Non Der ferne Klang bensì Don Giovanni. Non quindi il raro, ed intrigante, titolo di Franz Schreker, bensì il più rassicurante ed immortale capolavoro di Mozart.
di Angelo Magnano
La discontinuità di linea fra il precedente ed il nuovo Sovrintendente del teatro Carlo Felice si è delineata già dal titolo d’apertura della stagione 2025/26. Se Claudio Orazi puntava, come lo scorso anno con il Giro di vite, su un repertorio di non facile fruibilità, ma indubbiamente stimolante, il successore Filippo Galli ha voluto subito far capire di voler sacrificare l’originalità sull’altare della popolarità. E non a caso l’altro titolo sostituito alla stagione già imbastita da Orazi sarà Il Campiello di Wolf-Ferrari: opera non conosciutissima ma di certo meno impegnativa del previsto Rinaldo di Haendel, con vivo rammarico degli amanti del teatro musicale barocco.
Le cifre, comunque, danno conforto a Galli se, come snocciola l’ufficio stampa del teatro genovese, si sono annoverate 1.754 presenze alla serata inaugurale (su 1.975 posti) ed è aumentato il numero di abbonati di oltre il 20% rispetto alla stagione precedente. Effetto Don Giovanni? Non solo, certamente, considerando che anche gli altri titoli – se si eccettuano il fresco d’esordio Nome della rosa di Filidei e il già citato Campiello – godono di ampio favore popolare e sono stati programmati da Orazi. La vera cartina tornasole si avrà con la stagione 2026/27.
Nell’attesa, si sono potute apprezzare altre novità come le conversazioni “da salotto” nel primo foyer che il neodirettore musicale Federico Pupo ha pensato di far precedere alle prime rappresentazioni, per coinvolgere il pubblico, grazie agli studenti del Conservatorio, con sapidi assaggi di quanto si sarebbe visto ed udito di lì a poco: idea simpatica anche se da perfezionare, soprattutto quanto ad acustica.
Platea in gran spolvero per l’attesa prima del Don Giovanni, sindaco Salis e presidente Bucci in testa, ma anche la confortante presenza di tanti giovani. Con il sommo capolavoro firmato Mozart e Da Ponte si va sul sicuro: la qualità divina della musica, la magistrale perfezione del libretto, gli eterni temi filosofici sviluppati dalla vicenda, il mirabile intreccio di tragico e comico, alto e basso, che è l’intreccio stesso di cui è tessuta la vita fanno sì che l’opera interpelli sempre chiunque vi assista, chiamando comunque a prendere una posizione. Davanti al “dissoluto punito” non si resta neutrali, mai.
Tanto più avendo davanti agli occhi la pluripremiata regia di Damiano Michieletto, ripresa per l’allestimento genovese da Elisabetta Acella. Una regia che, per quanto cominci ad accusare il peso dei suoi quindici anni di vita, e nelle soluzioni scenografiche (di Paolo Fantin) alimenti un senso di claustrofobica pesantezza, nondimeno vanta ancora diverse frecce nella faretra, soprattutto nell’approfondire le relazioni psicologiche tra i personaggi costruendo la drammaturgia sul potere dominante del libertino, dalla cui vorace personalità tutti – eccetto la Legge ultraterrena del Commendatore – sono soggiogati, perché solo grazie a lui trovano un ubi consistam. Geniale ed icastica, in questo senso, la lettura che Michieletto fa del finale “morale” dell’edizione praghese: non il lieto fine imposto dal genere “dramma giocoso”, bensì la definitiva resa dei conti degli attori della vicenda ai quali, con la morte di Don Giovanni, vengono recisi dallo stesso libertino i filo che, a mo’ di burattini, li legavano indissolubilmente a lui e senza i quali anch’essi perdono vita.
Solo se si accetta senza condizioni l’interpretazione di Michieletto si può sorvolare sulle frequenti discrasie fra il libretto e l’azione registica, che dichiaratamente non insegue il criterio del realismo, disattendendo sovente il dettato di Da Ponte, ma mira alla pregnanza simbolica dei personaggi e alle dinamiche psicologiche che li intrecciano in un opprimente crescendo che assume più spesso la tonalità della violenza che quella della seduzione. Dal cupio dissolvi che l’insaziabile brama erotica di Don Giovanni ritorce contro se stesso nessun coprotagonista è immune, e la scenografia d’interno palazzo perpetuamente rotante sembra imprigionare nel suo avvitarsi su se stessa i loro destini senza scampo. Come esemplifica l’inconsistente Don Ottavio quando non riesce ad aprire alcuna porta durante l’aria “II mio tesoro intanto” mentre promette di voler vendicare gli amici (che invece escono dalla stanza senza problemi). Come sempre, le regie di Michieletto prestano il fianco a critiche e anche questa mostra aspetti discutibili, ma hanno il pregio di provocare con intelligenza.
L’edizione scelta per quest’allestimento era la praghese “avvantaggiata”, ossia con l’aggiunta delle due arie viennesi di Don Ottavio e Donna Elvira ma non del duetto, anch’esso viennese, di Leporello e Zerlina, quasi sempre espunto. Ed è il fronte musicale quello che ha destato maggiori perplessità. La direzione di Constantin Trinks, inizialmente prescelto per il ferne Klang, non sembra prendere mai decisamente il volo e lascia un retrogusto di una certa uniformità. Il geniale contrasto/intreccio di tragico e comico, esaltato dalla sapienza dei colori orchestrali che costantemente permea la partitura mozartiana, viene restituito solo in parte da Trinks, che offre una lettura corretta ma senza guizzi. Ne risente anche l’equilibrio, non sempre risolto, fra buca e palcoscenico.
Alla resa complessiva non ha giovato del tutto l’apporto delle voci. Simone Alberghini si è disimpegnato con mestiere nel ruolo eponimo ma, probabilmente per via delle scelte registiche, ha dato del libertino un ritratto più violento che seducente, in complesso poco simpatico. Non del tutto a proprio agio nel personaggio di Leporello il basso Giulio Mastrototaro, incline talvolta a scivolare in fastidiosi cachinni, e poco persuasivo, anche per qualche difficoltà nelle agilità, il Don Ottavio di Ian Koziara. Gradevole Alex Martini nel ruolo di Masetto, autorevole per voce e presenza scenica Mattia Denti (Commendatore).
Sul fronte femminile, la più persuasiva è sembrata Chiara Maria Fiorani, disinvolta e spigliata Zerlina. Discreta la prova di Jennifer Holloway, che ha accentuato il lato isterico ed ambivalente della figura di Donna Elvira in una recitazione concitata e una prestazione vocale non priva di asperità. Meno convincente la Rancatore nel difficile ruolo di Donna Anna, con qualche ombra nel registro grave.
Il Don Giovanni sarà ancora in scena venerdì 10 ottobre, alle ore 20, e domenica 12 ottobre alle ore 15, con il primo cast, e sabato 11 ottobre alle ore 20 con il secondo cast: Gurgen Baveyan (Don Giovanni), Irina Dubrovskaya (Donna Anna), David Ferri Durà (Don Ottavio), Monica Zanettin (Donna Elvira) e Bruno Taddia (Leporello).
Angelo Magnano