Perché Monet è un grande faro dell’arte? Perché dopo tantissimo attingere alla sua fonte, da parte di critica e fruizione, continua a sgorgare acqua purissima?
di Sergio Bevilacqua
Ma perché l’Arte dentro la sua opera è potente: lo spirito del tempo ha deciso di possedere questo allegro ossessivo barbuto, dolcemente ironico e felicissimamente floreale, per la gioia della metà femminile dell’umanità pressoché in toto e anche dell’altra maschile.
Ed ecco allora una nuova sorprendente espressione dello spirito dell’arte, figlio dello spirito del tempo, alla mostra curata dalla squisita Marianne Mathieu a Milano. Si conferma, nel piano di servizio ai milanesi e agli altri della presentazione dei grandi musei del mondo, l’attrazione fatale per la Francia, e lo splendido accento parigino della Marianne (non sarà un caso, il nome della donna simbolo de la France) Mathieu non fa che affascinarci di più.
Ma non succederebbe se non ci fosse sostanza. E qui ce n’è a iosa. Monet è proposto con una vista eptaoculare: ognuna delle sette sale è un occhio contemporaneo che si apre sull’opera celeberrima. Un prisma per la nostra intelligenza, che ruota e ci dona un effetto stroboscopico, sorretto inoltre da utilissimi piccoli gadget percettivi che ci accompagnano sala per sala ed effetti immersivi in apertura e qua e là, come la bellissima saletta delle stagioni con l’esperienza della variazione dei colori nella celebre iconografia della villa di Giverny ove la grande mente colorista e visionaria di Claude Monet pasturava e il suo figlio più piccolo Michel sbalordiva. Lui, il pittore, ama Michel e lo ritrae, ma Michel, innamorato di tale “arte paterna” gli darà nuova vita, donando una bella quantità delle opere pittoriche paterne (ma si sente il respiro di quelle affettive…) a la France, ed eccole in parte a noi, una cinquantina. Ed ecco che per questo lascito inestimabile il Museo Marmottan cambia nome divenendo Marmottan Monet.
Tutto fa, e serve a capire perché ancor’oggi Monet. Il percorso ci mostra un gigante e dobbiamo considerare che, al di là di ciò che la critica dell’epoca non aveva capito (il termine “impressionista” dalla celeberrima Impression, soleil levant, al Marmottan ma non presente in mostra…, nacque ironico nella penna acida di un giornalista), v’è ben altra stupidità estetica… ancor’oggi. Lo stesso “ancor’oggi” di prima, in fondo, e per questo lo ripeto: la magia di Monet, ancora incompresa, ha molto a che fare con una “piccola” invenzione (il colore in tubetti che consente la pittura en plein air) che scatena la rivoluzione contro una grandissima invenzione, con effetti dirompenti sull’immaginario umano e quindi sul processo artistico: la fotografia.
Mentre il buon Francesco Hayez sfida al fioretto la fotografia e vince per l’espace d’un matin, Monet cavalca Pegaso e cambia gli orizzonti della pittura: la sua arte, a differenza di quella del coraggioso veneziano, non ha vissuto “ce que vivent les roses, l′espace d′un matin” (F. de Malherbe) tutt’altro! “Le rose” di Monet, ultimo suo dipinto, a chiudere la mostra, dimostra che anche le rose possono essere eterne, quando diventano emblema dello spirito del tempo, che illumina le menti dei geni.
In sintesi, Monet sta tracciando con serena ossessività la via del futuro della pittura: non più la semplice memoria (non poco, di certo, comunque…) ma la nuova estetica dell’umano perenne. La fotografia, le sue perfezioni ottiche, giusta risposta della scienza alla memoria, è rimasta indietro rispetto al volo spiccato dalla pittura con Pegaso/Monet, quali vaste praterie dello spirito umano dello spirito umano ciò, Monet e la sua allegra, illuminata ossessione, hanno dischiuso…
Ecco una chiave per entrare alla mostra, e non uscire più da Palazzo Reale fino alla sua chiusura, il 30 gennaio 2022.
Sergio Bevilacqua