Un finanziere non è necessariamente un industriale e un industriale non è necessariamente un imprenditore. Un industriale non è un esperto di economia di campo e di cause ed effetti sociologici e istituzionali, ma auspicabilmente un grande esperto del suo settore.
di Sergio Bevilacqua
La narrazione sulla “bellezza” delle piccole imprese italiane vale a livello sindacale (occorre aiutarle il più possibile, ma sempre al di qua della razionalità economica, l’irrazionale distrugge…), ma non a livello necessariamente economico (lì la vita la fa la natura, non il nostro “affetto”...). Inoltre, ogni azienda ha cultura di business specifico, e dipenderà dallo stato globale di quel business, di quel “mare” se si potrà sopravvivere o no con piccole “barche”…
E, poi, ognuno ha il suo mestiere, che è quello che uno ha fatto per una vita: manager di alta finanza, industriale del tessile, commercialista, medico, ingegnere chimico, economista, sociologo…
A ognuno il suo. Credere che la politica sia per tutti è semplicemente falso. Il politico é un esperto, non una persona intelligente e basta. L’eccellenza in ogni campo richiede certo anche intelligenza, ma poi soprattutto specializzazione, di contenuti e di applicazioni. E per fare bene la Politica occorre cultura specifica e metodo: così il vero politico tratta professionalmente le società umane e, tra queste, gli Stati. Le ricette finanziarie non sono le gambe economiche: le logiche di prodotto-mercato vengono prima e così gli equilibri economici di aziende e Stati.
La finanza può danneggiare o aiutare, anche uccidere organismi sani o fare sopravvivere fantasmi, ma le gambe dell’Economia sono la produzione di valore e la capacità di concorrenza. E questa è la grande perplessità sul ruolo di Draghi, per cui la finanza non ha segreti, ma la funzione imprenditoriale non l’ha mai vissuta…
E l’Italia può essere aiutata o danneggiata dalla finanza, mentre invece può trovare la sua salvezza nell’economia di business precisi, ove, però, a un politico di vertice serve schietta coscienza imprenditoriale, che non è quella di uno specializzato industriale soltanto, al giorno d’oggi in particolare…, e nemmeno di un grande esperto di finanza.
Certo che l’economia si può fare in vari modi. Ma l’elemento chiave è che deve essere competitiva. E, medievali o meno che si sia, se no si é in business profittevoli, non c’è struttura che tenga.La manifattura è quella che è, non si può fare molto nemmeno col genio italico: come la natura, fa gli affari suoi. Ed è maturata. Quel che c’è, c’è, quel che non c’è quasi certamente non ci sarà.
Non è nel manifatturiero che troveremo il futuro dell’Italia, lavoro e sviluppo del PIL, con un posto di lavoro a circa più di 1 milione di €. d’investimento per crearlo. E non vale più la comparazione con ciò che è successo in Germania: le comparazioni in economia si fanno per epoche, in quanto l’economia è tutta integrata da mezzo secolo nella sostanza e se uno è rimasto alla fase dell’adolescenza non posso confrontarlo con un quarantenne completamente maturo. La riunificazione tedesca, ad esempio, è avvenuta alla prima metà del guado della maturazione dell’economia industriale mondiale, con una industria ben ricresciuta e forte del gigantesco sforzo bellico tedesco. Ora siamo 40 anni dopo.
E i tedeschi hanno perso sonoramente la guerra nel 1945. Noi subdolamente nel 1943 e poi ci hanno azzoppato l’industria tra i 50 e i 60 con Mattei-Ippolito-Olivetti-Rovelli.
A loro hanno spaccato il Paese, a noi, tardivamente, l’economia. E loro con l’economia sono rinati. Noi invece abbiamo perso la quasi totalità delle leadership che avevamo a causa del danneggiamento dei settori strategici. Non si tratta di opinioni, ma di concreta esperienza clinica riflettuta in disciplina economica. Io ero in pista, sul campo economico, già alla fine degli anni ’70, al lavoro come business and organization consultant in una significativa porzione della grande industria in Italia. Per quella via, clinica, conoscenze disciplinari, memoria ed esperienza hanno prodotto concreta interpretazione: le cronache dei giornali non son mai state la stessa cosa.
Per fare seria politica economica e del lavoro, il problema è sempre in quali settori andare a cercare il valore. I modi (finanza, organizzazione, materie prime, tecnologie…) sono rilevanti, ma soltanto dopo che li abbiamo trovati. Se parliamo di Germania, cioè di una economia di quelle che sembrano forti e vitali di fronte alla globalizzazione e alla maturazione del secondario, quando si è mostrata così erano altri tempi, e altri muscoli aveva l’industria tedesca… Per fare confronti, occorre metodo e realismo: altrimenti, le differenze socio-culturali non finiscono mai. E solo allora, possiamo trattare di economia.
Parliamo dell’80% dell’economia mondiale, che è l’industria manifatturiera. Essa è maturata, come sappiamo che accade ai prodotti industriali. Questa maturazione ha portato condizioni tecnico produttive specifiche. La maturazione ha selezionato i concorrenti, i perdenti hanno chiuso o sono stati assorbiti dai vincenti. I mercati mondiali aperti hanno qualificato l’ambito operativo globale della concorrenza. In tale dimensione si sono svolte le selezioni naturali. Chi aveva più solidità è sopravvissuto, altri sono defunti.
La industria tedesca, quella giapponese, quella americana, quella coreana ad esempio, hanno saputo rispondere alle sfide della globalizzazione e maturazione del secondario. Altre, come l’italiana, no. Questo della maturazione, primarizzazione del secondario è il fenomeno naturale più importante in assoluto. Industry per industry, settore per settore, esso si è espresso con modi relativamente diversi, ma sempre con quella traiettoria naturale che è la accumulazione di curva di esperienza ed economie di scala.
Le ricette dei governi e le scelte politiche sono stati sempre fragili accessori di un meccanismo di maturazione proprio del sistema economico, organico ma preordinato dalla sua natura di produzione del valore in modo logico conseguente, sistemico organico interno. Non relativo e politico. Questo elemento naturale dell’economia è il motore fondamentale di tutto nel passato della produzione del valore.
Oggi, che sono rimaste le briciole, gli alchimisti delle ricette economiche si sbizzarriscono a dire questo e quello…
La sostanza dell’economia industriale è sempre andata per i fatti suoi, e su questo gli Stati hanno sempre potuto fare poco. L’Italia, nella maturazione dell’economia industriale (1950-2000, e soprattutto 1990-2000), nel suo passare complessivo da star a cash-cow ha perso dei fattori competitivi fondamentali: elettronica, energia e chimica fine. Tutti i settori industriali italiani ne hanno sofferto; lo Stato mezzo ebete (come ora…) si è messo in mezzo, facendo più guai che altro all’economia, molto clientelismo e impropria appropriazione di risorse per varie vie e vari soggetti.
Ora abbiamo economie in marcia per capacità competitive mantenute: USA, Giappone, Germania , UK (con formula diversa) e direi anche la Corea; poi abbiamo economie che devono completare un ciclo malthusiano vigoroso per dimensioni, Cina e India. Tra i grossi del dopoguerra, chi ha perso il treno del governo della ricchezza industriale è L’Italia: tanti sgambetti “da piccola” e troppe menzogne e superficialità da grande. Sta di fatto che l’organismo non è più autonomo da un pezzo, e dipende da altri (Germania soprattutto). Certo, abbiamo una certa forza contrattuale (qualità soprattutto, anche se costosa e se non lo è, è perché togliamo risorse ad altro, ad esempio alla famiglia con il dispositivo parassitario della micro inpresa, ove le mamme allattano mentre digitano fatture a computer), ma siamo dipendenti dai prodotti-mercato di altri, e tutti lo sanno.
Noi possiamo recuperare autonomia strategica ma non possiamo farlo col secondario tradizionale. In Italia si possono fare tante piccole cose, certo. Ma il problema del rapporto tra PIL e debito pubblico è vitale.
Se vogliamo libertà (che in economia è capacità di gestione) occorre fare PIL, in Italia, e anche molto: servono 500 miliardi freschi, non filosofie con ricette variamente esoteriche. E fare PIL non è questione solo di volontà, ma di presenza di opportunità in un settore o nell’altro: scovarli, i settori redditizi, e operarvi da imprenditori.
Tutti nel mondo dell’economia sanno che produrre 1 (un) posto di lavoro (una economia efficiente) in tutto il manifatturiero significa un investimento di almeno 1 milione di euro. Con queste cifre non si fa sviluppo (politica economica e del lavoro). Ed è il segnale che i buoi sono scappati, che il secondario è maturato.
Lì, possiamo solo manutenere ciò che abbiamo (che non è poco: siamo di sicuro ancora tra le prime 10 manifatture del mondo). Per riprendere il treno della civiltà e far fruttare il valore della nostra identità, dobbiamo cercare altrove, non nella manifattura tout-court, e fare politica concertata e professionale con tutti gli attori, che invece cercano agi settoriali propri…
Occorrerà presto un Draghi 2, con taglio schiettamente creativo e imprenditoriale, se vogliamo salvare l’Italia dal fallimento: a quel fallimento dell’Italia tanti dal mondo guardano, per appropriarsi a prezzi di liquidazione, di saldo estremo, delle ricchezze del nostro Stato, e non solo… Il 2022 è anno di svolta: abbiamo il dovere di provarci. Oltre il PNRR.
Sergio Bevilacqua