BRICIOLE DI COSTITUZIONE, 26a Puntata, Una pena umana.“Art. 27, … L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Un giovane detenuto, con la bocca cucita col ferro filato,… stava così da alcuni giorni… voleva il permesso di uscire per un fine settimana, ma gli veniva negato.
Vite chiuse a chiave! Dopo la vita viene la libertà… tante volte volontariamente ci chiudiamo in una stanza… ma essere chiusi dentro dall’esterno… non auguro la prigione a nessuno… eppure per mestiere ci sbattevo dentro la gente…
Ho fatto anche il magistrato di sorveglianza. In carcere ero stato molte volte per interrogatori, ma lavorarci è ancor più traumatico. Il mio compito principale era controllare la legalità all’interno di sette penitenziari, da parte dei reclusi e del personale di custodia. In ognuno passavo l’intera giornata una volta al mese. Si era creato un rapporto corretto con tutti: avevano afferrato che mi limitavo ad applicare la legge. Ascoltavo e, se c’era un problema, lo risolvevo; anche i direttori, che in un primo momento mal sopportavano il mio riconoscere spesso le ragioni dei galeotti, gradualmente compresero che tutelavo solo i loro diritti… e dove si osservano davvero le regole non protesta nessuno. Dopo un po’ pranzavamo insieme: superiori, agenti, detenuti; alcuni erano cuochi eccellenti e, salvo qualche diffidenza iniziale, non avevo fifa che mi avvelenassero.
Mi ero persino organizzato per viverci 15 giorni per capire davvero: dentro una cella, come gli altri; rinunciai all’ultimo momento perché alla fine il dirigente non se la sentì di autorizzarmi: i rischi che correvo erano gravissimi ed aveva captato qualcosa…
La prima visita… stavo per vomitare!
Mi si parò davanti, prim’ancora che mi sedessi, un giovane con la bocca cucita col ferro filato… stava così da alcuni giorni… voleva il permesso di uscire per un fine settimana, ma gli veniva negato.
“Si accomodi!”, lo affrontai con dolcezza, mentre mi portavano il suo fascicolo, che ne testimoniava la totale inaffidabilità… ma cercai di renderlo affidabile. Accettò di scucirsi la bocca e mettersi alla prova.
Ci andavo anche apposta per lui… poi arrivò il giorno! L’intero sabato e la domenica non pensai ad altro, la notte non chiusi occhio, ma alle 22.00 della domenica mi telefonarono: “È rientrato!”.
Il giorno dopo mi disse: “È la prima volta nella vita che uno si fida di me!”.
Avrei voluto abbracciarlo, ma non lo feci.
Da allora ebbe molti permessi e ritornò sempre… come tutti gli altri: non uno scappò!
Vite chiuse a chiave!
Briciole di Costituzione è un percorso di diffusione dei valori fondanti della Costituzione attraverso brevi commenti, che pubblico ogni mercoledì dal 3-10-18. È rivolto a ragazze e ragazzi di tutte le età. Se siete interessati iscrivetevi al “Gruppo Facebook Briciole di Costituzione” oppure comunicatemi l’iscrizione alla mailinglist. Vi sarei grato se aderiste all’iniziativa e la diffondeste nei vostri diari, blog, siti, giornali, tv.
Ricevo da Felicio Izzo e in silenzio riporto con animo sbalordito di bellezza:
Il diritto allo studio
In continuità col controcanto confermo, e per vie dissonanti, la splendida compiutezza della nostra Costituzione. Splendida in quanto non ordina né prescrive, ma suggerisce e consiglia e, in fondo, in nome della libertà rispetta anche chi non ne osserva tutti gli articoli – in particolare quelli da te richiamati per l’occasione – ma nemmeno li infrange a tal punto da richiedere il ricorso al codice di procedura civile e/o penale.
Per questo, anche io richiamerei un film, anzi tre, una sorta di saga, vista l’univocità dei temi trattati e l’identità di sviluppo quali film ad episodi: “I mostri”(1963), “I nuovi mostri”(1977), “Mostri oggi”(2009).
Anzi proporrei un nuovo titolo – “I mostri tra di noi” o “I mostri siamo noi” – e tre episodi, sotto forma di racconti – in allegato – con titoli di tre episodi già presenti nei film citati. Nell’ordine: “Accogliamoli”, “Come un padre”, “Cuore di mamma”. Il sottotitolo li attualizza.
P.S. come ti anticipavo ieri, mi sono fatto prendere la mano, nella scrittura. Del resto l’argomento – la scuola – non mi è ignoto. Anzi, visto che le tue “briciole” posteriori a queste lo ripropongono, le considerazioni “narrative” – in particolare la terza – si possono tranquillamente estendere anche ad esse.
I – ACCOGLIAMOLI
Adolescenza pragmatica
No. Non sono i migranti. Uomini che nella denominazione, letteralmente, contengono il proprio destino. Né emigranti, persone che escono da un luogo, che hanno un punto di partenza. E nemmeno immigrati, con la definitezza del participio passato che li consegna alla condizione di arrivati in un luogo, li registra in una stanzialità che nulla dice dell’accoglienza nei loro confronti. Nulla della probabile irrisione sin nel nome loro assegnato e senza consultarli, naturalmente. Così “Napoli”, a Torino chiamavano i meridionali, tutti, anche quelli delle campagne nissene. “Ritals” in Francia o nel Belgio francofono, tutti gli italiani, anche i piemontesi, naturalmente, a segnalare l’incolmabile difetto nella pronuncia della erre uvulare, quella “francese”, “moscia”, per intenderci.
No! Non nazionalisti, revanscisti, puristi – e non si tratta di un movimento linguistico -, razzisti o sovranisti che dir si voglia. No! Niente di tutto ciò.
Sono gli alunni di una scuola superiore. I nostri alunni. I nostri figli. Hanno, in nettissima maggioranza, disertato un viaggio d’istruzione di cinque giorni che pur avevano scelto, nella durata e nella destinazione. E per cosa? Il prezzo? La collocazione temporale?. No! Più semplice e diretto: per non condividerla con una ragazza. E non perché di colore o diversamente abile. No! Ma, più concretamente, più banalmente, per il “fastidio” – testuale – che il carattere della ragazza comporta. Certo, l’insistenza dei suoi approcci talvolta assume i contorni della petulanza, la loro ricorrenza può essere scambiata per ossessione, il suo modo di gesticolare comprende sporadici tentativi di contatto. Ma tant’ è!
Orazio ci ha scritto una satira, verrebbe da ricordare sorridendo.
Lo fa con tutti, docenti e preside compresi. Ma se la sai prendere per mano – nel senso concreto e metaforico – allora il dialogo ritorna tale. E se non hai voglia di sentirla e glielo sai dire con dolce fermezza, ti lascia ai tuoi pensieri, ai tuoi impegni. Allora, viene da pensare che dietro ci sia proprio la paura di sé, di non essere capaci di gestire una relazione con chi non è del tutto omologo.
Sì! Visto che il telecomando, per i rapporti umani, non l’hanno ancora inventato. E per fortuna, c’è da aggiungere.
Così, per non complicarsi la vita, o, meglio, pensando di non complicarsi – inutilmente – la vita X studenti (il numero conta solo ai fini statistici che non rientrano tra i nostri interessi) di un paese democratico del florido occidente, della vecchia civilissima Europa, hanno deciso di non andare a…..
Anche la destinazione non ha nessuna importanza. Con quale sensibilità, del resto, si potrebbe cogliere l’anima di una città se non se ne possiede una propria, di anima? Una propria anima libera e non tirata su a valori come il conformismo, il famigerato edonismo, il tornaconto personale, il calcolo, anzi la partita doppia dell’affetto, della passione, dell’amore. Insomma, la ricerca, a tutti i costi, del proprio esclusivo piacere personale, senza sforzi, fastidi od ostacoli di sorta.
Sono, si ripete, i nostri figli, i nostri alunni. Ci sarebbe da prendersi la testa tra le mani e piangere. Come fece, anzi, fa – la poesia è “eterno presente” – Prévert al momentaneo compagno di bancone del bar che entra, prende un caffè, vi aggiunge un po’ di latte, agita il cucchiaino per sciogliere lo zucchero, lo beve, fuma, voluttuosamente, una sigaretta, paga e va via. Tutto senza una parola o uno sguardo.
Tornando alla nostra storia, il preside, per scoprire la parte di colpa di noi adulti in quel comportamento, convocò i 19 – il numero lo si riporta per la sua stranezza, nessun richiamo cabalistico, nessuna stranezza se non la banalità di un numero primo – alunni che avevano confermato l’adesione.
Una parte ignorava la partecipazione della ragazza di colore, “di cui non si potevano non ricordare gli occhi” disse il preside e non per vezzo (o peggio), ma per deformazione “professionale”, essendo, anche nella considerazione generale, un valente ritrattista. Altri confessarono che a loro interessava soprattutto il viaggio, lo stare insieme, “e poi non era tutto quel fastidio…”.
Solo una ragazza disse che ne aveva piacere. Sì, piacere. Perché la conosceva ed era anche già stata in camera con lei. Certo, qualche volta se n’era uscita da sola, ma solo dopo che s’era addormentata. Il che accadeva “abbastanza presto” disse con un sorriso.
Ricordò che una volta le aveva parlato di un sogno che, aveva precisato, faceva spesso e che certe volte le faceva paura, altre la faceva star così bene che non si sarebbe più svegliata. C’erano delle persone tutt’intorno che sentiva fratelli, col sole tra le foglie e il gioco era vedere le forme mutevoli di luci sui loro corpi nudi. Ma il sogno si faceva brutto quando i fratelli cominciavano ad urlare e la loro pelle restava scura con l’odore di pioggia nell’aria.
Il preside che conosceva il passato della ragazza collegò il sogno alla sua vicenda di bambina di una famiglia che viveva ai margini della foresta amazzonica, sotto un tetto che era la chioma di un albero con un telo ad allungarne l’ombra.
Nel racconto – aggiunse la ragazza – le aveva anche confessato che quel gioco di luci lo aveva ritrovato, nel nostro paese, in una sfilata di carnevale, nel vestito di una maschera, la sua preferita, “Allerchino”, “così aveva detto”.
Ridendo l’alunna spiegò: “Sarà che sono un’appassionata di storie strane, ma quella mi era proprio piaciuta “ ed aggiunse che era proprio bello parlare alle persone e ascoltarle. Tutte, anche quando raccontano sogni strani, “in fondo si sa che parlare ha sempre bisogno di qualcuno che ascolti. Parlare da soli è proprio dei pazzi. Non è così che si dice?”
Il preside pensò che a quelle parole, anche Prévert si sarebbe tolto le mani dai capelli e avrebbe sorriso. Come stava facendo lui, in quel momento. E come aveva fatto la ragazza. Poco prima.
II – COME UN PADRE
Confessioni di un docente non esemplare
A memoria sua non ricordava di averlo mai sopportato quel rumore, nel corridoio. Cresceva man mano che si avvicinava alla porta dell’aula. Poi, ma molti anni prima – questo sì che lo ricordava – cessava non appena faceva la sua comparsa sulla soglia.
Ma adesso… Avrebbe dovuto rincorrerne almeno un paio (“Ma come si fa a stare tre ore consecutive senza fumare?”). Non che condividesse le ragioni. Anzi, da buon ex fumatore – anche in classe, ai bei tempi – era di un’intolleranza maniacale e vendicativa. Ma due in meno, in classe, o anche di più, era senz’altro meglio. Capitava, e abbastanza spesso, che qualcuno, rientrando, gli portasse un bicchierino di plastica col caffè. Era una “clausola”, seppure non vincolante, di quel patto di non belligeranza sancito ad inizio d’anno. L’altra, assolutamente determinante, prevedeva valutazioni dal sei in su. In cambio: una vivibilità accettabile nelle ore di lezione; spiegazioni sostituite da letture dei testi; discreto casino, possibilmente organizzato, durante le interrogazioni; compiti scritti non identici; uscite regolate. Un meccanismo perfetto per tenere la mente disimpegnata, libera per occuparsi delle lezioni private. Del resto, si sa, lo stipendio è quello che è, servirebbe appena a retribuire il semplice ingresso in istituto, cinque giorni a settimana, non quello nelle classi. Poi c’è la moglie con le sue esigenze. E i figli con le loro. La famiglia, insomma. E lui era stato attento. Particolarmente nella scelta dei docenti per i figli: bravi, esigenti ma, anche amici. I risultati? Due carriere scolasticamente brillanti e gratificate. La prima figlia a preparare il concorso in magistratura. Il secondo a fare praticantato in uno studio d’avvocato. Un principe del foro. Amico, naturalmente!
Certo, talvolta, a scuola, la giornata si intorbidava. Gli alunni non sempre tengono fede alla parola data. Il brocardo “pacta sunt servanda ”, soprattutto nelle prime classi, ed anche nelle altre, in verità, col tempo si è fatto sempre più flebile. Ma tant’è!
Eppure in quella vita scolastica sulla quale nulla poterono undici ministri e altrettante riforme, didattiche innovative e nuove tecnologie, un incontro pomeridiano si abbatté come un cataclisma.
Era a Roma, in visita con gli alunni. Nei pressi della “barcaccia”, a piazza di Spagna, si sentì chiamare. Era uno sconosciuto. Un uomo più vicino ai cinquanta che ai quarant’anni con una giacca casual e pantaloni troppo colorati. Un pizzo di peli rossicci e lisci. I capelli tirati all’indietro raccolti in un nastro a regolare un codino. Non lo aveva minimamente riconosciuto. Fu lo sconosciuto a ricordargli anni, scuola – in Brianza – materia e qualche episodio, qualche nome. Solo al nome della prof. di italiano – la Balgera – si aprì uno spiraglio.
“Fu lei, prof., a parlarci di quasar, di pulsar. Nomi nuovi ed affascinanti. E poi i buchi neri, l’antimateria. Lo devo a lei se ora lavoro al centro ricerche di Frascati. Lei mi ha indirizzato negli studi. Anzi nella vita. Come un padre”
Disse proprio così: “come un padre”.
“Sa…mia moglie è laziale. E pure i nostri figli. Sì! Proprio come un padre. Ma anche per gli altri. Quando capita che ci rivediamo, non tutti naturalmente, viene sempre fuori il suo nome. Anzi…” e gli mostrò sul cellulare la foto di una classe che la foggia dei capelli e gli abiti indossati assegnavano a qualche decennio prima.
Intanto qualcuno degli alunni “gitanti” si era avvicinato.
“ E tu chi sei?” chiese all’alunno ritrovato.
“Come, prof. Non mi riconosce? Ma questo! Allora i capelli erano più biondi. Lei invece… E questa, l’ha riconosciuta?”
“Chi?”
“Ma questa, prof. Questa accanto a lei. Non creda che non ci eravamo accorti di nulla. La Balgera!L’ha più rivista?
“No. No!”
“Peccato! Eravate una bella coppia. E chissà, forse… Poverina ha avuto una vita sfortunata. No. No. Sta bene lei. Le è morto il marito, nemmeno quarantenne. Per fortuna senza figli. No, non si è risposata”
Ancora qualche nome. Poi di quella volta che… e di quell’altra che il preside entrò in classe…; del regalo della maglia del Napoli, la dieci, l’anno dello scudetto…
Ma i nuovi alunni, i gitanti, forse per gelosia, forse per divertirsi, cominciarono a schizzarsi con l’acqua della fontana e fu tempo di saluti e di convenevoli: numero di cellulare, promesse, inviti…
“Prussò, parite cchiù giovane vuie!”gli fece il primo indicando il vecchio studente che si allontanava.
“O, meglio – intervenne un altro – è iss’ ca pare cchiù viecch’ ‘e vuie. Pecchè vuie, l’età vostra, ‘a tinite, no?”
Non sapeva se irritarsi per l’improntitudine della chiosa o rallegrarsi per l’implicito complimento del primo intervento.
Non ci fu tempo per scegliere. Gli altri alunni, sulla scalinata di Trinità dei Monti si stavano facendo apprezzare da un vigile che aveva preso a fischiare. Il tempo di maledirli e quello di radunarli furono simultanei. Nel percorso verso l’albergo qualcuno fece un’allusione a quella prof. di tanti anni prima. Finse di arrabbiarsi, in realtà ne era compiaciuto. E non poté non pensarci.
A cena, al tavolo dei docenti, come se li vedesse per la prima volta, realizzò che tra di loro non avrebbe potuto esserci nessuno dei suoi allievi, neanche dei primissimi anni.. Anche se – era stato quel nome e quel volto sulla foto a suggerire il pensiero – qualcuna delle professoresse poteva essere stata la Balgera di qualche collega, tanti anni prima. E, forse, chissà, ancora ora.
“Non tutte le presenti” – pensò e sorrise.
La verità è che quell’incontro lo aveva turbato. E non per il tempo passato e i ricordi e quella foto con quel volto. E quel nome pronunciato alla brianzola, ”la prof. di italiano, la Balgera”
No! Erano state le parole dell’allievo divenuto uomo e che lui aveva indirizzato “come un padre” come aveva tenuto a puntualizzare. Perché quell’alunno aveva fatto quello che lui stesso, da giovane, avrebbe voluto fare: lo scienziato, il ricercatore. La scuola era stata solo un ripiego.
Allora si sentì, per la prima volta, importante come docente. Ma durò poco, perché, subito dopo, avvertì come un senso di vergogna e si sentì colpevole. Sì, colpevole. Colpevole di aver dilapidato se non proprio un talento, una vocazione, almeno una discreta, onesta inclinazione. E di averlo fatto a tutto svantaggio e condanna della propria terra, dei propri figli, non i suoi naturali, ma quelli della comunità. Di aver dato il meglio e il di più altrove. Magari per essere accettato. O perché lì si era più rigorosi. Di averlo fatto per imposizione, calcolo, non per scelta e, soprattutto, non per amore.
“Come fanno tanti figli del Sud” pensò a parziale discolpa. Ma la conclusione che gli balenò, invece, fu feroce. “Solo quelli che non amano il Sud, né lo meritano!”
Fu l’onestà di un attimo e che non ebbe futuro. O, forse, sì. Rientrando nei “quota cento”, il prof. decise di fare domanda di pensione. Si sarebbe finalmente dedicato solo alle lezioni private. Da evasore fiscale, certo, “ma rilasciare ricevuta per il “doposcuola” chi lo fa? Ma, soprattutto, chi ci andrebbe a pensare? In particolare, qui. Al Sud!”.
III – CUORE DI MAMMA
Quel che non è dato sapere
- “L’ho sempre saputo. Anche prima delle parole dei medici. E quelle di mia madre. Del resto tutto è avvenuto prima. “Sofferenza encefalica prenatale”. Pensate…Soffrire ancor prima di nascere! Sì, ancor prima di venire al mondo. Pensateci, voi che mi parlate di regole, etica e comportamenti opportuni, a seconda delle circostanze. Ma prima di nascere, cosa credete che ci sia? Su, su! Non ci vuole molto. Nulla se non il corpo di una madre, un corpo che ospita un figlio. Quello che si sta formando come essere umano, anzi vivente sino a diventare tale, figlio, appunto. Ma un figlio o, meglio, quello che c’è prima del figlio, che soffre. E chi volete che lo senta il dolore, se non quel corpo che ne predispone, ne compone un altro?
E il dolore dura il tempo del dolore, mi è stato detto. Ma che significa? Vale per il parto che conduce alla vita. Vale per i genitori che ci lasciano, o un amico, persino per un figlio che muore. Ma il mio tempo non ha una durata, un punto d’inizio. Ricomincia ogni volta. Riparte ad ogni nuovo sguardo. Riprende dopo ogni intervallo di pensiero, che non sia Lucio.
Sì, anche il nome glielo ho dato io. Lo so: che c’entra un cantante con lui? Come se i nomi fossero delle etichette da attaccare su cose da catalogare, sistemare, per metterle in vendita o, semplicemente, per mostrarle. E poi lo ascoltava anche lui con me. Chissà…forse era una pausa al suo dolore. Che era il mio perché quasi con la sua testa si formavano anche i pensieri in me. E fra tutti, uno, sempre lo stesso: che non sarebbe mai stato come tutti gli altri. Come anche i suoi fratelli che già sapevo che avrei avuto.
Come sapevo che non era giusto, che non poteva essere giusto. Perché Lucio non avrebbe potuto che accettare quanto non aveva scelto. Che ne sarebbe stato persino felice, a suo modo, talvolta. E quindi non poteva che essere giusto che ci fosse qualcuno ad urlare per lui, a pretendere, a ribellarsi, al suo posto. A maledire. A dare voce alla sua voce fatta di suoni, versi, ansimi.
Ma come fate a non capire che si ha bisogno di nemici e di torti e di aggredire. Sempre. Per trovare, sempre, la forza per lottare, per ottenere, guadagnare quello che spetta ad ognuno. Anche a Lucio.
Ma che ne sapete di un figlio che dorme, con voi che cercate di intuirne i sogni, di attribuirgliene di vostri per scoprirli, per verificarli nella loro straordinaria bellezza e purezza, che pur si vorrebbe abbandonare, e follia.
Lucio non è semplicemente mio, e sin dal nome di un cantante che ho amato. Lucio è soltanto mio. Anzi, Lucio sono io. Sono io il nome che gli ho dato. Sono io quando è accanto a me, sereno e calmo che gli altri si meravigliano e parlano di dominio, manipolazioni, farmaci. Sono io quando sputa o tira calci. Sono io i suoi silenzi e le sue esplosioni.
Eppure vi commuovete per il vostro cagnolino che dorme sul divano. Ma è perché non abbaia o perché è tutto vostro? O perché ne immaginate i pensieri. Vi intenerite ad assegnargliene di possibili, secondo i vostri modelli. Magari un osso gigantesco o una vezzosa cagnolina. Come nei cartoni animati.
Quelli di Lucio sono solo più veri. La verità che non compie rivoluzioni. Quella discontinua come il suo “flusso ideativo”. Le diagnosi a questo servono. Dicono in poche parole ciò che non si accetta, si fatica ad accettare, per un’intera vita.
Dite che lo faccio per affermarmi, che ce l’ho col mondo. E se anche fosse? Di certo non è per quello che pensate voi.
Dite che sono folle anch’io. Anzi, soprattutto io. E se anche mi convincerete che è così, saprò innamorarmi della mia follia. E’ la nostra terra comune. Il nostro codice esclusivo, senza segni né simboli. La pagina bianca che ci ospita tutti e due. E ci fa indistinguibili. Perché Lucio non è semplicemente mio. Lucio sono io! E gli altri figli sono i miei fratelli. Ma fra poco, loro, non avranno più bisogno di me. Perché io sono Lucio e neanche loro riescono a capirlo fino in fondo.
Ma una madre, una vera madre, è diversa” –
Ci fu silenzio quando la donna smise di parlare. Neanche un accenno di applausi, nemmeno di quelli che partono ai funerali. E che servono solo a dimenticare e ad assolversi.
Chissà se fu solo l’ipocrisia a sancirne l’opportunità o la convinzione e la voglia di ripartire dalle proprie colpe. Quella che determina l’autentica comprensione, la vera, concreta solidarietà.
Anche solo il dubbio sarebbe una conquista.