La nonna Virginia andava ogni giorno alle Moglie Verdi di Rocchetta di Cairo Montenotte. Era come se assolvesse un suo voto, senza preghiere o imprecazioni ma con il pensiero rivolto altrove, in dialogo muto con un severo aldilà.
di Bruno Chiarlone
In un recinto allestito vicino alla cascina piccola delle Moglie, vi erano le galline ovaiole e i pollastri da brodo che la nonna allevava con molto senso pratico.
I conigli avevano una stanza tutta per loro a pian terreno, dove erano state collocate tegole vecchie e fascine di erica e rami grossi, in piedi, appoggiate a due a due per formare piccoli ripari dove i roditori potevano nascondersi.
Quasi ogni giorno la nonna faceva bollire, già dal mattino, per i suoi animali, sulla stufa di casa, pentole piene di mondelle di patata o di mela assieme ai baccelli dei fagioli a cui aggiungeva poi la crusca per fare un bel pastone e altre pentolate di meria secca in modo che le galline delle Moglie Verdi potessero beccarla con maggiore facilità una volta cotta.
Per i suoi famigliari, quando in casa vi erano ancora il figlio e le figlie, oltre alle minestre di verdura e la pastasciutta, la nonna cuoceva nel tegame la panada a cui aggiungeva uno spicchio d’aglio, l’olio d’oliva e una spolverata di formaggio grattugiato.
Altre volte nonna Virginia preparava con la farina bianca, versata nell’acqua bollente, molti piatti di puccia, una pappa molle molto indicata per i bambini senza denti e per gli anziani. Scodellata nella fondina di terracotta si raffreddava e si formava sopra una pellicola che avvolgeva tutto il pastone bianco, elastico.
La figura di nonna Virginia mi faceva pensare ad una cariatide sotto sforzo, avvolta in stoffe pesanti, l’antico volto sofferente, solcato da rughe profonde, come una maschera classica, cotta dal sole. La vedevo alla sera, in lontananza, lungo la strada di Prunerone (prò Neiron o prato Nerone), procedeva lentissima, come una statuina del presepio. Credo che praticasse la meditazione e il pensiero lento.
Nonna Virginia aveva anche una sua preghiera che recitava in dialetto, disperata e terribile, tutti noi, vivi o morti, dovevamo imprenderla e recitarla, con una catena al collo e un carbone ardente sulla lingua, fermi sulla soglia oscura dove l’arcangelo Michele avrebbe pesato la nostra anima, con il Diavolo di guardia, che controllava e aspettava. Su di un piatto della bilancia metterà la nostra anima greve e dall’altra una piuma, noi sospesi su di un mondo spaventoso (con una catena al collo e un carbone ardente sulla lingua) dove rischiavamo di essere sprofondati.
Quando la guardavo da vicino la nonna Virginia notavo il suo sguardo rivolto altrove, una erinni irremovibile, con un macigno sulle spalle, come una penitenza divina, raccolta nella rassegnazione sempriterna, unica responsabile nelle sorti della sua famiglia soggetta alla legge di un durissimo passato arcaico.
Però i nonni erano ai miei occhi le persone più giuste e più caritatevoli del mondo. Mi son sempre trovato a mio agio con la nonna Virginia Granata e ugualmente con gli altri nonni di cui ho sempre colto la misericordiosa bontà, la loro pazienza per i miei giochi infantili, la suprema sapienza e accettazione della vita.
Bruno Chiarlone