Ciò che è “bello” o, meglio, che produce quel fenomeno (chiamato catarsi) che va dalla semplice attenzione prestata a un oggetto percettivo fino alla cosiddetta “sindrome di Stendhal” è oggi estremamente vario.
di Sergio Bevilacqua
Si è persa l’estetica unica, anche se si sono affermati nel mondo alcuni “padroni dell’arte” (Pinault, Art Basel, Gagosian, Guggenheim, i soliti Christie’s e Sotheby’s, e alcuni altri) che sono in grado di condizionare il gusto dall’alto: li chiameremo leader dell’Empireo artistico. La scala che arriva a loro si è interrotta e la massa sempre maggiore di chi si cimenta con l’arte fa ressa sul pianerottolo oltre il quale c’è solo cielo e l’empireo irraggiungibile dei leader mondiali si cui sopra.
Che cosa accade nella ressa? Da una parte, l’istruzione scolastica guida verso la storia e la storia dell’arte, dunque verso un gusto strutturato e sostenuto dalle accademie; dall’altra, la società vive un’epoca diluviana e mille piccoli cicli dell’arte si sviluppano tra artisti e fruitori. Così il mondo del Globantropocene ipermediatizzato e ginecoforico, vive l’arte, con stili molteplici e potenzialmente infiniti. Nessun’arte, nessuno stile dominante, bensì infiniti Percorsi dell’Arte: i bravi operatori, curatori e critici d’arte del settore devono avere la concretezza e flessibilità di gestire questi infiniti microcicli di prodotto-mercato, con cuore e cervello, per portare gli artisti al loro destino, ai loro fruitori. Questi ultimi sono comunque moltissimi, più di sempre e in continuo aumento tra i 4 miliardi di esseri umani terminalizzati e i 40 miliardi di società umane, potenziali estimatori e collezionisti o clienti. Ce n’è per tutti.
Ed è così che si avviano tanti percorsi poietici, di produzione artistica: tali percorsi sono almeno tanti quanti sono i grandi artisti che ci emozionano nella storia dell’arte e, in aggiunta, tutte le contaminazioni tra loro. Cioè l’infinito. Non dimentichiamo che, prima di giungere dove siamo, gli artisti hanno sperimentato di tutto: hanno scandagliato il campo dell’arte del tutto e del nulla, hanno scoperto nuovi materiali, hanno dovuto accettare l’esilio da gran parte del campo della documentazione della memoria o reinventarsi fotografi, hanno fatto arte del gesto di farla, si sono distrutti fisicamente e moralmente divenendo combustibile per l’arte e dunque per l’altrui catarsi artistica.
Un filone di sicura importanza è quindi quello della conoscenza dei maestri storici e delle correnti e scuole, della loro storia creativa. Ogni scoperta o interpretazione che ne cambi il profilo è importante: la scoperta di un tratto inusuale in un maestro diviene miniera di nuova arte dei suoi proseliti d’oggi, anche loro ammassati sul pianerottolo da cui non parte più nessun ascensore e nessuna rampa di scale ulteriori. Infatti, se qualcuno ascende all’empireo, è perché viene prelevato da una sorta di mezzo alieno, che significa unicamente (lo ripeto: unicamente!) fortuna e coincidenze. A Montmartre, il sistema dell’arte ha da tempo chiuso i battenti, e così il salotto di Andy Warhol in Lexington Ave, nell’upper eastside di New York, in vendita.
Dunque, oggi, più si conoscono i maestri, le scuole e le avanguardie più ciò diviene importante per il lavoro degli artisti e per lo sviluppo dell’arte del Secondo Diluvio (l’era odierna), con grande beneficio della pseudo-magia della catarsi artistica.
Così accade con l’importante lavoro svolto nella mostra sostenuta dall’intelligenza creatrice del Sole 24 ore “Vincent Van Gogh pittore colto” al MUDEC di Milano. La curatela della mostra è affidata allo storico dell’arte Francesco Poli, a Mariella Guzzoni, ricercatrice e curatrice del fil rouge “Van Gogh: vivere con i libri”, che si articola lungo tutta la mostra e Aurora Canepari, conservatore responsabile del Museo d’Arte Orientale Edoardo Chiossone di Genova, curatrice della sezione “Van Gogh e il Giapponismo”. La mostra è resa possibile grazie alla collaborazione con il Museo Kröller-Müller di Otterlo, Paesi Bassi, da cui provengono circa 40 delle opere esposte, e che possiede una straordinaria collezione di dipinti e disegni del pittore olandese seconda solo a quella del Van Gogh Museum di Amsterdam.
Vediamo dove ci porta questa intelligente esposizione.
Prendo come esempio, per altra via, il quadro di Van Gogh ove l’artista riproduce le rive del Rodano di notte, con il cielo espressionista e le rive realistiche: Van Gogh ingigantisce le luci della volta celeste, mentre raffigura, un poco accentuate, le luci delle rive, ove la luce elettrica ha sostituito i romantici fanali a gas o a stoppino di petrolio. L’estetica tradizionale (Barilli) ci vede soltanto il solito uso esaltato della luce e del colore del grande olandese; invece, la visione è almeno duplice: primo, certamente si conferma la grande innovazione di Van Gogh nell’uso della luce come effetto del colore, che rimane valido nel “cielo”; ma, rigorosamente insieme, vi è l’effetto coevo della diffusione della luce elettrica, che cambia completamente la dimensione romantica della riva del Rodano (parte bassa dell’opera).
Dunque, non solo genio artistico, come letto fino a ieri, ma acuta revisione che mostra Van Gogh come uomo del suo tempo, suggestionato da un portentoso sentire ma anche dall’effetto portentoso delle novità radicali introdotte dalla rivoluzione scientifica e industriale e dalla cultura. L’azzeccatissima mostra del MUDEC spoglia l’artista di un altro pezzo della mitologia di visionario pazzo (dimensione di complessità psicologica individuale) e lo arricchisce di un aspetto di cultore di arti e lettere, con immensa biblioteca e clamorosa collezione di arte giapponese, che i veri conoscitori di Vincent Van Gogh già conoscevano ma non così il grande pubblico e spesso nemmeno tanti artisti che gli si ispirano. Ecco come una mostra intelligente può fare arte e non solo esegesi.
Allora oggi l’artista può sempre molto, ma molto meno di ciò che ha potuto nella storia dell’estetica. Anche mostri sacri della disciplina (ad esempio in Italia Renato Barilli), non ce la fanno a seguire questo fenomeno: gli sfugge la “strada lunga”, sociologica, che l’arte ha imboccato nell’era rivoluzionaria del Globantropocene Ipermediatizzate e ginecoforico.
La mia sociologia dell’arte, sociatrica, sa che le società umane (tutte, anche quelle dell’arte, che sono le più destrutturate) sono sempre logico-razionali: ogni barriera portata alla comprensione umana è anti-sociatrica in primis, ma in sociatria esiste anche l’amputazione, per cui nulla è escluso a priori.
Est modus in rebus, a maggiore complessità, maggiore analisi. L’analisi sociatrico-organalitica avviene come in psicanalisi, tramite riflessione profonda della società umana su se stessa e ciò è già prodromo di miglioramento societario. I due campi sono peraltro ovviamente differenti, tanto quanto sono differenti le due tipologie di soggetti “in cura”. Infatti, si parla di Organalisi e di Psicanalisi.
La differenza tra Orga e Psiche è una struttura fondamentale della visione gnoseologica del mondo, odierno in particolare. Analogamente a quella tra Psiche e Pragma. La Sociatria è la clinica scientifica delle società (ORGA), ed è dimostrata sperimentalmente (Sociatria Organalitica) da circa 1000 casi, di cui 500 documentati e molti di questi provengono dal mondo dell’arte. Sono solo la punta, professionale, dell’iceberg di milioni di casi avvenuti senza guida metodologica e riflessione epistemologica (anche se spesso con buon senso e risultati apprezzabili). Solo la sociatria organalitica ha consentito quindi la crescita epistemologica della sociologia, che rimane pur sempre scienza dei sistemi aperti.
Nel caso dell’arte, i cui sistemi sono i più aperti che si conoscano (pur rimanendo sistemi) prevedere un solo piano (tendenza o stile) è arretrato, dilettantesco, ingenuo e pericoloso per l’adattamento degli artisti al loro ambiente, e dei fruitori alle loro emozioni. La clinica, curatela e critica nel mondo dell’arte, ce lo mostra benissimo: la teoria la puoi piegare dove vuoi, la sostanza societaria invece no. È sistemica, anche nell’arte. Aperta, ma sistemica: e chi non ha fatto clinica societaria, deve fare il filosofo (o il fenomeno) e non il sociologo, anche nell’arte. Come in psicologia: in psicologia nessuno darebbe né titolo né affidamento professionale a chi ha letto solo libri o ha solo mente brillante ma non ha svolto attività clinica. E ciò anche se i miglioramenti possibili della Psicologia sono ancora molti, come dimostrano le neuroscienze. C’è una differenza sostanziale tra filosofia o socio filosofia, e sociatria, cioè quella sociologia che diviene vera grazie alla clinica. Anche nell’arte.
Sul piano più specifico dell’Estetica, la visione sociologica (organalitica e sociatrica) distrugge la mitologia dell’artista odierno: egli rimane soggetto fondamentale (sic) del ciclo estetico ma in modo reale o accuratamente simbolico. Perché? Perché la sua opera è condizionata, in particolare nella società odierna, da: 1. varietà costitutiva del Sistema dell’arte, fatto da molti soggetti, oltre a lui; 2. proprietà della catarsi oggi, condizionata dall’evoluzione tecnologica e dei mezzi espressivi, sia in termini di trasformazione che di materiali.
Il grosso della catarsi, quindi, sfugge all’autore, ed è generato da altri soggetti nel ciclo della manifestazione dell’opera: mercanti (come una volta), critici, stampa, produttori di comunicazione prima televisiva e oggi soprattutto online, case d’aste, e altri soggetti veicolano l’oggetto artistico ben oltre il raggio d’influenza dell’autore, investendone il senso e l’opera con una vera e propria pioggia semiologica, che la integra e trasforma. L’oggetto artistico, sempre stato figlio della fruizione (ove avviene la catarsi), vi giunge dunque trasformato e condizionato. E quando una mostra, come quella di Van Gogh uomo di cultura al MUDEC di Milano riesce a produrre una nuova dimensione di senso in un grande artista, ci siamo in pieno.
Sergio Bevilacqua