Trucioli

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Vecchia Savona e Giuseppe Cava. Settimana Santa di un tempo, fra sacro e profano


Nel libro Vecchia Savona di Giuseppe Cava ritroviamo la Settimana Santa di un tempo, fra sacro e profano.

di Ezio Marinoni

Il monumento in ricordo di Giuseppe Cava

La scrittura di Giuseppe Cava ci ha già accompagnati nella salita al Colle dei Cappuccini, a Savona: https://trucioli.it/2024/10/24/io-turista-e-scrittore-al-colle-dei-cappuccini-fra-le-mani-un-prezioso-libro-di-giuseppe-cava-beppin-da-ca-che-descrive-la-vecchia-savona/ (Trucioli, Anno XIII, n. 59, 24 ottobre 2024).

Con l’approssimarsi della Settimana Santa, riprendo alcune puntuali e delicate pagine di questo autore, nelle quali egli descrive il clima e l’ambiente savonese nel periodo che precede la Pasqua.

«La Settimana Santa, da oltre tre secoli, attira nella città nostra un numero stragrande di forestieri, in prevalenza contadini, provenienti dalle due riviere e dal basso Piemonte, desiderosi di assistere alle solenni funzioni religiose, culminanti nelle tradizionali processioni notturne del Venerdì Santo e del mattino pasquale. Tali processioni costituiscono un inusitato spettacolo per la dovizia dei ceri e per gli artistici gruppi rappresentanti episodi della Passione ed hanno raggiunto una fama di cui i Savonesi, anche se non religiosi, vanno orgogliosi quanto della storica torre del Brandale che ricorda le glorie del libero Comune.

Con i progrediti e rapidi mezzi di comunicazione e con l’affinarsi dei costumi anche fra la gente del contado, l’annuale invasione di devoti e di curiosi, ha perduto le caratteristiche del tempo in cui la maggior parte di essi giungeva qui a piedi, dopo interi giorni di marcia faticosa lungo le primitive strade montane e rivierasche.»

Savona diventava, quindi, il centro di una convergenza laica e religiosa, quasi un esodo di persone provenienti dai dintorni, che si accalcavano fra le anguste e sinuose strade del centro storico; per la difficoltà di trovare un alloggio, alcuni erano costretti a bivaccare all’aperto sui gradini delle chiese o altrove, in promiscuità. Siamo di fronte a scene arcaiche, viene in mente una processione dannunziana verso un santuario abruzzese, con i fedeli ad accalcarsi sulla strada, all’esterno della chiesa: una corsa di persone menomate verso il luogo della redenzione, l’attesa miracolistica di una salvezza corporale e spirituale.

Giuseppe Cava descrive tempi in cui «via Cassari coi suoi tortai e colle sue locande rigurgitanti giorno e notte, e via Pia coi suoi numerosi merciai, stavano all’apogeo della rinomanza e dei lucrosi affari.»

Il Quartiere dei Cassari è scomparso, perduto sotto i colpi dei picconi del progresso e delle ricostruzioni volte a una presunta modernità, che voleva cancellare le brutture del passato. A partire dal cosiddetto “piccone umbertino”, che ha colpito molte città italiane, seguito dagli sventramenti effettuati dal fascismo, come descritto da Trucioli Savonesi: https://www.truciolisavonesi.it/articoli/numero28/trasformazioni_urbanistiche28.htm

Addentriamoci, dunque, nell’ambiente e nel clima collegato ai giorni della Settimana Santa.

«Nessun’altra solenne ricorrenza reggeva il paragone colla Settimana Santa. E gli esercenti, sin da metà Quaresima, vi si preparavano facendo toletta ai loro locali, agghindandoli e rifornendoli di mercanzie; alacri e sorridenti, pregustando la prossima gioia degli incassi vistosi, avidamente rimuginati durante la lunga annata di calme vendite consuete.»

La città e la campagna si incontrano, o si scontrano, due mondi lontani e diversi, descritti da Giuseppe Cava. La Settimana Santa è un’occasione ghiotta per i negozianti, che allestiscono i loro negozi come per una grande festa, in attesa dell’arrivo dei «beciancilli» dal contado.

«Oggi i beciancilli giungono fra noi in autobus e colla via ferrata, quando non con macchine proprie. Vengono certo più numerosi e anche da più lontano di mezzo secolo fa, ma a malapena non tutti si distinguono dai cittadini. Non portano più in testa i gazzi fiammanti e i larghi fazzolettoni colorati, né vestono di fustagno e di vergatino, e il lastricato delle vie, ora ampie e monumentali, non risuona sotto i passi pesanti e sgraziati delle grosse calzature chiodate e fangose.

(…) Girano smaliziati e indifferenti, con a fianco le loro donne vestite alla moda, con i capelli corti e le scarpette scollate e chi si azzardasse di farli oggetto di qualcuna delle beffe che fornivano l’argomento per mesi e mesi, alle grasse risate degli sfaccendati burloni d’un tempo, vedrebbe spuntare sulle loro labbra un sorriso ironico di derisione: Non attacca, amico!»

Il progresso è arrivato e i segni della moda ora drappeggiano i corpi femminili. Un rischio sono i “lestofanti” che si aggirano per la città; nei miei ricordi emerge il tavolino con il giocatore napoletano dei campanelli, sotto i portici prospicienti la stazione di Torino Porta Nuova, in attesa degli sprovveduti da truffare, appena scesi dai treni provenienti dalla provincia.

«Ma se i tempi e i costumi si sono mutati, quello che non ha mutato per il volger degli anni, è lo aspetto festoso e solenne, fatto di attività insolita e di gaiezza, che la nostra città assume in questa settimana consacrata alla Passione e Risurrezione dell’Uomo Dio. Settimana che si inizia il lunedì nella Cattedrale Basilica con la famosa «Macchina», una meraviglia formata dalla gloria fiammante di oltre un migliaio di ceri disposti con arte impareggiabile attorno all’altar maggiore, i cui marmi sacri, coperti di lini preziosi, sembrano splendere di mistico candore in un infinito cielo di stelle, e che viene accesa per tre sere di seguito durante le rituali funzioni.»

Rimane, quindi, immutato il senso del religioso, l’attesa della Pasqua: una festa solenne, la Resurrezione di Cristo per i credenti, che inizia con la “Macchina” in Duomo, marmi e ceri fiammeggianti in un “mistico candore” che prelude alle celebrazioni pasquali.

«No, l’aspetto festoso, gaio che in questa settimana si diffonde per tutto, nelle cose e negli esseri viventi, non muterà quand’anche le sacre funzioni dovessero annullarsi in un lontano futuro, perché la irrompente Primavera continuerà a risvegliare nei cuori la gioia della vita rinnovellata (…)».

Giuseppe Cava sembra prevedere i tempi della secolarizzazione, l’abbandono della fede e le chiese che si svuotano; ci lascia il suo messaggio di pace, rivolto alle persone di buona volontà. Nell’era buia della guerra fra Russia e Ucraina, negli attacchi armati fra Israele e Palestina, ci sentiamo figli di quel “Golgota insanguinato” col quale Cava chiude una pagina di memorie pasquali.

Egli ci racconta, poi, tre successive processioni che, ai suoi tempi, avevano ancora un notevole impatto sulla popolazione.
Iniziamo dal racconto del Giovedì Santo, sempre sul confine tra sacro e profano.

«Il giovedì sera si snodava per la città la processione delle «cassette», portate da bambini sui dieci, dodici anni. Una riproduzione in piccolo dei gruppi artistici di quella del Venerdì Santo. Una parodia scomparsa, nella quale figuravano molti doppioni dello stesso gruppo e parecchi di squisita fattura, che in molte case ancor si conservano e che starebbero bene riuniti in una sala del

Museo o della «Campanassa». Non mancavano né le torcie, né i tamburi e nemmeno la schiera dei chierichetti, coi fumiganti turiboli, attorno alla «cassa della Santa Croce», posseduta da un certo Rattin, notissimo usuraio.»

Il Venerdì Santo, giorno di dolore e digiuno, riflessione e preghiera, si ricorda la Passione e la morte di Gesù, fra la scarsa illuminazione pubblica e le candele dei fedeli, col sottofondo ritmato delle litanie cantate da qualche coro.

«La processione del Venerdì Santo, quale oggi è offerta all’ammirazione dei fedeli, ha guadagnato in sontuosità e sfarzo su quelle della mia giovinezza. Ma ha puranco perduto qualcuna delle caratteristiche sue proprie. Anzitutto s’inquadrava meglio nelle strette vie della città vecchia. La scarsa luce dei fanali a gas permetteva maggior risalto alla illuminazione a cera dei gruppi e

maggior coesione alle teorie dei fedeli che li seguono. Nonostante l’illuminazione elettrica che ha sostituito le candele, lo splendore dei fari stradali annulla per una buona metà l’effetto coreografico dello sfilamento.

(…) È rimasto indimenticato il gruppo dei cantori di Lavagnola, così ben affiatato e con una ricchezza di voci davvero ammirabile.»

Dopo il silenzio del sabato, arriva la mattina di Pasqua, fra un clima di festa, un’altra processione e lo scampanio delle chiese.

«La Settimana Santa si concludeva, come ancor si conclude, con la processione del mattino di Pasqua. Una lunga sfilata di fratelli dell’oratorio del Cristo Risorto, in cappa bianca, alla quale prendevano parte moltissime donne e ragazze col cappuccio abbassato, i cui occhi però sfolgoravano attraverso i buchi, precedenti l’unica statua del Redentore. Processione festosa, dove alla letizia dei canti mistici si aggiungono gli allegri concerti delle bande musicali.

Alla statua del Redentore v’ha unita una leggenda, la quale vuole che se la processione non rientrasse prima del levar del sole, la statua suderebbe sangue. Cosa che mai si è verificata, perché la processione guadagna sempre l’Oratorio con le prime luci del giorno.

La sacra cerimonia, oltre al simbolo religioso, è un inno gioioso alla Pasqua, alla vita redenta, ai cieli puri e dolci, che sveglia la città dormente perché unisca il suo giubilo alla letizia del mondo rinascente nella primavera.»

Ezio Marinoni


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Ezio Marinoni

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