Puccini a cavallo del terzo millennio, e anche Prato contribuisce vigorosamente.
di Sergio Bevilacqua
È sempre più chiaro che la preveggenza di Giacomo Puccini non si è fermata alle innovazioni musicali e drammaturgiche nella più estesa delle arti, l’Opera lirica, ma ha raggiunto vette di carattere anche estetico e socioculturale impressionanti.
E, per quanto mi riguarda, è proprio come se vedessi, il grande Giacomo, come non posso altro che fare, per esperienza personale e professionale da sociologo dell’arte, avendo spiato il suo mondo di Torre del Lago. Lì, lui, modernista e geniale, aveva trovato un ambito sartoriale, su misura, in un lago teatrale, artificiale, come quello di Massaciuccoli, con una fauna lagunare di prima qualità, che si prestava alla sua grande passione per la caccia. Ma anche al suo rilassarsi dalle relazioni sociali cui si dedicava con semplicità e spontaneità, fino a essere considerato un po’ fastidioso dai pescatori e contadini delle povere abitazioni che guardavano il lago, cui lui si rivolgeva, all’alba e prima, per scambiare una parola e, magari, trovare dei compagni di caccia e di gozzoviglia. Quando non erano gli artisti Fanelli e Pagni…
È stato lì, al lago, che ho conosciuto Simonetta sua ultima nipote, che ci ha lasciato nel 2016, e la cui viva voce mi raccontava del mondo del grande compositore. Si fidava di me, la erede Puccini, combattiva e fiera, ma anche sinceramente dedita alla memoria del nonno. Nata da una scappatella extra-coniugale del padre Antonio, unico figlio del celebre lucchese, ha passato la vita a rivendicare il proprio DNA, ottenendo soddisfazione tardiva, ma piena.
Ho conosciuto e frequentato, con vivo piacere, Simonetta Puccini a Villa Simonetti, pochi metri della vera casa elettiva di Giacomo, proprio due case prima, venendo dall’Aurelia che scorre a 2 km sulla stessa via della frazione di Viareggio (sempre mal digerita condizione amministrativa…). A Villa Simonetti verso il 2014, se ben ricordo, facemmo infatti una performance magnetica sulle donne di Puccini, le sue donne, diverse, e anche i personaggi femminili delle sue opere. Simonetta apprezzò, pur chiedendoci dei distinguo e delle precisazioni, che non facessero troppo risaltare il nonno come un cieco tombeur de femmes. Così, sulle categorie degli amanti del gentil sesso, Giacomo fu collocato ben più sul versante dell’omonimo Casanova che su quello del Don Giovanni: lui sempre più innamorato della donna, seppur in modo non sprovveduto, e non sempre alla ricerca di un piacere (o di una conferma virile…) comunque provvisoria e dunque compulsiva, come il personaggio di Mozart e Da Ponte nel celeberrimo capolavoro.
Inoltre, i suoi personaggi femminili sono tutt’altro che ambigui: non sono scorretti, non giocano sporco, come dichiara, che so, la Carmen di Bizet: “prende garde de toi…”, fai attenzione che se “io” (la donna) m’innamoro di te, “tu” (uomo) sei nei guai… Le donne dell’arte pucciniana sono tutte buone o cattive, non ambigue, proprio tutte, pensateci (Tosca, Manon, Mimì, Butterfly, Turandot…). Tra tutte, nella sua algida, matematica, enigmistica chiarezza, nel suo essere spietata dichiaratamente, la più difficile e pericolosa è certamente la Turandot. E la T finale, perché il personaggio viene da una traduzione dell’opera francese, i “Mille e un giorno” di Petis de la Croix, che parafrasa le “Mille e una notte”, riportando favole, tra cui appunto quella di “Turandocte”, principessa cinese algida e sanguinaria che però s’innamora dell’intelligente e coraggioso principe Calaf. Gozzi lo riprende, e poi anche Schiller: un bel successo, insomma, però coronato dalla decisione pucciniana di darvi celebrità perpetua.
Suggestioni varissime, tanto da produrre alcune ulteriori ispirazioni. Vediamo.
98° Festival lirico dell’Arena di Verona, cioè 2021. Siamo nel bel mezzo di una fase di relativa calma della peggiore pandemia degli ultimi cent’anni. L’Arena di Verona è, come oggi, nelle mani della lucida e intelligente Cecilia Gasdia, che cerca una chiave per passare questa stagione con immutata gloria (l’Arena non può abbassare la guardia…) ma anche con ben comprensibili rischi minimi. Difficile la via, stretta e con gli occhi del mondo addosso. Ce la farà? Con il pubblico più che dimezzato dal contingentamento? Adotta una idea geniale: facciamo della rassegna lirica più amata al mondo un momento di grande consolidamento della civiltà e cultura italiana, percossa e martoriata dal virus. Ed eccola snocciolare partnership per le singole opere del programma, con una scenografia generale che si personalizza con le proiezioni, e che, opera per opera, rimanda a collaborazioni intelligenti e importanti.
Geniale strategia, data la situazione, lo ripeto. Le opere del programma sono numerose, e le partnership esterne vanno ad esempio dal Museo dell’Ebraismo Italiano e della Shoah, MEIS di Ferrara, destinato a divenire il secondo Museo ebraico del mondo dopo Gerusalemme, per “Nabucco” di Verdi, agli Uffizi di Firenze per “Traviata” di Verdi, mentre per “Turandot”, la collaborazione è con il bel Museo cinese ed etnografico di Parma. Tutte e 5 le opere 2021 sono nuove produzioni fatte in Arena, inclusa Cavalleria Rusticana – Pagliacci (Biblioteca e Musei Vaticani e Parco Archeologico della Valle dei Templi) e Aida (Museo Egizio di Torino): un assetto di produzione da massima difesa, un arrocco, considerando che non vengono firmate le regie, che ricadono ancora in modo anonimo sulle maestranze professionali della Fondazione e che il prezioso di turno in questa edizione 2021, accanto a musica e voci, è proprio l’alleanza creativa con le importanti istituzioni culturali.
Per Turandot, il piccolo ma squisito museo di Parma dona un costume, quello sontuoso e bellissimo della terribile principessa, ma anche una ispirazione, che si respira nell’opera, fatta di leggere suggestioni di civiltà cinese, con il proverbiale spirito popolare che ha sempre animato il variegato popolo cinese, ben prima del comunismo e della rivoluzione culturale maoista.
Ho voluto approfondire e ho visitato la struttura museale. Mi è stata gentilissima guida la vice direttrice Chiara Allegri, una donna brillante, di grande cultura e qualità di comunicazione, profonda conoscitrice della struttura, come purtroppo non è proprio frequente nelle nostre istituzioni culturali. La storia della parte cinese del Museo getta le basi negli ultimissimi anni del XIX secolo, con le missioni dei Padri Saveriani, fino al cessare delle stesse con l’esplodere post-bellico (1947) del comunismo in Cina. Le missioni cambieranno direzione, allora, ed ecco il museo arricchirsi di reperti provenienti da altre civiltà, ed evolvere quindi anche in museo etnografico, leader in particolare sulla etnologia aborigena.
Ma un interesse particolare lo troviamo anche nell’arte del tatuaggio, così di moda oggi, e nei suoi retaggi non a caso delle antiche popolazioni autoctone dell’Australia e anche dell’Africa. Su questi elementi scientifici e anche curiosità, il Museo, spiega precisa e coinvolgente Chiara Allegri, ha sviluppato una parallela vocazione didattica, che si propone di fornire anche ai piccoli e agli adolescenti non solo un’informazione sulla varietà culturale del mondo, ma anche una riflessione sull’universalità dell’arte e sull’inclusività dovuta alla comunanza dei contenuti pedagogici sviluppati alle varie latitudini.
Accanto al lavoro del 2021 all’Arena, oggi, e ancora per poco (se non sarà prorogata, cesserà il 23 gennaio) al sorprendente Museo del Tessuto di Prato, la mostra “Turandot e l’oriente fantastico di Puccini, Chini e Caramba” apre ulteriori pagine sulla storia dell’opera e del geniale lucchese: i carteggi con lo scenografo prescelto, Galileo Chini, grande pittore fiorentino che visita la Cina e il Siam (l’odierna Thailandia) invitato da Rama IV re del Siam per affrescare il palazzo reale di Bangkok, in tempi analoghi ai Padri Saveriani di cui sopra, mostrano la grande serietà di ricerca attuata da Puccini. L’esortazione al grande costumista dell’epoca Luigi Sapelli, detto Caramba, a dialogare con l’orientalista Chini, producono un risultato strabiliante sui costumi appunto della Prima assoluta di Turandot, alla Scala di Milano nel 1926, due anni dopo la morte del Maestro: non solo filologia orientale, anche spirito da art Decò. Risultato: abbagliante. Doppio abbaglio, con la complementare mostra sul grande Chini a Villa Bardini di Firenze, da non perdere.
Ma non dobbiamo dimenticare neppure l’allestimento principe di Turandot all’Arena di Verona, quello di Zeffirelli che ritorna in scena nel festival numero 99 del 2022, a lui dedicato, con i costumi della grandissima Emi Wada, Premio Oscar dei costumi con Kurosawa nel 1986, che ci ha lasciato il 22 novembre scorso. Per le regie operistiche, e in particolare all’Arena dopo la stagione “senza regia” del 98°, dire Zeffirelli è come dire Marie Antoine Carême nella gastronomia: nessun cuoco prima, ma cucina interessante, il miglior cuoco ora. La perfezione formale e filologica di Zeffirelli è anche il messaggio di Gasdia, che sembra dire: “Sappiamo tutto, e dopo la non-regia del 98°, ecco la grande-regia del 99°, con il Maestro per eccellenza, Franco Zeffirelli”.
Tramiamo, di fronte alla mente geniale di Cecilia Gasdia… Cosa avrà in mente per il grandioso centenario del Festival, il 100° del 2023?
Sergio Bevilacqua