Mario Draghi non è un leader politico, ma uno dei vertici istituzionali dello Stato.
di Sergio Bevilacqua
E non va inteso come taumaturgo, ma come soggetto istituzionale che potrebbe promuovere burocraticamente una legge per fare ripartire i partiti attuali, le cui leadership non hanno interesse a cambiare, mentre un soggetto istituzionale interessato realmente al miglior governo dello Stato (uno dei due, tra Presidente della Repubblica e del Consiglio dei Ministri, o entrambi) sarebbero appropriati e anche motivati. Salvo che per opportunismo non decidano di fare pesce in barile…
Il progetto manageriale di funzionamento dei partiti si schiera contro il progetto di partito leaderista, che non è così naturalmente compatibile con la democrazia, e a quello illusoriamente popolare (complemento organizzativo del populismo). Tutti i modelli richiedono comunque organizzazione e direzione, con decisioni che non possono essere sempre plebiscitarie o estesamente partecipate dalla base, come fanno credere le democrazie arretrate, basate su meccanismi di massa, tipiche di certi Paesi sudamericani. Questi ultimi hanno ereditato il ritardo di molte terre latine nella democrazia, portandolo a una soglia contrastante con essa.
La democrazia italiana deve maturare e prendere atto che occorre da parte degli eletti competenza organizzativa e direttiva per far funzionare la cosa pubblica, ed evitare la retorica della partecipazione o le illusioni della democrazia diretta: spesso queste argomentazioni sono parziali e teoriche, e nascondono opportunismi.
Ad esempio, il M5S, massimo fautore recente della democrazia diretta, ha sempre finto di non essere organizzato con la rappresentanza. E lo ha fatto nel modo peggiore, con candidati veicolati dalle catacombe, il leader Conte piovuto dal cielo e favole ai bravi attivisti. Una figura discutibile (Grillo) e un apparente sognatore (Casaleggio, R.I.P.) hanno messo nel sacco un terzo degli italiani, facendo fare con i loro programmi inattuabili e la concretizzazione di progetti nascosti, un altro passo indietro alla democrazia italiana.
Il “partito manageriale” è un nome di genere, che lo distingue da partito del Presidente o partito del capo (leaderistico o carismatico) o partito oligarchico, solo per dirne alcuni e il suo nome proprio può essere qualsivoglia. Parlando di partiti, non si parla dell’organizzazione dello Stato, ed è opportuno rimanere in tema, essendo il funzionamento dei partiti già abbastanza complesso e vitale per la democrazia senza considerare le storture del sistema.
Certo è che un partito manageriale mai si potrà chiamare partito nazista o partito comunista, per gli ovvi motivi ideologico-istituzionali dei due casi citati, che contraddicono il processo di selezione per merito e professionalità tipico dei principi della migliore organizzazione e direzione (management), sostituendoli con un principio fondamentale di adesione ideologica.
Il partito è centrale nella democrazia e per rifondarlo nelle istituzioni e nella testa della gente, occorre procedere in modo organico e dialettico. Intanto, occorre buona filosofia del diritto; poi occorre un buon benchmarking con gli altri Paesi democratici, per evitare errori banali e anche per cercare di armonizzare i comportamenti politici in sede comunitaria.
La nomina di Draghi, prima che un successo personale suo conquistato sul campo, è segno della malattia grave della nostra democrazia. Mattarella e Napolitano sono stati e sono i principali portatori di medicine sull’effetto anziché sulla causa, e qui si nota la caratteristica specifica del nostro assetto istituzionale, il cui vertice (il Presidente della Repubblica) non è di stirpe come nelle monarchie e nemmeno di nomina diretta come nella democrazia americana ma espressione protratta nel tempo, cioè più estesa del ciclo elettorale del Parlamento, di un quadro parlamentare. Così, il suo ruolo, e ben lo sappiamo, quando agisce per necessità in surroga di Parlamenti fatti di partiti (e conseguentemente eletti) incapaci di garantire stabilità e qualità di governo, anziché cercare di drizzare il sistema, tende a surrogarlo, appoggiandosi a interessi di partiti locali o extraistituzionali (Europa, NATO).
Rimane che Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio sono i due ruoli istituzionali cui appellarsi per la riforma dei partiti, se i partiti stessi non si muovono.
Le condizioni suddette spigano, più che il successo di Draghi, lo stato di minorità in cui “si vuole” (poteri forti? Europa? NATO?) tenere la democrazia italiana.
Sergio Bevilacqua
ALLA PRIMA POST-COVID DELLA STAGIONE AUTUNNALE
IL COMUNALE DI BOLOGNA RIEMPIE CON TANTI GIOVANI
E L’ALLEGRIA DEL BARBIERE DI SIVIGLIA.
Niente da dire, la Prima della stagione a Bologna ha sempre un fascino speciale e, in particolare, quando si tratta davvero di un colpo di spugna su un passato cupo e antipatico, quello della stagione pandemica, non ancora risolta ma in via di risoluzione definitiva.
Ricordo lo sguardo sperduto di quando, alla fine di una Butterfly domenicale in Piazza Verdi, il 23 febbraio 2020, si iniziava ad avvertire il freddo dell’incipiente restrizione, quasi una sirena che annunciasse un bombardamento, e non un “…fil di fumo”.
Che bello rientrare con la felicità di sempre, anche se, all’attento osservatore, una venatura di differenza c’era ugualmente, questo sabato pomeriggio 16 ottobre alle 18 per “Il Barbiere di Siviglia”, il capolavoro giovanile di Gioachino Rossini. La pandemia non è tutta risolta e le cicatrici si vedono: ad esempio lo sciopero estemporaneo del no-greenpass addetto ai soprattitoli, che ha lasciato i meno esperti con un po’ di delusione… Ma non c’è di meglio che ri-iniziare con i sorrisi della più celebrata opera buffa, e non solo tra quelle del pesarese. Un Rossini tanto amato dal console Ugo Bassi, che, dopo che Gioachino si butta in una fuga frettolosa perché il popolo lo minacciava, lo rivuole a Bologna, e con tanta musica…
Comunque, si nota la popolazione delle Prime e, tra tante figure della buona società bolognese, l’amico Pierferdinando Casini, gioviale come sempre, con cui scambiamo un ricordo per il comune amico Cometti e per i destini della democrazia, il Sovrintendente Macciardi, affabile come sempre, che effettua una efficace presentazione dell’opera e poi corre a prendere il neo-sindaco Lepore, brillante come sempre, al suo primo spettacolo da “padrone di casa”.
Ah che bello. Siamo proprio quasi tornati alla normalità. Ma vediamo ora il piano artistico. Grazzini ci prende, e si vede fin da subito. La scenografia frontale “alla Vick” inizia con un bel coup de theatre: la composizione virtuosistica della prima scena con l’esterno della famosa casa di Rosina, ove il Conte d’Almaviva vuole farle una serenata; scorrono i componenti ed ecco tutto costruito. Figaro, il solerte tuttofare interessato e ironico, ben animato dalla verve dell’interprete, ottimamente attrezzato vocalmente, abbandona l’attività di potatura siepi e si dà da fare per il successo della seduzione canora del nobile innamorato.
È solo l’inizio delle note gag e delle grandi arie rossiniane di “Barbiere”, del bello spirito dell’opera e dell’ottima interpretazione musicale e canora del cast, ove De Candia e la Laguizamon hanno spiccato nei rispettivi ruoli di Figaro e Rosina. E tutto scorre benissimo. Le ambientazioni e le luci danno quel senso iperrealistico che troviamo nelle case di Edward Hopper e che tolgono la polvere a una iconografia ovviamente consueta, senza illeziosirla e stancare. Perché a questa Prima ci sono tanti giovani, e questo è bellissimo ma anche rischioso. Forse, infatti, sappiamo come ragionano, i futuri utenti del teatro… Di certo, come noi ai loro tempi, sono orgogliosi del loro pensiero moderno ma, a differenza di noi all’epoca, non lo esprimono sotto forma di polemica o di ribellione: lo tengono dentro e formulano poi gravi, taciti giudizi.
Grazzini riesce a tenere dritta la barca anche rispetto a questo. Ed è una grande Prima. Una vera rinascita.