COSTITUZIONE E DEMOCRAZIA incontrerà nei giorni 23 e 24 aprile bambine e bambini della Scuola Primaria di Finale Ligure per proporre una riflessione sulla Resistenza come movimento corale (di militari, di donne, di civili, di operai, di studenti, di cittadini comuni, di preti e suore, ognuno impegnato a difendere come poteva i valori della libertà e della solidarietà contro l’ideologia della violenza di fascisti e nazisti) e come movimento plurale (nel quale avevano piena cittadinanza idee comuniste, socialiste, democratico-cristiane, liberali, monarchiche, repubblicane, perfino anarchiche, come fondamento di un’Italia di tutti, senza discriminazioni)
Celebriamo oggi il 25 Aprile. Celebrare è una modalità del ricordare, che, come già scriveva Aristotele nel IV secolo prima di Cristo, è un’attività tipicamente umana: dal ricordo, infatti, deriva agli uomini l’esperienza e sull’esperienza si fonda il sapere.
A livello di individuo ricordare è un’attività che in parte compiamo volontariamente, in parte no. Ci arriva un’informazione al cervello e la registriamo. Poi ne arriva un’altra, un’altra ancora, tante altre e le registrazioni si accumulano sulle registrazioni. Dobbiamo selezionarle per muoverci tra loro e la selezione la facciamo secondo criteri che talvolta sono nostri, altre volte ci sono suggeriti o imposti dall’esterno. I ricordi selezionati li consolidiamo richiamandoli di tanto in tanto. Alcuni ricordi li perdiamo: perché col tempo certe facoltà si indeboliscono; perché una nuova informazione non riesce a consolidarsi a causa della forza di precedenti ricordi che ci tiene prigionieri oppure accade che una nuova informazione è così forte da riuscire a cancellare un ricordo precedente. Certe volte siamo noi a cancellare i ricordi, perché sono troppo scomodi o troppo dolorosi per noi, e allora li rimuoviamo. Tutto questo vale anche per la memoria a livello sociale, perché anche la memoria sociale (la memoria di una civiltà) si nutre di riconoscimento, consolidamento, recupero ecc. e anche la memoria sociale è a rischio di oblio e di rimozione.
A molte persone oggi tocca l’esperienza dolorosa di un familiare anziano affetto dal morbo di Alzheimer: la memoria si spegne a poco a poco, i ricordi scompaiono, la coscienza si riduce alla sola capacità di gestire le funzioni vegetative, finché anche questa capacità si perde e il nostro familiare, già svanito dall’orizzonte dell’umanità che pensa, svanisce dal campo della sopravvivenza. Questo sarebbe il destino di una società che non sapesse o non volesse più ricordare o riducesse i ricordi ad una melassa di nostalgia per il bel tempo andato. Sarebbe come una società di api o di formiche, perfetta nella sua organizzazione del lavoro e nella sua ripartizione dei ruoli sociali, ma incapace di capire perché fa ciò che fa e perché continua a farlo in maniera ripetitiva da quando esiste.
Una società può conservare la memoria del passato in modi diversi.
- C’è la Memoria d’archivio o di museo. Raccolta di documenti e reperti di epoche diverse della storia di una specifica civiltà o dell’intera umanità. Tale raccolta sviluppa in chi ne fruisce la percezione della distanza temporale, suscita curiosità, ma difficilmente coinvolge in un sentimento di comune appartenenza, anzi di solito fa affiorare una sensazione di estraneità e lontananza.
- C’è la Memoria retorico-celebrativa. Si celebra, a scadenze fisse, un rito, una ricorrenza. Ma il rito non arriva a segnare la vita reale. Finita la celebrazione, si torna alla vita quotidiana senza che nulla cambi.
- C’è infine il Mito fondante. La parola “mito”, nell’antica lingua greca, non indica una favola, è molto più di una favola. E’ un racconto che racchiude in un involucro magari fabuloso o, comunque, enfatizzato, elementi di verità, di interpretazione del mondo, di lettura delle relazioni umane, elementi che sono organizzati in una trama che non è soltanto tecnicamente significativa ma è soprattutto dotata di senso valoriale cioè è eticamente fondante per una determinata identità comunitaria.
Mito perché il racconto è una trama di valori (valore dell’unità di patria, ad esempio, valore della libertà, della giustizia) celebrati attraverso la personificazione di uomini e donne di età, regioni, culture diverse e intessuta di eventi significativi che a quei valori danno corpo e da quei valori acquistano anima. Celebrare la Resistenza come un mito fondante della nostra storia repubblicana significa commemorare. COMMEMORARE deriva dall’antico latino cum + memorare dove cum, che significa “insieme”, ci dice che qui non si celebra un ricordo privato, ma un ricordo pubblico, che qui non si pratica il ricordo di singoli, ma il ricordo di una collettività, che qui non si dà spazio al ricordo di un individuo, ma al ricordo di un popolo. Perché ogni volta che celebriamo un evento fondante della nostra storia, con quest’azione di cum + memorare noi ci scambiamo un ricordo, noi condividiamo un ricordo, noi ci riconosciamo in un ricordo.
MEMORARE vuol dire in latino far ripensare a qualcosa, attraverso una narrazione. Ci sono narrazioni che sfumano nella favola, ci sono narrazioni che si cimentano con la perfezione dei dettagli, ci sono narrazioni che fondano il senso del nostro stare insieme. Da sempre gli esseri umani fanno la storia e se la raccontano: che sia piccola storia di vicende quotidiane o familiari o che sia tragica storia di vicende epocali, è il nostro raccontarci la storia che dà senso e valore a quelle vicende. In questo raccontarsi una storia, i livelli del racconto possono avere qualità e impatti diversi. C’è un livello del “raccontare storie” in cui predomina l’immaginazione o il piacere dell’affabulazione, sicché la storia raccontata sfuma nella favola e talvolta nella fandonia. Al capo opposto c’è il livello del “fare storia” che consiste in una ricerca scientifica volta a ricostruire i fatti della cronaca in una ragnatela di significati e in un tessuto di rapporti di causa – effetto. In mezzo a questi due livelli (quello del raccontare storie come favole e quello del fare storia come disciplina scientifica) c’è il terreno del racconto della storia come “mito fondante” cioè del racconto di una storia particolare senza la quale noi non saremmo quello che siamo.
Certo il mito contiene abbellimenti ed elementi di favola e fantasia, ma conserva e trasmette un nucleo di verità ed è questo che conta nel mito, la capacità, cioè, di trasmettere un nucleo di verità che fonda la coscienza comune.
Nel mito è possibile che “gli eroi siano tutti giovani e belli”. Ma noi sappiamo che non è sempre così. A volte gli eroi non sono né giovani né belli, a volte non volevano neppure essere eroi, a volte quegli eroi hanno commesso anche atrocità. Ma comunque siano stati (belli o brutti, giovani o vecchi, eroi per scelta o eroi per caso o eroi per costrizione, compassionevoli o spietati) la storia che hanno realizzata il mito ce la racconta perché è questa storia che non deve essere perduta.
C’è nella Resistenza chi ha combattuto contro i tedeschi una guerra di liberazione: militari che si organizzarono spontaneamente (come il reggimento di fanteria Acqui che a Cefalonia non volle arrendersi ai tedeschi e si fece massacrare) o rifiutarono di aderire alla Repubblica di Salò e di collaborare con i tedeschi, e per questo subirono la deportazione in Germania, o combatterono al fianco degli anglo-americani inquadrati in un rinnovato esercito italiano; civili che animarono insurrezioni di città o costituirono bande partigiane al Nord o appoggiarono i partigiani con azioni organizzate di sabotaggio nelle città o scioperi nelle fabbriche.
C’è chi ha combattuto una guerra civile: antifascisti italiani contro fascisti e filonazisti italiani, italiani gli uni e gli altri mentre si richiamavano a due diverse idee di Italia e di onore. E per alcuni questa guerra civile continuò anche dopo il 25 aprile 1945 per vendicarsi di chi sotto il fascismo aveva praticato o tollerato violenze contro gli antifascisti.
C’è chi ha combattuto una guerra di classe: una guerra contro i “padroni” e i loro amici per una società nuova fondata su giustizia e uguaglianza.
Comunque sia la Resistenza, con le sue luci e le sue ombre che non possono cancellare le luci, è fondamento irrinunciabile della nostra Repubblica democratica, anche se non mancano ancora oggi tentativi di revisionismo, tentativi cioè di ridimensionare o rimuovere il fatto storico della Resistenza.
Revisionismo può essere, ad esempio, cercare di ridurre la celebrazione del 25 Aprile a una generica festa della liberazione, come se festività fondanti del cristianesimo quali il Natale e la Pasqua venissero ridotte a generiche feste con contorno di doni e pranzi e con la rimozione dei nuclei di fede su cui esse si fondano.
Revisionismo può essere anche l’atteggiamento di chi sembra scoprire con stupore che anche i partigiani uccidevano, come se si potesse condurre una lotta armata senza uccidere o come se fosse stato possibile scegliere altre efficaci forme di resistenza ai fascisti e ai nazisti senza l’uso delle armi. Don Lorenzo Milani, nella sua Lettera ai cappellani militari toscani, con la quale nel 1965 si schierava in difesa degli obiettori di coscienza, rileggendo la storia d’Italia degli ultimi cento anni come storia che contraddice il ripudio della guerra sancito nella nostra Costituzione, arriva ad ammettere che in questi cento anni di storia italiana c’è stata anche una guerra « giusta » (se guerra giusta esiste). L’unica che non fosse offesa delle altrui Patrie, ma difesa della nostra: la guerra partigiana. Da un lato c’erano dei civili, dall’altro dei militari. Da un lato soldati che avevano obbedito, dall’altro soldati che avevano obiettato. Quali dei due contendenti erano, secondo voi, i « ribelli » quali i « regolari »?
Questo è il punto: i partigiani, che combatterono i fascisti e i nazisti erano ribelli o patrioti fedeli alla loro patria? È una nozione che urge chiarire quando si parla di Patria. Chi difese l’onore della Patria? Chi accettò di prendere ordini dai nazisti o chi, a prezzo anche della propria vita, provò a costruire un’Italia diversa, nella libertà e nella democrazia?
Revisionismo, infine, può essere l’appello a equiparare combattenti partigiani e combattenti fascisti, in nome di una pietà dovuta ai morti degli uni e degli altri e in nome di un rispetto dovuto alle scelte di coscienza degli uni e degli altri. Che dire di quelli che stavano dall’altra parte, che spesso avevano la stessa età dei giovani partigiani? Che ne sappiamo delle loro motivazioni, del perché stettero con i fascisti e i nazisti e non con i partigiani? Credevano di essere fedeli ad un ideale? Si trovarono per caso da una parte della barricata come per caso avrebbero potuto trovarsi dall’altra parte? Erano stati trascinati alla loro scelta da un percorso obbligato nel quale erano stati formati all’obbedienza acritica? Avevano il loro tornaconto? Avevano paura di dover pagare i torti inflitti agli antifascisti?
Anche loro morirono o contarono i loro morti. Non sarebbe l’ora – insinua una vocina che si pretende “saggia” – di scrivere una storia condivisa nella quale i morti di una parte e dell’altra siano accomunati nella pietà per tutti i morti e nella quale il passato cessi di proiettare le sue divisioni sul presente di generazioni che nel 1945 non erano ancora nate?
A questa vocina la memoria di ciò che è stato risponde “Sì, tutti i morti meritano pietà ed è legittimo immaginare e praticare il perdono verso i propri nemici”. Ma con una precisazione ed una consapevolezza. La precisazione è che il perdono riguarda la coscienza privata e può essere esercitato solo dalla vittima: io non posso perdonare torti che non ho ricevuto, può farlo solo chi quei torti ha subito. Al contrario il giudizio storico e politico riguarda la coscienza collettiva ed ha a che fare col mito fondante della nostra società e con questa domanda provocatoria: che presente e che futuro avremmo avuto noi se a vincere fossero stati i fascisti e i nazisti? La consapevolezza è che, se avessero vinto gli “altri”, la società nella quale saremmo stati costretti a vivere non sarebbe piaciuta neppure a quelli che oggi vorrebbero essere equidistanti tra fascismo e antifascismo.
E che sarebbe accaduto se avessero vinto gli Alleati senza la Resistenza? Avremmo avuto una libertà e una democrazia regalate, senza sforzi da parte nostra per conquistarle prima e difenderle dopo. Sappiamo tutti che le cose regalate non coinvolgono veramente chi le riceve, non essendo costate, a chi le riceve, nessuna fatica, nessuna rinuncia, nessun sacrificio.
La Resistenza è uno spartiacque tra due Italie possibili. La Resistenza è fondamento dell’Italia repubblicana e democratica.
Con l’8 settembre 1943, con l’armistizio concluso tra l’Italia e gli Alleati anglo-americani e la successiva fuga del re e del suo governo verso il Sud, l’Italia si trovò divisa in due tronconi: un Sud occupato dagli anglo-americani e un Centro-Nord occupato dai tedeschi, che considerarono “traditori” gli italiani e rivolsero contro di questi le loro tecniche naziste, sostenuti dai fascisti della neonata Repubblica di Salò. Agli italiani toccò scegliere se restare a guardare oppure schierarsi: o con i nazi-fascisti o contro di loro.
Cosa fosse il fascismo gli italiani ormai non potevano più ignorarlo.
Libertà di stampa abolita. Partiti e organizzazioni di opposizione messi fuori legge. Organi elettivi delle amministrazioni locali aboliti e sostituiti con funzionari di nomina governativa. Espulsione dalla pubblica amministrazione di coloro che non davano garanzia di piena obbedienza al fascismo. Obbligo per i professori universitari di giurare fedeltà al fascismo. Scioperi e qualsiasi altra forma di opposizione al fascismo giudicati reato penale. Ripristino della pena di morte. Istituzione di un Tribunale speciale contro gli antifascisti. Potere del capo del governo di fare leggi senza l’approvazione del Parlamento. Abolizione delle commissioni interne delle fabbriche. Scioglimento delle organizzazioni sindacali non fasciste. Diffusione – attraverso la scuola, i giornali e la radio, le adunate di piazza, l’associazionismo giovanile obbligatorio – del pensiero unico che “il duce ha sempre ragione” perché è l’uomo della provvidenza. Emanazione delle leggi razziali e persecuzione degli ebrei, anche di quelli che avevano aderito con entusiasmo al partito fascista o ne erano stati tra i fondatori. Subalternità al nazismo e partecipazione a una guerra rovinosa per il popolo italiano.
Cosa si potesse fare contro il nazismo e contro il fascismo, quelli che scelsero di non aderire alla Repubblica di Salò lo scoprirono giorno per giorno, ricollegandosi in qualche modo alle testimonianze antifasciste che – sia pure minoritarie – non erano mancate dal 1922 al 1943. Testimonianze come: la protesta morale dei deputati antifascisti che abbandonarono il Parlamento nel 1924 dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti; l’emigrazione politica con l’esilio volontario di intellettuali antifascisti di diverso orientamento politico (Sturzo, Turati, Nenni, Saragat, Togliatti, Salvemini, Gobetti, Amendola, i fratelli Rosselli) ed alcuni morirono all’estero per mano di sicari fascisti o per i colpi ricevuti in patria; l’opposizione clandestina in condizioni di grandi difficoltà e rischi (in particolare quella di Giustizia e Libertà e quella del Partito Comunista); il carcere e il confino di dirigenti antifascisti come Gramsci; la presenza di volontari italiani accanto ai repubblicani spagnoli contro l’esercito ribelle di Franco sostenuto da fascisti e nazisti; il boicottaggio delle leggi razziali e l’aiuto agli ebrei da parte di famiglie, qualche funzionario, organizzazioni cattoliche; gli scioperi operai negli ultimi anni della guerra, contro la fame prima e poi per la pace.
La Resistenza italiana dal 1943 al 1945 fu un movimento corale e plurale, che non solo fu significativo sul piano militare perché sostenne l’avanzata degli anglo-americani con la sua guerriglia contro i nazi-fascisti, ma segnò la rinnovata partecipazione politica e la riscoperta della democrazia.
Fu un movimento corale perché coinvolse:
- I soldati italiani, che, lasciati allo sbando dal governo del re dopo l’8 settembre, rifiutarono in grandissima maggioranza di passare con i tedeschi e difesero sul campo la fedeltà all’onore nazionale molto meglio di un re in fuga: migliaia di ufficiali e soldati che a Cefalonia, con una consultazione democratica, decisero di non arrendersi ai tedeschi e si fecero massacrare; soldati che a Roma a Porta San Paolo combatterono insieme con civili contro i tedeschi; militari che salirono sulle montagne e contribuirono a dare organizzazione alle bande partigiane.
- I civili che salirono sulle montagne a combattere contro i nazisti e i fascisti.
- Le donne, che non avevano ancora il diritto di voto e se lo guadagnarono partecipando attivamente e rischiosamente alla Resistenza, come staffette partigiane e anche come combattenti.
- I civili che restarono nelle città e nelle campagne e vi organizzarono gruppi di appoggio ai partigiani o realizzarono sabotaggi contro i tedeschi.
- Gli operai che nelle fabbriche seppero difendere le strutture produttive dalla tentazione dei nazisti di fare terra bruciata dietro di sé e seppero salvare gli strumenti per ricostruire economicamente il nostro Paese.
- Gli intellettuali e i dirigenti antifascisti che contribuirono a un ricco e variegato confronto politico tra idee diverse ma ancorate a un fondamento comune: il radicale ripudio di nazismo e fascismo.
- Intere città come la città di Napoli che non volle più tollerare l’arroganza orgogliosa dell’esercito tedesco e non volle aspettare l’arrivo degli anglo-americani e in quattro giornate (dal 28 settembre al 1° ottobre 1943) costrinse i tedeschi a lasciare la città: donne che affrontarono i camion tedeschi per liberare i maschi appena rastrellati; civili che si improvvisarono combattenti contro i carri armati tedeschi; donne e vecchi che dai balconi rovesciavano ogni cosa sulla testa dei tedeschi; ragazzi fuggiti dal carcere minorile che anziché darsi alla fuga si misero a combattere contro i tedeschi; militari che l’8 settembre se l’erano data a gambe e ora tornavano a riscattare la loro dignità partecipando alla rivolta popolare.
E fu la Resistenza un movimento plurale, per le idee politiche che attraverso di essa ripresero a circolare e a confrontarsi: le vecchie idee liberali; le idee degli azionisti di Giustizia e Libertà, con forte sottolineatura etica; le idee democristiane che volevano coniugare i principi sociali del cristianesimo con una laicità non subalterna a visioni clericali; le idee dei socialisti e dei comunisti, che insistevano sul riscatto dei lavoratori in una società a forte connotazione democratica.
Fu merito dei dirigenti antifascisti far sì che la coralità e la pluralità della Resistenza non deflagrassero (a parte singoli e marginali episodi) in scontri intestini tra le diverse bande partigiane e che la diversità delle idee e delle opzioni politiche restasse sempre ancorata – anche nei momenti di più aspro confronto – al comune fondamento dell’antifascismo.
E così nel dopoguerra il leader democristiano De Gasperi seppe resistere alle pressioni del Vaticano che suggerivano un’alleanza con gli eredi del fascismo in funzione anticomunista. E così il Partito Comunista diede un suo forte contributo, con gli altri partiti, alla difesa della democrazia nella stagione dei terrorismi.
Segno questo che la Resistenza non fu un evento tra i tanti nella storia d’Italia ma fu il fondamento della nuova Italia, alla quale consegnò, nella Costituzione, il suo testamento di partecipazione corale e plurale.
Questa Resistenza, corale e plurale, senza la quale la nostra storia sarebbe stata un’altra storia, depose nella Costituzione della Repubblica Italiana il suo testamento. Una Costituzione, che, a partire dai suoi principi fondamentali, è una dichiarazione polemica contro il passato ma anche contro ogni ritardo o dimenticanza del presente.
Una dichiarazione polemica contro il passato perché in ogni articolo della Costituzione si sente l’eco della condanna per ciò che il fascismo è stato.
Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art.3).
E’ il ripudio definitivo del fascismo:
- che non riteneva donne e uomini uguali davanti alla legge;
- che aveva deciso per legge l’inferiorità di certe razze e aveva perseguitato gli ebrei;
- che aveva proibito alle minoranze linguistiche l’uso della loro lingua imponendo finanche l’italianizzazione dei cognomi e creando la premessa di feroci rancori e feroci vendette contro gli italiani nei territori della Jugoslavia;
- che aveva riconosciuto la supremazia della religione cattolica a danno di altre confessioni religiose;
- che non aveva riconosciuto il diritto ad un’idea politica diversa da quella fascista.
Ed è il ripudio di tutte le tentazioni che potrebbero presentarsi oggi o domani di ripristino di situazioni di disuguaglianza o di privilegio davanti alla legge.
E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art.3, 2° comma).
E qui la polemica della Costituzione, nella quale è stato depositato il testamento della Resistenza, si fa denuncia dei ritardi attuali rispetto all’orizzonte di piena democrazia e piena cittadinanza.
Perché la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sono limitate da ostacoli di ordine economico e sociale:
- Se alcuni o molti non hanno un lavoro che gli garantisca l’autonomia economica, per loro non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se alcuni pagano le tasse e altri no, per chi le paga non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se i lavoratori non trovano per sé e per i loro figli scuole efficienti che forniscano una formazione critica e la capacità di fare scelte consapevoli e responsabili, per loro non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se ci sono cittadini che non fruiscono di una sanità adeguata ai loro bisogni, per loro non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se a pagare le crisi economiche sono sempre i pensionati e i lavoratori che di quelle crisi non hanno responsabilità, per loro non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se in alcune Regioni la vita dei cittadini è pesantemente condizionata dai clan criminali, per quei cittadini non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
- Se ad alcuni o a molti non è dato di accedere in condizioni di parità alla fruizione di beni primari come l’acqua, l’energia, l’ambiente, per loro non c’è libertà e non c’è uguaglianza.
Allora è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli e ripristinare condizioni di libertà e uguaglianza tra i cittadini. E’ la Resistenza a chiederlo, attraverso gli articoli della Costituzione.
Una Resistenza che non si è interrotta nel 1945, con la fine dei combattimenti, ma ha continuato – come forte testimonianza morale – ad operare in difesa della Costituzione e della democrazia.
Una Resistenza che ha continuato a contare i suoi martiri, assassinati dalla mafia, dalla camorra, dalla ‘ndrangheta, dai terrorismi o lasciati assassinare da intrecci perversi tra pezzi dello Stato e criminalità organizzata:
- Politici come Pio La Torre, ucciso perché voleva una legge per espropriare le ricchezze dei mafiosi.
- Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, ucciso perché combatteva la mafia.
- L’avvocato Giorgio Ambrosoli, ucciso perché nella truffa di Sindona ritenne suo dovere servire lo Stato.
- L’operaio Guido Rossa, ucciso perché testimoniò ai terroristi la loro estraneità rispetto alle lotte operaie.
- I giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi perché credettero che i magistrati devono avere riguardo solo per la Costituzione e per le leggi.
- Padre Giuseppe Puglisi e Don Giuseppe Diana, uccisi perché credettero che la Chiesa è Chiesa non quando va a braccetto con i potenti, ma quando sta con i poveri e gli oppressi.
- Tanti altri nostri concittadini e concittadine, magistrati, carabinieri, poliziotti, giornalisti, politici, sindacalisti, economisti, che con la vita hanno testimoniato la loro idea di legalità, di moralità, di solidarietà.
Gli italiani perbene sono fieri di essere concittadini di questi martiri. Ma non basta perché la difesa della democrazia non deve essere delegata a singoli eroi. Brecht diceva “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. La difesa della democrazia riguarda ognuno di noi e passa attraverso piccoli gesti quotidiani, come ci ricorda il padre del pool antimafia di Falcone e Borsellino, Antonino Caponnetto, il quale così parlava ai giovani nei suoi ultimi anni:
Rifiutate i compromessi. Siate intransigenti sui valori (…) Non chiedete mai favori o raccomandazioni (…) La Costituzione e le leggi vi accordano diritti, sappiateli esigere. Esigete i vostri diritti sempre con fermezza, con dignità. Non chiedete mai come elemosina quello che le leggi vi accordano come diritti. Chiedeteli, esigeteli con fermezza, con dignità, senza piegare la schiena, senza abbassarvi al più forte, al più potente, al politico di turno. Dovete esigerli! Questo è un imperativo che deve sorreggere tutta la vostra vita. E’ un imperativo di dignità, di dignità umana.
Ecco l’ultima lezione di cui siamo debitori alla Resistenza: una lezione di dignità, la dignità di chi, anche nelle situazioni più cupe e disperate, non si rassegna, come non si rassegnarono antifascisti e partigiani anche quando tutto sembrava perduto e il nazifascismo sembrava trionfare inevitabilmente.
NON RASSEGNARSI all’esclusivo utilizzo dei parametri della produzione e del consumo per misurare la crescita e lo stato di salute di una società.
NON RASSEGNARSI alla totale dipendenza delle decisioni politiche dai mercati e da un’economia finanziaria “totalitaria”, che subordina ai suoi soli interessi la vita degli esseri umani .
NON RASSEGNARSI al fossato crescente tra Paesi ricchi e Paesi poveri e al fossato crescente in uno stesso Paese tra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri.
NON RASSEGNARSI ai “mercanti del tempio” che cercano di occupare le istituzioni pubbliche e i partiti politici degradando le une e gli altri da nobili strumenti di democrazia a mangiatoie per se stessi e le loro cricche.
NON RASSEGNARSI a vedere i nostri giovani derubati del futuro, dei sogni, dell’essere sale della terra.
NON RASSEGNARSI ai suicidi di imprenditori, artigiani, lavoratori travolti dalla crisi economica, la cui disperazione resta in ombra di fronte ai titoli di giornali e mass media che puntano i loro riflettori sull’altalena di spread e Borse.
Solo così la nostra celebrazione del 25 Aprile non sarà una festa tra le altre, ma un pellegrinaggio alle fonti della nostra Repubblica e della nostra democrazia, un pellegrinaggio dal quale torneremo donne e uomini rinnovati nel nostro impegno ad esercitare insieme con gli altri i nostri diritti e doveri di cittadini, rendendo onore a tutti coloro che, sognando una democrazia che ai loro tempi sembrava un’illusione, diedero la vita perché gli italiani uscissero dal recinto della libertà dei servi e si misurassero, a testa alta, con la responsabilità di esercitare la libertà dei cittadini.