Un saggio (inedito), su Ennio Carando, a firma di Alberto Venturino studente liceale savonese.
di Alberto Venturino
Ennio Carando nasceva in Pettinengo nel vercellese il 9 ottobre 1904, secondogenito di Achille Carando1 e di Maria Rubro. Il padre era medico condotto e vi rimase fino all’anno 1908 allorché si trasferì a Bra, quando vinse la condotta della cittadina. L’infanzia e la formazione trascorsero serene in Bra, insieme con la sorella maggiore Elsa e i fratelli minori Maria, Clotilde, Fulvio (morto infante), Manlio, Ettore e Dino.
Una grave malattia gli fece perdere un occhio, nondimeno completò gli studi classici e poi si iscrisse all’università di Torino dove si laureò in Filosofia nel novembre 1930. La sua tesi riguardava la pedagogia e la morale e fu discussa con i professori Vidari e Juvalta. Questo docente fu un vero maestro per il giovane Ennio: “Fu Juvalta a fargli capire che la filosofia morale non doveva consistere soltanto di dissertazioni astratte intorno al problema del bene e del male, ma di uno studio scrupoloso impegnato di della reale condizione umana. Uno degli insegnamenti del maestro che esercitò su di lui maggior impressione fu una tesi che tra le maggiori conquiste morali del secolo scorso si doveva annoverare il riconoscimento del diritto dei lavoratori ad organizzarsi per acquistare una libertà concreta di fronte ai datori di lavoro”2.
Intrapreso l’insegnamento di storia e filosofia, fu per un anno al liceo “Vincenzo Gioberti” di Torino (1931-32), poi al liceo pareggiato “San Carlo” di Modena dal 1932-33 al 1935-36, all’istituto magistrale di Cuneo per un anno ed infine docente titolare al liceo “Gabriello Chiabrera” in Savona dall’ottobre 1938. Con l’anno scolastico 1940-41 si trasferì (o fu trasferito) al liceo “Lorenzo Costa” della Spezia.
La sua figura rimase indelebile nel ricordo di chi lo ebbe insegnante, dovuto anche alla tragica fine. Le sue lezioni erano come un atto di vita, nello spirito socratico: così le definì un allievo che aderiva alla medesima ideologia professata dal maestro e per il quale il rapporto assurse ad amicizia quando divenne impiegato di banca dopo la maturità. “L’orario d’ ufficio finiva alle 17,30 e sovente Carando mi attendeva all’uscita. A piedi l’accompagnavo ad Albisola dove alloggiava all’Hotel Wanda. Il primo anno, infatti, nel 1938-39, aveva preso alloggio in un appartamento in corso Vittorio Veneto, vicino a una professoressa di italiano, la indimenticabile Alba Gorreta, ed andava e veniva a piedi dal liceo. Ma il secondo anno preferì Albisola perché – mi disse – poteva prendere l’autobus e sentire, così, i discorsi della gente: anche questo gli era utile per conoscere e capire. La sua sete di conoscenza non aveva infatti confini.
Ricordo quando – era il 1939 ed i fascisti avevano ripreso spedizioni punitive e bruciato in Piazza Diaz l’”Osservatore Romano” – assieme andavamo in una osteria a Porto Vado e Carando aveva con sé l’”Osservatore”. Anche questo, mi diceva, ora bisogna saperla leggere fra le righe e lui lo faceva aiutandosi con una grossa lente perché, cieco da un occhio, con l’altro molto si affaticava a leggere i caratteri più minuti ed io allora continuavo nella lettura e lui mi interrompeva per farmi leggere, per capire, per commentare, per dedurre. Spesso andava all’estero, soprattutto in Francia, dove fu per le vacanze pasquali del 1939, e tornava, ovviamente correndo rischio, pieno di giornali, di riviste, di notizie”3.
Ed un altro allievo testimonia: “Di Carando ricordo che non c’era persona più lontana di lui dall’indottrinatore, dal propagandista, dall’attivista politico, inteso in quella figura che, in seguito, inevitabilmente anche per il necessario avvio alla vita democratica, comparve sulla scena politica del nostro paese. Il suo insegnamento era rivolto a svegliare nei giovani una coscienza morale, a far loro scoprire i valori dello spirito, il senso della libertà, ad indurli al ragionamento e all’analisi critica. Maturità classica – diceva – vuol dire anche maturità al ragionamento. Poi potrete prendere le elezioni le decisioni che vorrete, fare le scelte, liberi dai luoghi comuni, dalle pigrizie mentali, dai settarismi. Ricordo che in una delle sue prime lezioni citò un pensiero del filosofo Erminio Juvalta, che fu suo professore all’università di Torino e che esercitò una grande influenza su di lui: la coscienza morale o è sovrana o non è coscienza morale. Direi che questa massima fu l’essenza e la chiave di lettura del suo insegnamento“4.
Sentimenti condivisi anche da chi lo frequenterò, pur non essendone allievo. “Ricordo di lui la singolare capacità di parlare di storia o di filosofia come di cose non lontane da noi, non estranee alla nostra vita e al nostro impegno, il suo partire da un fatto storico per trarre da esso un ammonimento morale”5. E ancora: “Egli non ebbe mai la tentazione di utilizzare la sua superiorità intellettuale per influire su di noi, ma ha avuto invece sempre il pudore di non interferire neanche con una frase, con un giudizio, con una parola che potesse, in qualche modo, essere non rispettosa del nostro pensiero e del nostro sentimento”6.
Di fatto, il Carando fu essenzialmente un filosofo in senso socratico, ossia un “educatore, filosofo sinonimo di educatore, un apostolo dell’educazione alla libertà: intendendo questo compito come un compito permanente, perché la via alla libertà – e questo Carando lo aveva assimilato e lo trasmetteva – non ha termine, si tratta di un progresso indefinito e mai definitivamente acquisito e spesso contrastato con la violenza. È l’educazione alla libertà un compito che esige un continuo sforzo di miglioramento, di correzione, di approfondimento e perciò di riforma. Si abusa della parola riforma, dimenticandone la tensione etica che deve ispirarla”7
È probabile che a tutti non piacesse il docente, né concordassero col suo stile di insegnamento. Talvolta “si sentiva quasi dispetto per quell’uomo che ci costringeva a frugare nelle nostre coscienze. Un giorno uno dei suoi scolari gli palesò chiaramente questa avversione che provava per lui. Sorridendo gli disse: Ne sono contento perché il grande odio è vicinissimo al grande amore. Pochi giorni dopo essi erano grandi amici. Ad un altro che gli obiettava essere il suo un lavoro puramente negativo, in quanto tutto distruggeva senza nulla riedificare, gli rispose: Questa è la mia missione: sgombrare dal vostro cammino tutti gli ostacoli, tutti i pregiudizi che vi impediscono di ragionare con la vostra testa, di sentire la voce della vostra coscienza. La vostra via dovete trovarla voi, non posso indicarvela io.8 L’allievo della precedente testimonianza ricordava sempre le lezioni di storia, come ad esempio quella tenuta il 16 marzo 1939: il giorno innanzi le panzer-divisionen tedesche erano entrate in Praga. “Quella mattina Carando entrò in classe visibilmente irritato. Cominciò col farci una terribile lavata di capo, poi si mise a scorrere il registro per una interrogazione. Nessuno osava fiatare. Fece un nome. Il compagno chiamato si avvia alla cattedra. Una brusca domanda: Cavour e Bismark erano realisti in politica? L’interrogato balbetta non sa rispondere. Ma la domanda non è che un pretesto per una spietata analisi della cosiddetta politica realistica. Se la politica non è fondata su un ordine morale obiettivo essa non è realistica, è assurda, pazzesca. Potrà dare dei risultati immediati più o meno importanti ma è destinata ad un sicuro fallimento. E di qui ebbe inizio una aperta appassionata filippica contro Hitler e Mussolini, contro l’incoscienza di Chamberlain, seguita da una lucida previsione della catastrofe a cui tali uomini stavano conducendo il nostro paese e tutto il mondo e un caldo incitamento a fare quanto era possibile per opporsi al loro piano criminale”9.
Dopo un breve periodo in Aosta, il professore fu trasferito a Rovigo ed infine al liceo della Spezia: conforme al suo desiderio di viaggiare per ascoltare quanto pensava la gente, egli aveva scelto un alloggio a Levanto. Nell’autunno del 1944 lasciò La Spezia per recarsi in Piemonte dove raggiunse le formazioni garibaldine di Barbato e ricevette l’incarico di collegamento col comando piemontese in Torino e di coordinamento con le località a mezzogiorno di Pinerolo per preparare l’insurrezione.
Va precisato tuttavia che – per quanto gli era possibile – continuò i legami con gli antichi discepoli tanto savonesi, quanto spezzini10. “Venne a Savona per l’ultima volta verso la fine di agosto del 1943. Alcuni suoi ex allievi del liceo Chiabrera erano caduti in guerra fin dall’inizio, valorosamente, senza cercare di sottrarsi, in qualche modo, all’adempimento del loro dovere e alla comune partecipazione di tutti ceti sociali alla tragedia dell’Italia. In un fascicoletto ho ricordato i pochi giorni che Ennio Carando trascorse nella mia casa di Via Beato Formica. Egli volle vedere, in quell’appartato alloggio del quartiere Villetta, i suoi ex allievi ed i loro amici che si trovavano in città e nelle vicinanze. Analizzò la situazione politica, parlò di una grande, imminente, prova che avrebbe visto in prima fila le forze risorgimentali e popolari, ci invitò a seguire il dettato della nostra coscienza, ma con accortezza e scrupolosa preparazione in tutti. Mi sembrò più impegnato verso iniziative politiche e attività operative: sarebbe, infatti, tra breve diventato presidente del Comitato di liberazione nazionale della provincia di La Spezia. Aveva scelto di aderire ad un partito già organizzato e pronto a combattere: il Partito comunista italiano. A noi però parlò di riscossa nazionale, di lotta unitaria antifascista, di conquista sofferta della libertà“11.
Sempre più attivo nella resistenza, Ennio presiedette il CLN della Spezia, mentre passato in Piemonte organizzava il raggruppamento divisioni Garibaldi-Cuneese. “Gli ultimi mesi della vita di Carando sono noti a tutti. Gli viene affidato uno dei compiti più delicati del comando: quello di ordinare l’azione dei piccoli gruppi di polizia partigiana posti a presidio dei paesi in largo senso controllati dai partigiani. Si tratta di un compito difficile perché diretto da un lato a reprimere lo spionaggio fascista, dall’altro a sorvegliare l’ordine pubblico posto in crisi dalla carenza di ogni autorità costituita. Si tratta di favorire la costituzione delle giunte popolari locali, dando loro un riconoscimento ufficiale, stimolandole ad impostare la soluzione democratica dei problemi locali e inserendo la loro azione in quella più vasta del CLN regionale. Carando è l’uomo più idoneo a questa complessa mansione, godendo la completa fiducia sia delle nuove autorità dei singoli paesi, sia dei nuclei partigiani da lui comandati. Egli si sposta continuamente da una località all’altra, viene in Torino, ritorna nelle zone di campagna, superando decine e decine di posti di blocco, convinto di poter sfuggire a ogni sospetto dei fascisti e dei tedeschi proprio a causa della sua infermità agli occhi. Intanto è riuscito a convincere il proprio fratello Ettore, capitano effettivo di artiglieria, ad entrare nelle formazioni garibaldine superando le riserve politiche che queste potevano suscitare in lui“12.
Ma il 5 febbraio 1945 a Villafranca Piemonte (già Villafranca Sabauda) fu fucilato insieme con il fratello Ettore e con Leo Lanfranco, operaio della Fiat Mirafiori. Gioverà trascrivere la lettera del Parroco di Villafranca, importante perché testimone diretto, scritta ad un confratello di Savona su richiesta di Monsignor Giovanni Battista Parodi.
“La notte del 4 febbraio 1945 il professor Ennio che, per esser cecuziente era sempre accompagnato da un segretario diciassettenne di nome Marco da Levanto, prese alloggio qui il ristorante del Delfino. In quella notte una numerosa squadra delle brigate nere comandata dal ben noto Novena, venuta a Villafranca da Pinerolo per fare un rastrellamento di partigiani, si installò proprio al ristorante del Delfino. Il professore ed il suo segretario vennero avvertiti del pericolo. Egli però non se la sentiva di fuggire scavalcando muri, come altri fecero. Fidando sulla sua età, sulle sue condizioni fisiche sui documenti in regola di cui era il possesso, si finse un viaggiatore di passaggio ed al mattino all’ora dei treni scese dalla camera come per partire. Malauguratamente un milite delle brigate nere lo conosceva di persona. “Questo è il famoso professor Silvio”, disse e lo arrestò insieme con il suo giovane segretario. Intanto al ristorante venivano condotti i partigiani sorpresi nel sonno nelle case: tra gli altri anche il fratello del professor Ennio, cioè Ettore Carando. Cominciarono gli interrogatori e le sevizie che durarono fino alle ore 13. A quell’ora io venni chiamato da Novena per assistere i condannati a morte. “Sono quattro – mi disse il Novena – capi partigiani ma due non sanno che farsene di voi”.
Subito mi recai al Delfino: trovai i quattro infelici in una camera, attorniati da numerosi fascisti; portavano tracce di percorse e ferite sanguinanti. In un angolo della camera ascoltai le confessioni dell’Ettore Carando e del Marco. Mi rivolsi poi al professor Ennio che mi disse: Reverendo, ognuno ha la sua metafisica, non insista. Mi resi subito conto che ogni insistenza perché si confessasse era inutile. Se egli aveva già dichiarato ai nazifascisti che non voleva il sacerdote, da uomo di carattere, quale si dimostrava, non si sarebbe mai disdetto, per non dare una sensazione di debolezza ad essi, che sempre lo circondavano. Mi limitai a suggerirgli qualche buon pensiero: di chiedere a Dio perdono dei propri peccati, di confidare nella misericordia di Dio offrendo a lui la vita, di perdonare i nemici, di mormorare prima di morire un Gesù mio misericordia ecc. Mi ascoltò con deferenza e mi ringraziò, assicurandomi che avrebbe tenuto conto dei miei suggerimenti. Ho avuto la netta impressione che se avessi potuto parlargli a quattro occhi e ci fossimo riconosciuti come braidesi, anzi come conoscenti della nostra adolescenza, le cose sarebbero andate ben altrimenti.
Ho fatto poi anche di tutto per strapparli alla morte; riuscii solamente ad ottenere la grazia per il Marco, minorenne. In extremis ho chiesto ancora la grazia per almeno uno dei due fratelli Carando: mi fu negata. Si avviarono la morte con passo fermo, da forti e da forti caddero. Erano tre; oltre ai Carando un operaio della Fiat, certo Leo Lanfranco, commissario politico della divisione partigiana. Immediatamente prima della scarica dei moschetti tutti e tre diedero ancora un grido: Viva l’Italia; qualcuno di essi aggiunse Viva il comunismo, senza che si potesse stabilire con precisione quali di essi avesse emesso il secondo grido. Partita la brigata nera le salme ebbero onorata sepoltura religiosa, in seguito furono trasportate nei cimiteri delle loro città di origine. Ecco quanto posso dirle. Aggiungo solo che è mia convinzione che il Signore abbia accettato il sacrificio che essi han fatto della loro vita e li abbia giudicati secondo la sua misericordia infinita. Ricambio a lei rispettosi ossequi. Devotissimo teol. Domenico…parroco”13. Nell’atrio del Liceo classico in Savona è murata un’epigrafe per Ennio Carando, come a Villafranca ed altrove.
Alberto Venturino
- La figura paterna è tratteggiata da: Ezio GIANNOTTI, Achille Carando medico e non solo in “Bra”, 19, marzo 2010, pp 56-60.
- Così Ludovico GEYMONAT, La figura di Ennio Carando, educatore e patriota in Il Liceo classico Gabriello Chiabrera di Savona nel suo primo centenario 1860-1960, Varazze, tip. Botta, 1962, pp 121-128.
- Giuseppe NOBERASCO, La lezione come atto di vita, nello spirito socratico in Ennio Carando e l’educazione alla libertà, Savona, Comune-Liceo, 1987, pp.10-11.
- Carlo TRIVELLONI, Dal messaggio di Platone e di Kant all’impegno popolare e resistenziale ibidem, p 17.
- Carlo RUSSO, Intelligenza storica, tolleranza spirituale, religione della libertà nell’esempio di un maestro ibidem, p 21.
- ibidem, p 22.
- Antonio GIOLITTI, Tensione etica e impegno politico ibidem, p 25.
- FRUMENTO, Ricordo di Carando in “Eco del ponente”, III, 4, 18-25 febbraio 1946.
- Basti il rinvio alla “Rassegna municipale”, La Spezia, 1955, numero dedicato al ricordo di Ennio Carando.
- TRIVELLONI, Dal messaggio, cit., p 17.
- GEYMONAT, La figura di Ennio, cit., pp 127-128.
- Edita fotograficamente in Il Liceo classico, , fra le pp 128 e 129, nonché in Ennio Carando, cit., p 38.