Era l’ 8 marzo 2010 .Tina non partecipa a nessuna delle manifestazioni di quelle organizzate ogni anno per ricordare la specificità della donna nel nostro mondo. In realtà Tina non ha mai partecipato a nessuna di queste manifestazioni e forse non se ne è mai neppure accorta. Perché Tina lo ha sempre saputo, senza averlo studiato su libri o in gruppi di autocoscienza, che la donna ha una sua insostituibilità nel mondo che si pretende solo per i maschi. Cominciò ad impararlo quando bambina, rimasta orfana, fu mandata dai nonni con la sorella di poco più grande in un’altra città presso parenti, mentre i fratellini maschi rimasero con i nonni e furono avviati agli studi e all’apprendimento di un lavoro.
Continuò a impararlo quando scoprì che l’ospitalità presso i nuovi parenti doveva in qualche modo guadagnarsela con piccole faccende femminili e più tardi collaborando con la sorella nei lavori che questa di volta in volta trovava per garantire a poco a poco l’autonomia a se stessa e alla sorellina che curava come una figlia. Lo capì quando cominciò ad amoreggiare col ragazzo che avrebbe sposato anni dopo e incontrò l’ostilità della madre del ragazzo, presso la quale era andata a imparare il lavoro di ricamatrice, fino ad essere allontanata dal laboratorio perché la “maestra” desiderava per il figlio una sistemazione migliore di quella con un’orfana senza dote.
Continuò a sperimentarlo sotto le bombe che gli angloamericani scaricavano addosso a chi era rimasto nelle città, ed erano soprattutto donne, vecchi e bambini, pensando di tirarle addosso a fascisti e nazisti. Lo visse sotto gli occupanti/liberatori angloamericani guadagnandosi da vivere a preparare sandwiches nelle mense degli ufficiali mentre il suo ragazzo se la guadagnava suonando per quegli stessi militari.
E poi, finita la guerra, sposò il suo ragazzo, all’insaputa della madre, con la complicità di un anziano sacerdote che riconobbe più valore all’amore che alla dote. E stava morendo dissanguata quando nacque il primo figlio, in casa, come si usava a quei tempi, perché la gente era presa dall’entusiasmo per la nascita del primo maschietto nel vicolo e poco si curava della madre. Anni dopo mise al mondo un altro maschietto e, senza aver studiato né psicologia né pedagogia, dovette destreggiarsi con le crisi di gelosia del primo figlio.
E imparò a crescerli i figli, lei che ricordava poco il padre e quasi per nulla la madre, e a trasmettere loro l’accettazione degli altri e la tolleranza delle difficoltà. Imparò a condividere le preoccupazioni del marito per i suoi lavori a rischio di precarietà; cercò di integrare le risorse della famiglia lavorando alla biglietteria di un cinema e tentando anche di gestire un piccolo negozietto; imparò ad amministrare le modeste entrate in modo da consentire ai figli di accedere all’istruzione superiore che di solito era preclusa ai figli dei lavoratori a basso reddito.
Imparò a condividere con altri più poveri di lei quello che possedeva, fino a lasciare a volte che alcuni approfittassero della sua ingenuità al punto da non restituirle i piccoli prestiti ricevuti. Accettò con soddisfazione, ma senza montarsi la testa, i successi che i figli conseguirono mettendo a frutto il suo modello di vita (la solidarietà) e quello del loro padre (il senso del dovere e dell’onestà), l’uno diventando un bravo uomo di scuola, l’altro diventando un bravo dirigente sindacale.
Condivise col marito preoccupazioni, paure, ansie, illusioni, disillusioni, speranze, soddisfazioni (come la nascita dei figli dei figli). E quando il marito non fu più in grado di condividere, perché la mente gli si era svaporata nell’incoscienza, non volle dar retta a parenti e amici che le consigliavano di sistemarlo in una casa di cura e gli restò vicino fino all’ultimo respiro. Credette che dalla morte del marito (quel ragazzo con cui aveva condiviso più di 60 anni di vita) non si sarebbe più ripresa. Invece fece in tempo a conoscere tre dei suoi quattro pronipoti e a recuperare la sua dolce ironia e a fantasticare sul suo futuro.
La notte in cui il suo respiro si acquietò lentamente per sempre c’erano intorno a lei, a farle e a farsi coraggio, i figli, le nuore, quasi tutti i nipoti, la moglie di uno di loro e anche un pronipote. Gli atri nipoti e pronipoti arrivarono in tempo per interrogarsi se una cassa di legno potesse far sparire quella nonna e bisnonna dal loro cuore.
All’una e trenta di sabato 27 febbraio 2010 Tina ha serenamente concluso la sua vita. Tina era mia madre.
Luigi Vassallo