 frequentai il primo anno di lettere all’Università di Padova. Non riuscii ad entrare in contatto con alcuna organizzazione antifascista, non mi iscrissi nemmeno al GUF sebbene ciò fosse obbligatorio. Riuscii invece a entrare nel gruppo degli studenti antifascisti albanesi attraverso uno studente albanese del Kossovo, Mark Krasniqui.
Nel giugno del 1943 mi recai a trovare il mio amico maestro ad Aidussina dove lui si trovava sotto le armi, come ufficiale richiamato, con la vaga intenzione di vedere un po’ la zona dove operavano i partigiani slavi. Qui, durante un’escursione nei dintorni, fui arrestato dai carabinieri per sospetta intelligenza coi partigiani e passai circa un mese e mezzo nelle carceri di Aidussina: ero l’unico italiano, tutti i miei compagni erano sloveni, antifascisti e antitaliani, nessuno comunista. Fui rilasciato il 25 luglio.
Trascorsi a Venezia i mesi successivi fino al novembre 1943 quando uscito il bando di chiamata della mia classe (fino ad allora avevo fruito dell’esenzione per gli universitari) decisi di non presentarmi e mi rifugiai in un paesetto ai piedi del Cansiglio (Vittorio Veneto).
Feci lo “sbandato” fino a marzo, quindi decisi di scendere in città dove tutto sembrava calmo. L’8 marzo uscì il bando di Graziani che minacciava per i renitenti la pena di morte. Qualche giorno dopo mio padre mi avvertì che i carabinieri gli avevano nuovamente minacciato misure gravi a carico di mia madre (ebrea per parte materna) se avessi continuato a fare il renitente alla leva.
Mi presentai al distretto militare verso la metà di marzo. Rimasi circa un mese a Mestre aggregato ad una compagnia – deposito da dove giornalmente partivano contingenti per le divisioni fasciste in addestramento. Grazie al fatto di essere un “intellettuale” il Comandante della Compagnia saltò più volte il mio nome finché mi pose l’alternativa o di “imboscarmi” in un comando o di partire.
Preferii partire. Fui aggregato alla divisione Littorio come soldato semplice e inviato in Germania, a Padeborn, per addestramento, dove giunsi ai primi di maggio. Qui rifiutai di fare il corso ufficiali e, pur non dando adito ad alcun appunto per il servizio, entrai in sospetto degli ufficiali per gli apprezzamenti contenuti nelle lettere ai familiari (alcune non vennero inoltrate) e perché continuavo nello studio del russo. Dopo tre mesi (fine luglio) fui trasferito con altri 1.300 alla divisione San Marco per completarne gli effettivi al momento del suo rientro. Per ragioni puramente casuali tutto il gruppo proveniente dalla mia compagnia fu assegnato all’unico reparto volontario della divisione, cioè al battaglione Arditi (tutti volontari ad esclusione del mio gruppo) comandato dal maggiore Marcianò.
Il mattino successivo all’arrivo, quando fummo arringati dal maggiore, alla domanda se c’era qualcuno che non si sentiva di rimanere in quel reparto di volontari che si proponeva di sterminare i ribelli, fui il solo ad uscire dai ranghi: affermai che le mie abitudini e la mia mancanza di coraggio, oltre al fatto di non essere capace di andare in bicicletta (quello era un reparto di ciclisti) non mi consentivano di sentirmi a mio agio in quel reparto. Chiesi il trasferimento che mi fu promesso subito verbalmente. Il mio esempio però fece sì che molti miei compagni lo seguirono, sperando di ottenere essi pure il trasferimento.
Ciò ritardò anche il mio. Dovetti rientrare in Italia come “Ardito”. Giunto a Imperia e sistemato in una postazione antisbarco,ripetei la domanda per tre volte finché a fine agosto ottenni il trasferimento ad un reparto di sanità di stanza a Garessio. In uno spostamento da Garessio a Ceva dove trasportavamo del materiale,un gruppo di noi misero in atto il proposito di passare ai partigiani con armi e bagagli. Io approfittai di una circostanza favorevole a Noceto; gli altri lo fecero altrove. A Noceto ero entrato in un bar in divisa da San Marco, armato del fucile e mi ero seduto a un tavolo, mi pare, su una panca. La bruna ragazza del bar, uscito un soldato tedesco, mi si avvicinò e mi chiese cosa volevo. Ordinai – mi pare- una birra. Solo questo? Mi chiese. Ed io “no anche altro” risposi.
Oggi non ricordo se dicemmo altro. Forse mi chiese se volevo “andare su” e forse io risposi “si”, ma è più probabile che non andammo oltre la prima battuta. Certo lei concluse con un “aspetta qui”. Dopo una mezz’ora ero affidato a qualcuno (un contadino collaboratore?) che mi accompagnò, in un paio d’ore, in un distaccamento partigiano nei pressi di Perlo. Qui il nome Candido e l’incontro con il commissario Gelo (Angelo Miniati) e la mia prima operazione alla Filanda con lui.”