Gabriele D’Annunzio, una delle personalità più complesse e straordinarie della cultura e letteratura italiane, noto anche per le eccentricità e le scelte di vita che accompagnarono la sua intera esistenza (1863-1938), fu anche un estimatore del cibo raffinato, un buongustaio e un goloso.
di Tiziano Franzi
Secondo quei canoni di vita che lo avevano fatto definire un”superuomo” e sul profilo del quale crea i personaggi principali di suoi più famosi romanzi (Il piacere, L’innocente), visse secondo i princìpi dell’estetismo: la ricerca del bello, dell’eleganza, della raffinatezza, di tutto ciò sa dare piacere sensuale.
D’Annunzio e il cibo – Goloso sì ma non ingordo, aveva il pensiero che nutrirsi fosse un atto meschino e grossolano che gli suscitava repulsione. Infatti, nel cibo ricercava soprattutto un coinvolgimento emotivo. Essendo un esteta, ciò che gli premeva era che il cibo fosse bello da vedere e che i colori regalassero armonia al piatto, per soddisfare prima la vista che il palato. A questo proposito scrisse: “Mi sembra più bestiale riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all’orgia più sfrenata e più ingegnosa .”
Pare, però, che uno dei motivi per cui a D’Annunzio faceva ribrezzo mangiare fosse che aveva i denti rovinatissimi e neri, che non si era mai voluto curare. Per questo gli creava imbarazzo masticare davanti ad altre persone. Inoltre, si annoiava a stare seduto a lungo a tavola, così dovette inventare uno stratagemma per convincere gli ospiti a mangiare poco: un giorno, la marchesa Luisa Casati Stampa gli regalò una gigantesca tartaruga africana, che D’Annunzio chiamò Cheli. Cheli però morì per indigestione di tuberose e D’Annunzio ne fece fare una riproduzione identica dallo scultore Renato Brozzi, così da poterla sistemare con il guscio vero a capotavola della sua sala da pranzo detta, appunto, “Stanza della Cheli“. La tartaruga fissava gli ospiti e serviva per ricordare loro di non mangiare troppo, o avrebbero fatto la stessa fine.
Mangiava quando aveva fame e cambiava orari e abitudini continuamente, lasciando disposizioni scritte alla cuoca.Era un onnivoro con una forte predilezione per carne ed uova e, appare quasi scontato, per i dolci. Amava il riso, la carne alla griglia quasi cruda, tutti i pesci, pernici e cacciagione e tartufi. Tra i formaggi gustava il cacio e tra i salumi amava il salamino pepato. Mangiava giornalmente 4-5 uova e fu un cultore della bistecca. Divorava la frutta, cotta o cruda, ad ogni pasto e fuori dai pasti. Preferiva le pesche-noci, l’uva, i mandarini, le banane, ma soprattutto le fragole. Gli piaceva una macedonia composta di fette d’arancio e qualche goccia di liquore. Quando non era osservato, amava divorare una dozzina di gelati di seguito; il preferito era il sorbetto al limone. Cioccolatini erano sempre alla sua portata in una coppa sulla scrivania, anche come corroborante per le sue imprese a letto. Attendeva sempre con impazienza l’ora della colazione o del pranzo con vera gioia e diventava d’umore intrattabile se non era prontamente servito.
Era considerato da alcuni un astemio, a causa della sua passione per l’acqua di cui proclamava le innumerevoli virtù, ma bevve anche del vino, quando in Francia per il periodo di due anni, fu convinto dai viticoltori della regione sui vantaggi che il nettare poteva offrire alla sua salute. Ne Il piacere il Vate elogia il dessert e la sua presentazione come l’apice della cucina: “Il finale del pranzo era, come sempre in casa d’Ateleta, splendidissimo – scrive D’Annunzio – poiché il vero lusso d’una mensa sta nel dessert. Tutte quelle squisite e rare cose dilettavano la vista, oltre il palato, disposte con arte in piatti di cristallo guarniti d’argento“.
La cucina del Vittoriale- Il Vittoriale degli Italiani è un complesso di edifici, vie, piazze, un teatro all’aperto, giardini e corsi d’acqua eretto dal 1921, a Gardone Riviera sulle rive del lago di Garda da Gabriele d’Annunzio con l’aiuto dell’architetto Gian Carlo Maroni, a memoria della “vita inimitabile” del poeta-soldato e delle imprese degli italiani durante la Prima Guerra Mondiale. Tutti gli ambienti di questa particolarissima dimora trasudano dannunzianesimo e una sua visita permette veramente di comprendere meglio le passioni e le eccentricità del Vate. Fra essi, due sono di particolare interesse per delineare meglio il rapporto fra il poeta e il cibo: la cucina e la sala da pranzo.
Una cucina del tutto particolare, che unisce tradizione, richiami alle origini e modernità. Una grande stufa al centro dell’ambiente principale irrompe immediatamente agli occhi del visitatore. Una stufa a legna con forno, una struttura possente, simile a quelle presenti nelle cucine dei Palazzi Reali dell’epoca ; il locale era collegato da un passavivande ad ascensore per permettere che i manicaretti giungessero profumati e caldi al tavolo della sala da pranzo superiore.
E’ una cucina che unisce tradizione e modernità (sempre in riferimento all’epoca) ; il poeta la chiamava “il regno del fuoco“: ampia, luminosa, con mensole, rastrelliere, tavoli robusti e, come segno di modernità, anche una splendida ghiacciaia. La sala da pranzo è ampia, luminosa, con le finestre decorate da vetri a mosaico smaltati a piombo . Qui erano fatti accomodare gli ospiti di riguardo e, talvolta, vi si rinchiudeva il padrone di casa, per trovare dal cibo ispirazione per i suoi scritti.
Albina, più che una cuoca- Fra i domestici, due furono particolarmente vicini al poeta: Il primo, Dante Fenzo, divenne a vita l’autista del Vate, la seconda, Albina Lucarelli Becevello, la sua amata Suor Intingola. D’Annunzio comunicava con Albina tramite bigliettini, che hanno lasciato testimonianza delle abitudini e dei desideri gastronomici dello scrittore.
I biglietti che il poeta scriveva alla cuoca non si limitavano alla richiesta di piatti ben precisi, ma testimoniavano affetto e gratitudine, talvolta anche in maniera tangibile, ossia mille lire per un pasticcio di fegato chiesto a ore impossibili o 500 lire per una colazione particolarmente succulenta o dolcetti goduriosi, scusandosi per averla svegliata nel cuore della notte: “Mia cara Albina so che a quest’ora sei tutt’ora in piedi, e me ne dolgo. Il disordine della mia vita senza orario non deve turbare il tuo riposo. Io mi contento di tutto. Ma queste tarzette di pasta sono squisitissime”. Altre volte gli ordini erano un po’ più perentori: “Cara Albina poiché sono sempre disubbidito e sempre costretto a mangiare ciò che non voglio, ti do quest’ordine. Da oggi in poi, ogni giorno, fra le tre e le quattro del pomeriggio dev’essere pronto, per me solo, vitello freddo con salsa o senza. Voglio sapere il ripostiglio dove lo serberai, e andrò io stesso a prendermelo quando avrò fame”.
Lei lo chiamava “paròn“ lui Suor Intingola, Suor Ghiottizia, Suor Indulgenza Plenaria. Albina, che abitava nell’ultimo piano sottotetto, ogni mattina, anche se era stata svegliata nel cuore della notte per cucinare, prendeva servizio e preparava i pasti per le 25 persone circa che vivevano al Vittoriale, tra domestici, amici e amanti del Vate.
Albina non fu solo una cuoca fidata, ma una figura che lo accompagnò in diversi luoghi e avventure nel corso della sua vita. Fedeltà e stima che erano senza dubbio reciproche, ma venivano anzitutto dal Vate, come testimoniano le numerose lettere e biglietti che le scrisse nel corso del tempo. Una donna abile in cucina e detentrice dei segreti culinari che sfoggiava non solo in elaborate preparazioni in occasione delle visite di importanti ospiti o di ricorrenze, ma anche nelle proposte di piatti semplici che ai più potrebbero sembrare banali; con la sua abilità riusciva ad esaltare anche il sapore di un semplice uovo sodo, suscitando nel poeta parole piene di entusiasmo ed euforia
Tre specialità- Il tramezzino. Una delle pietanze più diffuse ai giorni nostri deve il suo nome proprio ad una intuizione dello scrittore e nel desiderio di attribuire un nome in lingua italiana al sandwich inglese: parliamo del tramezzino.
Se oggi è una pietanza tipica di buffet e street food per un pasto veloce, all’epoca le due fette di pane in cassetta farcite di salumi o formaggi – preparazione ideata al Caffè Mulassano in Piazza Castello a Torino – accompagnavano colazioni e spuntini pomeridiani, costituendo così un piacevole intramezzo. Da qui il nome “tramezzino” coniato da D’Annunzio.
Il parrozzo- Dolce dalla forma semisferica di origine pescarese, a base di mandorle e semolino, ricoperto di cioccolato fondente, tanto buono da entrare nei versi del celebre poeta D’Annunzio, il Parrozzo era tra i dolci preferiti da D’Annunzio che lo celebrò con i versi in dialetto abruzzese della poesia “La Canzone del parrozzo”: È tante ‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè, c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce.
I panicilli- Dolce d’origine calabrese, I panicilli sono un prodotto tipico della Riviera dei Cedri (Cosenza) e consistono in fagottini di uva passa avvolta in foglie di cedro insieme a pezzetti di scorza dello stesso agrume. Per la buona riuscita di questo dolce è indispensabile che l’uva venga raccolta a luna calante, e che i grappoli utilizzati siano rigorosamente di qualità zibibbo. Apprezzatissimi dal poeta, li considerava una vera delizia e non potevano mai mancare in tavola o vicino alle sue scrivanie.
I baci di Alassio- In Liguria D’Annunzio fu più volte, soggiornandovi anche per alcuni giorni, specie quando accompagnava la famosa attrice Eleonora Duse nelle sue tournées. Così fu a Santa Marghertita, a Portofino (dove tradusse la dicitura “Portofino Kulm” in “Portofino vetta“) a Varazze (dove si fece costruire dai cantieri Baglietto il motoscafo Alcyone) e ad Alassio. Qui divenne un assiduo frequentatore della pasticceria Balzola per gustare la sua specialità: i “Baci di Alassio”.
Li aveva creati nel 1919 il pasticcere di Casa Reale Savoia Rinaldo Balzola, figlio di Rinaldo, che si era trasferito nella cittadina ligure dall’originario paese di Villamiroglio, nelle colline del Monferrato. Per l’azienda di famiglia, la creazione dei “Baci di Alassio” (che egli aveva subito brevettato) fu un importante salto di qualità che presto si trasformò in un vero e proprio decollo verso vette insperate. Infatti il Balzola fu tra i primi locali in Italia, e il primo in assoluto in Liguria, ad aprirsi alla moda dei caffè concerto. Ai suoi tavolini i clienti potevano gustare le prelibatezze della pasticceria e, allo stesso tempo, ascoltare le esecuzioni delle migliori orchestre italiane. Si era in piena Belle Epoque e Alassio divenne una vetrina ambita per i personaggi più noti del tempo. Tra le visite più chiacchierate quella che Gabriele D’Annunzio fece nel locale accompagnato dalla Duse e scortato da due magnifici levrieri.
Durante una delle sue degustazioni ai tavoli del caffè Balzola, il poeta (si dice per non pagare il conto) volle omaggiare il proprietario con una dedica particolare, definendo quei baci: “I suoi baci sono i baci della galanteria“. Da allora quello divenne lo slogan pubblicitario di quel prelibato prodotto dolciario. Tanto che il colosso del cioccolato Perugina, negli anni ’40, fece causa al Caffè Pasticceria Balzola in quanto la dicitura Baci di Alassio poteva offuscare il nome Baci Perugina. Citati in giudizio, il tribunale di Perugia dovette prosciogliere Balzola, “in quanto il brevettto dei Baci di Alassio era antecedente a quello dei Baci Perugina”.
Nel 2012, in occasione dei festeggiamenti del 110° anno di attività, i “Baci di Alassio” raggiunsero il Quirinale e furono molto apprezzati dal Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
Tiziano Franzi