Mercoledì 6 giugno 1928 l’ing. Filippo Bonfiglietti, generale del Genio Navale, ebbe l’incarico di progettare una portaerei in base a una precisa prescrizione di requisiti tecnici: doveva dislocare 15.000 tonnellate, avere la velocità massima di 28/29 nodi, essere armata con quattro torri binate da 152, avere una protezione orizzontale pari a quella degli incrociatori leggeri e una protezione subacquea. L’incarico probabilmente era verbale, tanto che Bonfiglietti ne annotò la data sulla sua copia del programma, dove si spiegava anche che: “i velivoli moventi da stazioni costiere non garantiscono a una Forza Navale la continuità della loro sorveglianza contro i sommergibile, né il tempestivo concorso per la difesa attiva contro gli aerei e per l’eventuale azione tattica. Tanto più siamo nella necessità di riprendere in esame tale argomento perché l’accentramento all’Armata aerea dei mezzi da bombardamento marittimo e da caccia accentua le incertezze sulla tempestività del concorso areo“. Dunque, le idee erano chiare sia sul perché di questa nave, sia sulle sue caratteristiche di massima.
Nel mondo esistevano già una dozzina di portaerei, per la maggior parte appartenenti alla Gran Bretagna, agli Stati Uniti e al Giappone. Solo in Italia si continuava a dibattere se una simile nave fosse o non fosse davvero necessaria, sebbene il trattato di Washington ne autorizzasse la costruzione.
Il progetto, completato in un anno e mezzo , fu presentato allo Stato Maggiore nel dicembre del 1929. Consisteva in una relazione di 49 pagine, più un album di 35 tavole a colori e un modello di legno. La relazione era definita “sommaria” e il progetto “di massima”, ma il lavoro prendeva le mosse da un’analisi di tutte le portaerei esistenti o in costruzione nel il mondo ed era ricco di dettagli perché la nave era stata pensata come qualcosa da costruire sul serio.
La portaerei alla fine fu bocciata per un’ostilità diffusa, a incominciare da quella di Italo Balbo che non tollerava l’idea di rinunciare a un pezzo di aeronautica trasferendolo alla Marina. Ma, a quanto pare, lo stesso Mussolini non aveva capito l’importanza strategica di una simile nave da guerra e neppure i vertici della Marina si batterono come avrebbero potuto e dovuto fare, se ci avessero creduto davvero.
Invece si batté Bonfiglietti che, ormai vicino alla pensione, nei sedici mesi successivi propose ben quattro varianti. Dove la prima rappresentava il suo vero pensiero su come una portaerei dovesse essere, al di là di ogni prescrizione. Mentre le altre, più piccole e meno costose, erano basate sul fatto che una portaerei piccola era meglio di nulla e che due portaerei ancora più piccole sarebbero state meglio di una grande. Ma non ebbe successo.
Contro la portaerei, il principale argomento “tecnico” era che L’Italia, operativa soprattutto nel Mediterraneo, non ne aveva bisogno perché era essa stessa una “portaerei protesa nel mare”. Pochi considerarono la differenza fra il far decollare aerei da una nave dislocata nel posto giusto piuttosto che farli arrivare dall’Italia, peraltro inserita nel programma originale. Forse la guerra di Spagna e quella di Etiopia non erano prevedibili nel 1929, eppure in queste occasioni la presenza di una portaerei italiana sarebbe stata fondamentale, se solo fosse esistita. Dunque l’aggressività del regime fascista non poteva trascurarne l’importanza: invece lo fece. Alla fine, uno dei pochi a battersi per la portaerei fu l’ammiraglio Bernotti. E si preferì puntare sulle corazzate: furono le “Littorio”, molto più costose e prestigiose ancorché, nei fatti, si siano rivelate sostanzialmente inutili. Corazzate che avrebbero dovuto essere quattro e invece furono due, perché la Roma diventò operativa solo nel giugno del ’42, perché la Vittorio Veneto dopo il siluramento a Taranto nel novembre del 40 restò inattiva per un anno e perché l’Impero non divenne mai operativa.
L’errore fu compreso dopo che una ventina di aerei provenienti da una sola portaerei britannica misero fuori combattimento mezza flotta italiana a Taranto pochi mesi dopo l’inizio della guerra, e ancora di più dopo la battaglia di capo Matapan. Allora, per correre ai ripari, si cercò di trasformare in portaerei due transatlantici, ma era troppo tardi. L’Aquila, quasi terminata, fu sospesa dopo l’armistizio. Lo Sparviero era ancora più indietro. Furono entrambe demolite dopo la guerra, senza essere servite a nulla.
Del progetto Bonfiglietti si persero le tracce. Al punto che più tardi neppure gli studiosi più esperti ne sapevano nulla. Fortunatamente il progettista ne salvò una copia a futura memoria. E solo qualche anno fa se ne cominciò a parlare, riempiendo una lacuna mai colmata prima. Così si scoprì che negli anni Venti, oltre la portaerei mai costruita, aveva progettato gli incrociatori pesanti italiani classe Trento e Zara e così venne anche rivalutata la sua figura, offuscata da quella del generale Umberto Pugliese in quanto progettista delle Littorio. Ed oggi incomincia ad essergli riconosciuto il ruolo che gli spetta: quello di uno tra i cinque o sei più importanti progettisti di navi da guerra che l’Italia abbia avuto dall’inizio ai giorni nostri.
Intanto, la storia della portaerei del 1929 e delle corazzate Littorio è restata come una sorta di metafora dei tanti errori di valutazione che hanno accompagnato lo sviluppo dell’Italia.
Filippo Bonfiglietti