Su uno sfondo europeo e mondiale neo-imperialista e sovranista, in un crescendo distonico, aleggiano minacce bellicose e tentazioni revansciste che è bene riporre in luoghi inaccessibili a chiunque.
di Francesco Domenico Capizzi *
Su uno sfondo europeo e mondiale neo-imperialista e sovranista, in un crescendo distonico, aleggiano minacce bellicose e tentazioni revansciste che è bene riporre in luoghi inaccessibili a chiunque. In occasione della ricorrenza del 4 novembre, al contrario, è bene ricordare i modi, e poi le conseguenze, che indussero l’Italia a partecipare alla I guerra mondiale, “grande” per le dimensioni non per gli ideali espressi, per l’affacciarsi di simmetrie populistiche alimentate da inganni e manipolazioni mediatiche che caratterizzarono quell’epoca con propaggini mai sopite nei successivi drammatici scorci storici.
Ancor prima di Sarajevo ovunque si parlava di guerra inevitabile, augurabile, espansiva, produttiva, biologica, tonico da somministrare in extremis ad una società, dagli interventisti ,definita apatica. Per tutti i Paesi un vero reale motivo per promuoverla: l’acuirsi della questione sociale, non l’uccisione dell’arciduca Francesco Ferdinando e della consorte esposti come tirassegno in un poligono di tiro. La guerra, da futurismo e D’Annunzio definita estetica estrema di modernità e annunciatrice di una nuova era, fu fatta accettare al popolo per superare il disagio di una società carica dell’istinto primordiale di violenza. Un raffinato modo per riconquistare l’individualità creativa nel mezzo del cataclisma purificatore.
Due giorni dopo i fatti di Sarajevo, il capo di Stato maggiore dell’esercito, il napoletano generale Alberto Pollio, fu trovato senza vita in una stanza al primo piano del Turin Palace di Torino dal suo attendente che dimorava, stranamente, al piano superiore. La missione del generale aveva lo scopo di verificare la logistica sul fronte francese. “Arresto cardiaco”la causa di morte comunicata frettolosamente a Camera e Senato dal Presidente Salandra mentre si apprestava a nominare il generale Cadorna, nemico giurato di Pollio, capo di stato maggiore dell’esercito. Intanto scattava sul defunto la damnatio memoriae. Austriaci e tedeschi gridarono al complotto e al sabotaggio, i giornali italiani, francesi e inglesi ricordarono succintamente il generale come “sposo di una baronessa ebrea viennese, dalla difficile personalità”.
La situazione politica assunse toni drammatici con il suicidio di Guido Fusaro per “l’atto ignobile, moralmente infame in caso di guerra contro l’Austria”. Aveva scritto a Giolitti, neutralista ed assertore della via diplomatica: “La guerra causerebbe l’annientamento della Patria. Io piango mentre ti scrivo. Caro Giovanni, per sentimento ognuno può gettare la propria vita, ma non quella di un intero Paese”. Dieci anni dopo Gaetano Salvemini detterà una sintesi storica nelle sue “Lezioni di Harvard”: “La maggioranza parlamentare era d’accordo con la maggioranza del popolo che rifiutava la guerra. Ma poi non osò resistere alle minacce di una folla spinta nelle piazze d’Italia…”. Intanto la doppiezza di Salandra e Sonnino, la passata disinvoltura istituzionale di Giolitti, il primitivo interventismo democratico di Salvemini, la demagogia della stampa con in testa Il Corriere della Sera di Albertini, l’indifferenza degli intellettuali e gli interessi dei grandi industriali portarono al dramma il Paese.
Il 26 aprile 1915 l’Italia aveva siglato, all’insaputa del Parlamento ma con il patrocinio del Re e di Cadorna, il Patto di Londra con l’impegno di entrare in guerra contro gli Imperi centrali entro trenta giorni. Commenterà Salvemini nel suo esilio americano durante la dittatura: “Noi non siamo stati in grado di essere imparziali e misurati, potremo però essere onesti confessando errori, passioni e pericoli che hanno comportato la nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità semplicemente è un dovere”.
Una decisione folle, un trionfo per gli interventisti divenuti maggioranza nel Paese e in Parlamento. Allo scadere del patto di Londra, il 24 maggio 1915, l’Italia dichiarò guerra all’Austria sua alleata da trent’anni, dopo l’anno di equidistanza neutrale trascorso in trattative segrete e redditizi traffici d’armi con Paesi belligeranti d’ambedue i fronti e con quanti stavano preparandosi dietro le quinte. Mezzo milione di giovani tradotti ai confini con l’ordine d’invadere i territori dell’ex alleato, ora nemico…avanti Savoia!!!…fuori dalle trincee, con molto alcool in corpo, sui campi di gloria per sventrare contadini travestiti da soldati e da loro essere sventrati. Le differenze nella divisa e nella direzione di marcia. Privi di addestramento e di equipaggi adeguati, quei contadini travestiti da soldati invasero e distrussero terre e stamberghe di contadini italiani alle prese con la scarsità del raccolto e i magri pascoli di sparuti armenti.
Il passaggio dell’esercito espropriava, calpestava e distruggeva tutto, uccideva animali, inaridiva e spopolava terre, creava moltitudini di profughi che stramaledicevano tutto e tutti inscenando proteste, invano, rischiando la corte marziale e la vita. Trincee ed arsenali squarciarono civiltà millenarie, umili e dignitose. Spinti dal bisogno molti infransero leggi e tradizioni morali custodite come scrigni mentre giornali osannanti i campi d’onore esaltavano la fascinazione della guerra. Gloria, gloria, gloria per tutti!
Quanti non vedevano i volti del terrore e non ascoltavano le grida di follia davanti ai cannoni ardenti s’arruolavano entusiasti, impettiti e orgogliosi al richiamo dell’amor patrio, inconsapevoli, spinti dai loro padri, non trattenuti dalle madri, ammirati, sedotti, ubriacati, traditi…Volevano riscattare la banalità dei loro giorni racchiudendo nel gesto eroico l’evento assoluto della loro vita, lì a portata di mano. Per molti la morte abolirà il tempo disintegrandolo nel volgere di un lamento.
Nei palazzi, nelle strade e nelle piazze, alla fine, echeggeranno fanfare, rullii di tamburi, cadenze di scarponi e tintinnii di sciabole, squilli di trombe davanti a migliaia di svettanti gonfaloni, urla possenti si leveranno, misteriosi e lontani…presentarm!arm!…il Piave mormorò non passa lo straniero!…in mezzo ad ali di folla in festa trionfanti gli uomini delle Istituzioni celebreranno la vittoria, sfileranno con medaglie e lustrini sui loro petti gonfi e su quelli dei pochi reduci, mutilati ma vivi…inneggeranno alla Patria…passeranno in rassegna compagnie di contadini travestiti da soldati straordinariamente lindi che sull’attenti presenteranno armi inaspettatamente lucide, sfileranno orgogliosi in mezzo al popolo festante e smemorato di fronte a immani lutti e devastazioni, affiggeranno bollettini della vittoria, distribuiranno croci di ferro e cavalierati, innalzeranno monumenti ricoperti di marmi cosparsi di nomi incisi, recintati da residui bellici, sormontati da sontuose statue di aitanti combattenti che vittoriosi brandiscono al cielo i loro fucili, autentici inni alla guerra mentre la vita stentatamente riprende mescolandosi alle crescenti sofferenze quotidiane.
Nonostante i coni d’ombra delle lapidi e dei cippi sparsi fin nei borghi più minuti l’immane tragedia, nella memoria, resterà illuminata dagli invisibili sguardi innocenti di quindici milioni di morti, nella sola Europa, fra combattenti e civili, venti milioni di deceduti per malnutrizione, colera, tifo, dissenterie, febbre spagnola, vaiolo, tubercolosi, malattie veneree, quaranta milioni di veterani che non troveranno pace, quattro milioni di menomati fisici e psichici, madri e padri inconsolabili, vedove e orfani senza futuro, giovani donne condannate alla solitudine sterile per la sparizione di un’intera generazione di coetanei, milioni di bambini malnutriti, afflitti da rachitismo, poliomielite, tubercolosi, vaiolo, tifo, dissenterie, tigna, scabbia, parassitosi, psicopatie, deturpati dalle esplosioni di ordigni disseminati nei campi, espropriati della loro infanzia.
Poi il caos, l’imporsi del mito della vittoria mutilata, il fascismo, il nazismo, il franchismo, la seconda guerra in Europa e nel Mondo intero con altri sessanta milioni di civili e militari morti, l’infelicità di moltitudini inestimabili di mutilati, malati, umiliati, affamati, senza casa, deportati, colpiti da disgrazie e lutti, costretti alla solitudine e alla disperazione, inconsapevoli di giostre di parole, nazionalizzazioni di masse, invocazioni della guerra come speranza e igiene del mondo, estetica estrema, annuncio di modernità e progresso, cataclisma purificatore e rigeneratore di vita…
Fallite le acclamate oratorie estetizzanti, sconfessate le agognate bellezze della guerra e rinnegati i suoi magnifici poteri taumaturgici, di fronte alle inconsolabili miserie della violenza estrema e del caos totale l’umanità intera ancora una volta riscopre la sua assoluta precarietà, l’impervia solitudine e l’estrema fragilità del proprio essere, la prossimità della perdizione e della morte e, infine, la maturazione di una coscienza comune, temporanea se ben presto riconsegnò il proprio futuro a fascismo e nazismo con le incalcolabili imperiture rovine.
Francesco Domenico Capizzi *
già docente di Chirurgia generale nell’Università di Bologna e direttore delle Chirurgie generali negli Ospedali Bellaria e Maggiore di Bologna