Ci mancava, e l’aspettavamo: è, finalmente, la First Lady è arrivata.
di Sergio Bevilacqua
Non è di ora, cari amici, il problema di chi sia realmente Mario Draghi, con tante supposizioni avverse (massone, Goldman Sachs, giustiziere dei deboli d’Europa, rude finanziere, profittatore per conto terzi dell’Italia fragilità, insomma un “cattivo”) cui io NON CREDO, nel senso che, se fosse, non mi è stato possibile “saperlo” (lo spirito galileiano mi assale in continuazione, seppur dei saperi non da “scienza esatta”, matematici…), mentre mi sono fatto l’idea, molti anni fa, per esperienza diretta, che Mario Draghi fosse (e sia…) una brava persona.
Prima di dire che dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna, voglio ricordare come avvenne che mi feci questa idea di lui.
Forse qualcuno l’avrà già letto, ma repitita iuvant a capire il modo di ragionare di chi scrive, e anche il suo mestiere (e mestieraccio…) di sociologo sociatra organalista, che vi aiuta ad apprezzare (spero) i fatti correnti che riporto con il maggior sforzo di senso di realtà ed equilibrio.
Era il 1985 (o 84) e Giovanni Goria, prematuramente defunto, era ministro del Tesoro del primo Governo Craxi (1983-1986), era in visita, accompagnato dal suo consulente Mario Draghi, per una delle aziende del sistema pubblico, ove operavo come Gramma, la vera boutique del Bene Organizzativo delle grandi aziende ed enti pubblici italiani, di Silvio Rubbia, compianto fratello del premio Nobel Carlo.
Ero uno della decina di professionisti che il grande Silvio era andato a pescare nel mondo della consulenza di management (eravamo in tutto poche decine bel settore, a metà anni ’80 e tutti di base a Milano) e in quello della grande impresa.
Eravamo i consulenti più accreditati presso IRI, avevamo in portafoglio clienti, a titolo di puro esempio, come Finsiel, con tutte le sue presenze in amministrazioni dello Stato (SOGEI, per esempio, ma la stessa Italsiel, e poi Insiel, Informatica Trentina, ecc. ecc.), SME con Motta Alemagna e Autogrill, e poi Italstrade, ecc. ecc. Silvio, persona di enorme intelligenza e anche dotato di un solido sistema di relazioni, era un grandissimo consulente: mescolava naturalmente la cultura dell’ingegnere con quella del sociologo di razza, ed era molto affascinato dalle mie applicazioni, come io da lui.
Mi trovai, non proprio fugacemente a essere presente in quell’occasione, e di poter sentire e vedere Draghi. L’incontro non era casuale: avevamo in corso una serie di collaborazioni per tentare di dare un nuovo senso alle partecipazioni statali, già afflitte da deficit competitivi e presto nel mirino delle regole de Mercati Unico Europeo.
Per me, 28 anni all’epoca, era una occasione importantissima per cogliere anche in quelle persone quella dimensione psicologica che è così importante nel funzionamento delle organizzazioni, in particolare quando si tratta di persone di vertice, proprio in quanto società umane, e anche di una grande organizzazione come lo Stato Italiano. Vedere Giovanni Goria e, al suo seguito, Mario Draghi, potere analizzare i loro atteggiamenti per capire quali erano gli elementi personali che li caratterizzavano, in un ruolo di così elevata importanza in un organismo di così grande rilevanza come lo Stato Italiano era pane per i miei denti e mi emozionava.
Non il loro potere, ma la loro funzione, condita di tratti personali che l’avrebbero modificata.
Anche Silvio, che aveva peraltro responsabilità imprenditoriali, era fatto così: con davanti il Papa o il Dalai Lama, la prima e più importante cosa che lo interessava (e mi interessava, avevo studiato proprio per questo) era “quell’uomo” in quel ruolo, la sua mente, il suo temperamento, la sua cultura, la sua consapevolezza relazionale, le sue credenze, i suoi lati oscuri, il suo linguaggio generale, verbale e non verbale, sempre ai fini della sua funzione organizzativa, societaria.
E, insieme, Silvio e io, non ci sbagliavamo proprio mai.
Anche su Draghi, all’epoca, facemmo veloci considerazioni: mi ascoltava sempre, Silvio, con estrema attenzione, lo sguardo acuto e l’ironia pronta, sempre positivo e costruttivo. Io lo ascoltavo molto di più, credo, e mi fidavo della sua guida, era l’imprenditore ma di una organizzazione brain intensive, dove la guida era il cervello. Quindi capitava ogni tanto che prendessi la sua esperienza e solo dopo capissi perché, così come in molte altre occasioni, il dibattito che intrattenevamo su tutti i casi importantissimi di cui ci occupavamo, portava anche lui, senza problemi, ad accogliere le mie analisi, sempre professionalmente argomentate (come ora…).
Allora, ecco la mia diagnosi su Mario Draghi.
Serissimo ma allegro dentro, dotato di uno spiritello fanciullo che nelle già enormi responsabilità dell’epoca, continuava a operare dentro di lui. Un dato di fatto molto, molto bello e raro, che mi colpì: mi sentivo “della stessa pasta”, con lui, con Silvio Rubbia perché in noi quello spiritello pulito lavorava.
Sapevo, peraltro, che la mia strada sarebbe stata molto difficile, e diversa.
Ero fissato fin da adolescente sulla rifondazione della sociologia come scienza, e sapevo che ciò avrebbe dovuto succedere attraverso la clinica, attraverso mille casi applicativi, non solo gratificanti socialmente, ed ero lì, come adesso qui, in missione.
C’era (e c’è) questo senso epico dentro di me, una missione umanitaria di massima dimensione, collegare teoria e prassi dell’intervento sulle società umane per farne vera scienza, appropriata.
Oggi 1000 casi circa, e il caso Mario Draghi è forse già uno di questi.
Perché, in Sociatria societaria, quando un uomo arriva a quella condizione di potere, che significa capacità di incidere sul funzionamento delle società umane di massima dimensione, l’Italia, l’Europa, il Mondo, le sue caratteristiche psicologiche contano quanto l’intera organizzazione di un Ministero almeno.
E così ecco che affiora, dietro il bravo Mario Draghi, dentro i suoi equilibri psichici, sua moglie, Serena (Maria Serenella) Cappello.
Una vera signora. Una vera compagna di vita.
Ci aveva colpito la sua assenza al fianco del marito al primo summit europeo. Col naso fino, avevo attribuito questo colpo di teatro di Mario a una saggia regia. In primis, un vero, grande e vigoroso atto di forza: “In Europa basto io“, era come se dicesse l’ex-presidente della BCE (e di molto altro), e così ha proceduto; secondariamente, i dubbi erano presenti, ma non essendo io una malalingua, e avendo notato alla metà degli anni ’80 il nostro comune spiritello benefico nel Gran-Mario, ero fiducioso.
Infatti non mi sono documentato fino a oggi su chi era sua moglie. Ed è una bella figura.
Che Gran-Mario, da grandissimo bridgista (che è di più di scacchista, c’è più “umano”, unheimlich, straniante, nel gioco del Bridge), avrebbe dovuto giocare la carta della Regina di atout, di briscola, era chiaro, prima o poi.
E l’ha giocata al momento giusto. Quando l’orizzonte è divenuto totale, globale, antropologico: con Joe Biden, il-più-forte dei “nostri”, dell’Occidente.
In Europa, anche da solo, con grande sicurezza; nel mondo, con la First Lady! Più perfetto e solido di così è impossibile. So poco di chi è Serena Cappello, ma so di sicuro che ha un grande uomo vicino. E che è anche merito suo.
Un gioco di squadra, signore donne! Un gioco di squadra, signori uomini! Bravo, bravissimo Mario.
Sergio Bevilacqua