Sulla persona di Mons. Antonio Lanteri, defunto Parroco di S. Giovanni Battista in Loano, rispondo ad alcune affermazioni di un articolo apparso su “Trucioli.it” del 26 luglio 2018, intitolato: “Loano: il parroco scrive a quel tale che crede di voler bene alla sua città… gettando fango” (a riguardo della partecipazione degli amministratori pubblici alle processioni religiose cittadine). Non vorrei entrare nella discussione tra chi si firma “Lo spiffero” e Don Edmondo Bianco, Parroco di San Giovanni Battista in Loano, per non alimentare la “vis polemica” già presente; inoltre, quel tema non è lo scopo diretto del mio intervento.
Mi limito dunque, sull’argomento, a notare che in ogni luogo d’Italia le autorità civili e militari e gli amministratori locali, con gli esponenti della società civile, d’ogni orientamento politico e le più diverse convinzioni personali in tema di Fede, partecipano alle cerimonie della Chiesa e alle processioni religiose, come segno d’attenzione e partecipazione a eventi che, in ogni modo si pensi sul tema, sono parte del retaggio culturale e della struttura sociale del popolo italiano. I fedeli cristiani, come ogni cittadino, credo siano accorti a sufficienza per capire se gli eventi religiosi sono strumentalizzati. Auspico un confronto sociale, politico e d’idee più pacato e senza anatemi su nessuno.
Vengo adesso al motivo specifico per il quale Le scrivo. Dopo la replica di “Lo spiffero” a Don Bianco sul tema di cui sopra, Lei, Signor Corrado — definitosi: “Coordinatore volontario di Trucioli.it e parrocchiano” — ha aggiunto alcune considerazioni personali.
Mi riferisco a quanto ha scritto su Mons. Antonio Lanteri (1912 – 2002), il quale fu Parroco di San Giovanni Battista in Loano negli anni 1957 – 1992 e poi, fino alla morte, collaboratore del suo successore, Don Giuseppe Zunino (1943 – 2011). Quanto Lei ha scritto a riguardo di Mons. Lanteri, su alcuni presunti suoi comportamenti, mi ha sorpreso e interiormente ferito.
Il ruolo con cui mi accredito a intervenire, è quello di un loanese che nella gioventù conobbe e apprezzò Mons. Lanteri, frequentandolo negli anni 1972 – 2002, ossia il terzo trentennio dei suoi novanta anni di vita. Mons. Lanteri mi accompagnò in Seminario all’inizio dei miei studi verso il sacerdozio e pronunciò l’omelia-discorso alla mia prima Messa, a San Giovanni Battista di Loano, la domenica di Pentecoste, il 7 giugno 1992, che era il giorno del suo 80° compleanno e vigilia del ritiro a vita privata. Quella data, per la mia ordinazione sacerdotale, fu un regalo per il suo congedo come Parroco. Dopo la morte, all’apertura del suo testamento olografo, scoprii, con sorpresa unita a gratitudine per la fiducia riposta, d’esser stato designato come esecutore testamentario, ciò che feci, tramite la pubblicazione del suo testamento presso un Notaio, il Dott. Matteo Lavagna di Loano e la successiva esecuzione di quanto stabilito nel testamento medesimo. Sul giornale parrocchiale “Il Cupolone” del Gennaio 1993 fu data notizia degli adempimenti svolti.
Tornando a quanto Lei ha scritto su Mons. Lanteri, ne ho desunto che tra voi ci fu un rapporto, prima tra docente ed alunno e, dopo, tra parroco e giornalista, non del tutto sereno (“È stato insegnante di lettere in Seminario e ricordo quando scrisse (1966) una lettera di precisazioni a proposito di un mio articolo… aggiungendo che se avessi studiato di più, in Seminario, non sarei incorso in errori grammaticali. Peccato, il suo dotto testo ne conteneva due”), circostanza che mi pare vada non omessa nelle considerazioni sul suo odierno dire circa il defunto parroco.
Riguardo poi al fatto che: “Un parrocchiano, ora giornalista in pensione, incontrò [Mons. Lanteri] casualmente in un hotel spagnolo accompagnato da una profumiera assai conosciuta, all’epoca, in città”, osservo che il defunto non può più spiegare le ragioni di quel viaggio e neppure difendersi dalla maliziosa interpretazione che Lei, implicitamente, ne suggerisce. Per non essere accusato di minimizzare un presunto comportamento peccaminoso di “un collega” sacerdote, non dico che l’episodio descritto, se avvenne nei modi da Lei suggeriti, fu un comportamento che non è un “reato” nella società civile, ma è un “peccato” per i cristiani, che va trattato, dunque, in modo consequenziale, ossia non nello sbrigativo e non neutrale tribunale dei “social media” ma nell’ambito del Sacramento della Confessione, perché soltanto Dio può giudicare le sue creature con amore, equità e misericordia, e non le creature tra loro. Inoltre, la discrezione del confessionale intende favorire la conversione del cuore, mentre l’invadenza del “pulpito mediatico” appaga solo la curiosità ed i pruriti indebiti dei lettori. Gesù disse, alla donna scoperta in adulterio, che gli fu condotta perché la giudicasse: “Va e non peccare più”, ma disse prima agli accusatori: “Chi è senza peccato scagli la prima pietra”. Se gli alberi si devono giudicare, evangelicamente, dai frutti, allora il largo cordoglio da molti manifestato alla morte di Mons. Lanteri, la folla commossa alle sue esequie, insieme ai numerosissimi sacerdoti presenti, mi fanno pensare che egli visse fruttuosamente e conseguì quel minimo di santità richiesta dal buon Dio ai suoi figli per raggiungere la Vita Eterna.
Per tali ragioni, aver “messo in piazza” oggi, a distanza di molti decenni dai fatti e dopo la morte di Mons. Lanteri, un presunto episodio della sua vita personale, mi pare essere un comportamento almeno irriguardoso e indelicato. Inoltre mi chiedo: perché?
Sul presunto nepotismo di Mons. Lanteri verso i suoi familiari, suggerito dalla frase: “Dopo aver lasciato un’eredità ai famigliari con due alloggi di nuova costruzione realizzati in un palazzone di Piazza Mazzini, fronte mare. Tanti altri parroci sono morti in autentica povertà…”, posso riferire che l’erede universale, designato nel testamento olografo pubblicato presso il Notaio Lavagna, fu la Parrocchia di San Giovanni Battista di Loano e io stesso consegnai ogni cosa all’allora parroco, il defunto Don Pino Zunino. Il denaro gli fu utile per molti scopi (Lei ha ricordato le lesioni alla cupola della chiesa di San Giovanni); invece i libri del già professore di filosofia Lanteri divennero il nucleo iniziale della biblioteca parrocchiale. A favore della Parrocchia nativa di Realdo e di quella di Lusignano d’Albenga (ne fu Parroco dal 1945 al 1957) e dei nipoti, Mons. Lanteri costituì dei legati che io eseguii: a ciascuna delle due parrocchie donò Lire 10.000.000 (Euro 5.164,57) e ai sei nipoti Euro 2.000 ognuno, oltre la casetta rustica ed i pochi prati di montagna, in Realdo, provenienti dai suoi beni familiari.
Non posso, in astratto, escludere che egli abbia beneficato i suoi familiari in precedenza, perché noi sacerdoti diocesani, per vivere nella società, diversamente dai religiosi abitanti in convento, dei nostri beni privati conserviamo la disponibilità e il diritto di disporne liberamente, ma il fatto che Mons. Lanteri ospitava nella sua casa i parenti, quando lo visitavano, mi fa supporre che non vi erano altre soluzioni abitative. La sobrietà del suo stile di vita, poi, non mi pare sia smentita dalla modesta autovettura che usò per anni (Fiat “A 112 mini”), o dal dimesso mobilio della sua abitazione, o dal fatto che non acquistò mai, né volle che gli fosse donato, un abito da monsignore. Purtroppo, le tre signore che si succedettero, dopo la morte di sua madre, nella cura della casa parrocchiale e, dopo, dell’abitazione da pensionato, sono defunte, altrimenti avrebbero potuto riferire a tal riguardo.
Signor Corrado, non mi dilungo oltre, poiché questa lettera mi è costata molto in termini di disagio interiore: non è il mio stile abituale nelle relazioni umane! L’ho scritta perché ho venerazione per quei sacerdoti del nostro clero che mi furono esempi di vita e maestri nella formazione sacerdotale e che cito con orgoglio: con Mons. Lanteri metto Don Nicolò Parodi (vice parroco), Don Giacomo Savio e Don Antonio Cane (miei professori di religione alle scuole statali), ed i docenti del Seminario: Mons. Nicolò Palmarini, Mons. Prospero Chiappe, Mons. Giuseppe Fenocchio, Mons. Alessandro Sappa, Don Alessandro Ranoisio, insieme a molte altre belle figure della nostra chiesa diocesana nel tempo attuale. Lei, che si è detto compagno di studi di Don Zunino, sono persone che di certo ha apprezzato. Alcuni cattivi esempi, che in questi ultimi anni sono spesso all’attenzione della stampa e della pubblica opinione, non vanno negati né minimizzati, ma non devono oscurare l’esempio, umile e semplice ma fattivo e costante, dei circa centocinquanta sacerdoti del clero Ingauno, altrimenti viene a mancare l’obiettività del giudizio d’insieme.
Termino facendo mio “toto corde” un Suo auspicio: “Mons. Lanteri riposi in pace…”; lo desidero anch’io, tuttavia rammaricandomi ancora vivamente per la grave e gratuita offesa arrecata alla sua memoria. Le porgo i miei ossequi, “oremus ad invicem”.
Sac. Bruno Scarpino
Cattedrale di San Michele Arcangelo, Albenga
Nota di Luciano Corrado – Lascio volentieri l’ultima parola a don Scarpino e non entro nel merito della sua risposta, minuziosa e particolareggiata. In tanti anni di vita giornalistica, dal lontano 1967, da pubblicista e professionista, ho avuto modo di scrivere qualche centinaio di articoli sulla Diocesi di Albenga e Imperia, di Savona e Noli, da ultimo di Acqui Terme. Da cronista e mai nella veste di ‘giudice’. Notizie di vescovi, parroci e seminaristi, frati, suore, conventi. Ho collaborato, da volontario, come oggi mi dedico a trucioli.it, anche a bollettini parrocchiali. Ho amici sacerdoti, già compagni di seminario e non, che stimo e spero di essere ricambiato, senza malcelata presunzione. Impegnato, quasi sempre, nella cronaca giudiziaria, con imputati a volte nel clero, con il rischio di essere querelato. E’ quanto hanno fatto, negli anni, come era loro legittimo diritto, quattro sacerdoti ed un vescovo, un Istituto di suore che aveva venduto un immobile ad un personaggio piuttosto discusso. Non ho subito condanne, l’editore non ha mai pagato per mia colpa. Credo di poter citare un altro caso. Essere stato il primo giornalista (seguito da altri colleghi) a scoperchiare la pentola del ‘letamaio’ diocesano di sacerdoti e di seminaristi gay, provenienti in gran parte e ‘espulsi’ da altre diocesi italiane. ‘Pecorelle smarrite….?!’. Credo di aver dato atto, con articoli, che molti sacerdoti, citati da don Scarpino, erano esempio di coerenza al Vangelo, all’apostolato. Ho scritto di tre diocesi (mettendoci il nome e la faccia) per sostenere un’opera di pulizia inaugurata, tra tante difficoltà e resistenze, dal vescovo mons. Guglielmo Borghetti. Ho dato atto che ai tempi del ‘mio seminario’, con il vescovo Raffaele De Giuli, rettore monsignor Giacomo Contestabile di Pornassio, al minimo segno di omosessualità (esserlo non è peccato, né un’indegnità) si veniva allontanati. Da cattolico, ho ammirazione per sacerdoti come don Scarpino. Sono un umile testimone dei tempi che, nel limite delle capacità, ho cercato di non voltarmi dall’altra parte. Anche sbagliando, senza secondi fini, senza padrini e suggeritori interessati al ‘fango’. Una semplice virtù, tra una zavorra di difetti, è palare chiaro, non girare attorno alle tematiche affrontate o scoperte da cronista. Come non esitai, solitario, a ‘descrivere’ il buco di 5 milioni di € che rischiava di portare alla ‘bancarotta’ la Diocesi e preoccupò moltissimo il successore di mons. Mario Oliveri. Rimasi incredulo perché conoscevo, seppure sommariamente, gli anni di oculata amministrazione di mons. Fiorenzo Gerini che è stato mio insegnante, mio terzo parroco, dopo don Menini ed un breve periodo don Bellocchio. Oggi ci sono tre diocesi, con tre nuovi vescovi, di cui essere fieri ed orgogliosi. La chiesa di Roma è fatta di uomini e di donne ha molti nemici e avversari, ma resta un baluardo verso i poveri, gli ultimi, i diseredati. La chiesa e la fede confortano, lungo il cammino della vecchiaia, soprattutto migliaia, milioni di fedeli. Ultimo baluardo, di speranza e di vita, specie nei piccoli paesi di montagna che hanno la fortuna di avere ancora un parroco. E il suono delle campane tiene compagnia. Ricorda le nostre origini.