Il 2 novembre è un giorno di ricordo e tradizioni che rivivono, per credenti e non credenti, in piccoli e semplici gesti volti a rievocare chi non è più tra noi. Un tempo aleggiava la credenza che i morti tornassero in quella data a visitare luoghi e persone care.
di Ezio Marinoni
Commemorazioni dei defunti sono presenti in tante culture, compreso l’Antico Testamento. L’origine storica di questa ricorrenza si può rintracciare in un antico rito bizantino dedicato ai morti, che si teneva in un periodo compreso tra gennaio e febbraio. Nella storia della Chiesa la prima celebrazione dei defunti si tiene nel 998, grazie all’abate benedettino sant’Odilone di Cluny, che stabilisce per la prima volta che le campane dell’abbazia siano fatte suonare con rintocchi funebri dopo i vespri del primo novembre, in memoria dei defunti. Il rito si diffonde in occidente, ma la festa verrà riconosciuta solo nel XIV secolo, con il nome di Anniversarium Omnium Animarum. Da allora ogni anno il 2 novembre vengono ricordati i defunti e ci si reca nei cimiteri per salutare i propri cari scomparsi.
In Liguria, nella vigilia del 2 novembre era consuetudine consumare castagne: nel corso della veglia serale dei morti i parrocchiani andavano in chiesa ornati di collane di “ballotti”, castagne bollite infilate in fili di ginestra, che venivano mangiate durante la funzione.
Come regalo ai nipoti, le nonne preparavano una “resta”, una collana costruita con filo o spago, composta di castagne bollite alternate alle mele Carle (di solito tre), oggi molto rare.
Si riordinava la casa in ogni camera, perché i defunti trovassero ogni cosa al suo posto, un letto sempre libero per farli riposare dopo un lungo cammino. Si lasciava anche qualcosa da mangiare e da bere per rifocillarli, una volta tornati a casa.
Molte erano le usanze, diffuse in tutta la Liguria, spesso diverse da un luogo all’altro: in Val Bormida si lasciava il fuoco acceso nel camino; in Val Polcevera, la sera precedente il 2 novembre, si mettevano lenzuola pulite nei letti, si velavano gli specchi e si puliva tutta la casa.
Il pranzo, nel giorno dei morti, aveva un menu particolare: si mangiavano fave che, con il loro fiore scuro, ricordavano la tristezza e la mestizia della giornata. Una pietanza era lo “zemin” di ceci, sul quale troneremo più avanti.
“L’Officieu” doveva ardere sui tavoli: una sottile candela multicolore e multiforme, realizzata solo in occasione delle celebrazioni dei defunti, accesa per le orazioni serali e per la recita del Rosario con la famiglia riunita davanti alle immagini dei propri cari.
Si attendeva il ritorno dei morti, con la loro lugubre processione: si immaginavano in uscita dai cimiteri, in una lunga fila, a due a due, vestiti di cappa e cappuccio nero come le Confraternite dei Battuti; le loro apparizioni erano attese nei dodici giorni intorno al 2 novembre.
Al Picco Spaccato, sopra Albisola, una tradizione vuole che in quella notte si radunassero i morti anzitempo, vale a dire le anime degli uccisi o dei suicidi, degli annegati e dei bambini defunti, che si muovevano salmodiando in processione.
Il rito della “chiamata” è stato in uso nella zona di Albenga e in Valle Arroscia sino alla fine del Novecento. Nelle Confraternite si ricordavano i defunti, dopo una processione alla luce delle sole torce, che si muoveva nel cuore della notte.
A Loano i bambini uscivano di casa a mezzogiorno e andavano di porta in porta con un recipiente a chiedere una cucchiaiata di “zemin p’è annime di Morti”, a suffragio dei defunti.
Un testo utile per riscoprire le consuetudini per la ricorrenza del 2 novembre, e tante altre, è Il cerchio del tempo. Le tradizioni popolari dei Liguri, Sagep, Genova 1991, nel quale Paolo Giardelli ha raccolto i suoi studi sul folklore e l’antropologia della Liguria.
Chiudiamo questa ricognizione con la leggenda del Buranco, o bocca dell’Inferno. Essa viene riportata da un insegnante e bibliotecario originario di Toirano, Baccio Emanuele Maineri, forse recuperando l’atmosfera delle opere gotiche di Edgar Allan Poe di cui è ammiratore e traduttore dal francese. Questo studioso, oggi quasi dimenticato, meriterà un approfondimento a parte.
La leggenda del Buranco-
Nel mese di novembre, dopo i giorni dei defunti, un gruppo di cacciatori parte da Bardineto a caccia di lepri e attraversa i boschi del Buranco. La loro guida inizia a raccontare leggende di diavoli e spettri che vagano nella zona, nelle notti senza luna. Una bufera li sorprende in prossimità di Castelnuovo di Rocca Barbena, il gruppo trova riparo in casa di un pastore, che racconta una storia paurosa legata alla sua infanzia e ricorda quando un gruppo di ragazzi originari di Toirano, come prova di coraggio, cala con una corda un compagno nella voragine. Il ragazzo scende, scende, scende, fin quando un urlo raggelante li spaventa: tirano la corda trovando l’amico consumato dal fuoco, con i capelli bruciati e la pelle ustionata.
Tali luoghi, fra il magico ed il misterioso, hanno dato origine a storie popolari ricche di eventi sovrannaturali, trasformando voragini naturali in possibili ingressi e corridoi oscuri che portano nel mondo dell’aldilà, ovviamente all’Inferno. L’immagine della voragine fa subito pensare alle bolge infernali descritte da Dante nella Divina Commedia e ci fa immaginare, sul fondo, una caverna oscura che termina con la temibile apertura verso un aldilà negativo che nessuno vorrebbe conoscere.
Per concludere, possiamo domandarci se e quanto il substrato precristiano, intessuto di dèi e di esseri mostruosi ed onirici, abbia influenzato l’inconscio collettivo, sino ad arrivare alle costruzioni immaginarie e letterarie dei secoli più recenti. In questo contesto indefinito, la sacralità riconosciuta alla donna, trasformata in divinità madre a partire dagli Egizi, può aver prodotto streghe e masche, fantasmi e dèmoni o befane.
Da qui alle processioni dei morti il passo è breve: ricordiamo, quindi, i nostri cari che non ci sono più nel modo a noi più congeniale.
Ezio Marinoni