Trucioli

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L’atomico vecchiume di Putin e Galimberti


Non è più tempo di filosofi: l’aveva capito, da bravo filosofo appunto, ormai un secolo fa Theodor Wiesengrund Adorno che, rispetto al nostro Umberto Galimberti, con rispetto, è stato un filosofo un pò più importante.

di Sergio Bevilacqua

Il filosofo Umberto Galimberti

Anche se pure Galimberti insomma è stimabile. E parla chiaramente. Io lo capisco benissimo, perché dice cose che dicevo anch’io 50 anni fa, da adolescente.

Perché? Primo, perché sono le più dense e vere che si possono ancor’oggi dire e pensare; secondo, perché oltre a esse oggi c’è ciò che lui, integralista filosofo, misconosce, come un adolescente invecchiato e ormai fuori gioco, il fondamentale uso dei sensi che, per essere ben rodati nel rapporto col cambiamento, richiedono un corpo giovane. Che lui non ha più, Umberto. E che quando era ora, non ha usato appropriatamente. Infatti, il pensiero agisce se il cervello rimane lucido anche fino a 100 anni. Il corpo, invece, decade vertiginosamente con il passare degli anni e se vogliamo da esso trarre esperienze e informazioni che il solo pensiero non è in grado di darci, dobbiamo usarlo quando è buono. Ma il filosofo non si fida della relatività del rapporto con il reale: preferisce cercare la verità nei vocabolari anziché nel rapporto con la realtà. Sassurianamente (Ferdinand De Saussure, il fondatore della moderna linguistica), cioè, ripiega supino il significante sul significato, anziché abbracciare l’intero ciclo che include i sensi e dunque il referente, la realtà esterna, che possiamo forse anche ridurre alla sua più fedele possibile rappresentazione, ma c’è e cambia.

Certo, se avesse deciso di usarli, i suoi sensi, mica avrebbe fatto il filosofo: avrebbe fatto l’ingegnere, l’imprenditore, il politico, l’artista… E si sarebbe “sporcato le mani”. Ed ecco uscire la spocchia dell’intellettuale pantofolaio: se uso i sensi non uso il cervello.

E Averroé? Bacone? Leonardo da Vinci? Galileo Galilei?  Newton? Einstein? Heisenberg? Freud?  Ma anche l’obiezione volgare dell’accidioso intellettuale astratto nostrano che, in una conferenza, si permette di piegare il vocabolario alle sue intenzioni di comunicazione, sostenendo che la civiltà angloamericana, con la grande efficienza ed efficacia con cui da due secoli guida il mondo, è una civiltà dell’utilitarismo, addirittura la sua lingua lo dimostra, una lingua povera…. Ma dove, povera? Nella sintassi, forse… Ed è da vedere che non sia un bene! Ma nella quantità di lemmi no, è falso. E lui dice che dobbiamo avere tante parole. Certo, poi vanno usate. Ma l’inglese ne ha più delle altre lingue. 1.3 almeno il moltiplicatore dei lemmi a favore di Oxford sulla Crusca nostrana.  Ed ecco, allora Dickens, Mark Twain, Mary Shelley, Jonathan Swift, e quanti, quanti altri… che avevano “parole” a disposizione, ma anche tante cose da dire, essendo i primi a girare il mondo, usando i sensi “fallaci” di Galimberti, e ad avere, conseguentemente, una visione ben più ampia e profonda dei bibliotecofili intellettuali integralisti ormai incattiviti nostrani. Che si permettono di tradurre “business” con money, che significa essere fuori dal mondo, anziché col nobilissimo concetto di occupazione. Qual è il business per cui io mi occupo di parlare male dei filosofi? Nessuno mi paga, ma ritengo importantissimo abbassare la loro referenzialità comunicazionale in quanto categoria intellettuale, perché sono oggi pericolosamente anacronistici. In particolare quelli italiani.

Semplicemente arretrati. Intellettuali semplicemente di serie B. Perché la vera coltura , coltivazione, dell’intelletto oggi ritorna ad essere quella dei sensi. Il pensiero sul pensiero è lento e inefficace, anche coi buoni cervelli. Che se son buoni, devono legarsi ai sensi e non solo ai vocabolari.

Si può capire, che anziché andare in una favela o in una fabbrica si preferisca calarsi nel vocabolario di greco e cercare la verità nell’etimologia, ma significa, rispetto al linguaggio, almeno dimenticare la psicanalisi. Ah beh, basta liquidarla come delirio sessuale di un mezzo matto (che però sul linguaggio si metteva in gioco, non cercava rassicurazioni nei vocabolari, e poi quando è in crisi evoca Heidegger…) ma era un maniaco sessuale.

Ai filosofi manca uno strato di esperienza, oggi fondamentale: l’esperienza di campo, i sistemi operativi del mondo, la prassi che alimenta un pensiero. L’uso dei sensi, ancora una volta.

Libri, pensieri e parole non sono l’uso dei sensi sulla realtà, anche se accade che la possano rappresentare, la realtà.  Il mondo non è sempre rappresentazione e nemmeno rappresentabile: soprattutto nelle epoche rivoluzionarie, esso si muove in modo spontaneo, come quando un evento naturale inatteso lo travolge. E allora, lo spazio del pensiero si assottiglia, esso diviene in parte necessario, immediato riflesso condizionato.

Oggi non è più l’epoca di grandi teorie sull’umano: occorre avete nervi saldi e poche storie in testa. Che non vuol dire poca cultura: di quella più c’è n’è meglio è, e non solo libraria e teorica, storica cumulata eccetera eccetera. Basta che non offuschi il funzionamento sensoriale, perché è quello che serve di più in era diluviana. Lo yoga, segnalo, aiuta moltissimo. Ovviamente non le sue belle storie di trascendenza, la vera pratica, avulsa da ogni possibile concorrenza religiosa. Fattibilissimo: non va temuto, anzi!

Come in quei film d’azione dove l’eroe ci prende quasi sempre, perché è preparato a riconoscere le risposte dell’altro e a prevedere cosa succederà, e agisce con decisioni, ordini e movimenti, anche oggi non c’è tempo tecnico per pensare. Abbiamo avuto tanto tempo, abbiamo avuto epoche in cui pensiero e azione erano in successione prevista e congegnabile e, se lo abbiamo usato bene, quel tempo della filosofia ci sarà utilissimo. Ma oggi i filosofi sono figure anacronistiche. Sono fuori dalla temperie psicosociale, che è fatta di una realtà in ebollizione, di una tempesta perfetta oltretutto nemmeno del tutto visibile, com’è visibile (anche se soprattutto sommersa…) la grande guerra in Ucraina.

E parliamo di cose serie. La guerra in Ucraina è una guerra mondiale, già ora. Cioè, per dirla modernamente, si combatte in tutte le teste umane del mondo, attraversa la nostra coscienza con un pensiero molto poco architettato: “memento mori”, ricordati della morte, che morirai, e magari domani per… un’atomica! Ecco perché è già mondiale e già atomica. Anche se di atomiche, preannuncio, non ne scoppierà nemmeno una.

Questo messaggio è il fortissimo messaggio della guerra e della guerra mondiale. Il pensiero filosofico non lo cambia, e non gli serve. Sapere che cos’è un’atomica per l’Uomo non serve a nessuno. Serve invece il sapere operativo, quello di chi “ha le mani in pasta”, non le idee in biblioteca per sollevarsi dall’ansia dell’abbandono di questa terra a causa di guerra (o pandemia…).

La strategia obbliga Putin a considerare come usare l’atomica, cosa che avrà fatto 1000 volte con i suoi cappelloni medagliati, tant’è che quasi sembra un ricco feudatario coi suoi mercenari o professionisti della guerra. Risultato? L’uso del nucleare non può essere parziale. Non una atomica su Helsinki, ad esempio, per friggere in un attimo quella bella donna figlia di donne del suo capo del Governo. Perché lanciare una sola atomica significa beccarsele tutte. Quindi Putin deve pensare di usare 1000 atomiche contemporaneamente, e in estremo tempismo, per colpire tutte (tutte) le città dell’Occidente, il quale troverebbe il tempo di rispondere altrettanto ottenendo la sicura distruzione della Russia, vuoi in un mondo già di certo completamente sconvolto.

Ma, mentre per l’Occidente questo processo panico, grazie alle tecnologie sofisticatissime del Pentagono e quindi della NATO, si può svolgere in pochi minuti, pur dovendo essere comunque preparato per mesi, in Russia ciò richiede molto più tempo, è molto macchinoso e forse nemmeno fattibile. La Russia è già crollata una volta, anzi due per ritardo tecnologico: 1, con la rivoluzione d’ottobre, e 2, con la perestroika e lo scudo stellare reaganiano. La causa? Tecnologia insufficiente. Che non nasce sotto i funghi, tanto meno sotto quelli primitivi della violenza atomica. Anzi, li condiziona proprio, questi ultimi…

Per avere alta tecnologia occorre avere tanta industria che la richiede per gli usi più svariati di macchine domestiche, dalle automobili alle lavatrici, dai computer e dalla microelettronica della Silicon Valley alle grandi fabbriche cinesi. Se non hai industria non avrai tecnologie avanzate. E oggi per avere industria devi avere infrastrutture industriali enormi, fabbriche gigantesche, perché la globalizzazione ha elevato moltissimo le barriere all’entrata in tutti i business industriali.

La Cina c’è l’ha fatta, dopo gli anni ’60, perché aveva un enorme mercato interno su cui appoggiare la crescita (quasi vergine, fortemente motivato e più grande del mercato di tutto l’Occidente). Ma c’erano ancora abbastanza lustri prima della maturazione complessiva e grande vendemmia globale degli anni ’90, ove la globalizzazione è maturata.

La piccola Russia (un decimo della Cina come mercato), negli anni ’90, manco ci si è messa. Era crollata l’URSS per ritardo tecnologico, e senza combattere, con buon senso cioè (tanto, come ora, avrebbe perso). E quindi, se ci si mette su questo piano, non c’è 2 senza 3. Ma stavolta, dopo, non comanderà più la politica; dopo, alla faccia dei suoi (e nostri…) filosofucci barbuti e accidiosi, comanderà l’economia e i suoi feudatari. E quindi, 2 + 2 farà 4.

O, meglio, “four”.

Sergio Bevilacqua


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