Era l’epoca dei giornali. E di giornalisti capaci, non tutti per la verità, di portare avanti grandi inchieste, di andare a caccia di scandali dal “caso Lockheed” alle tangenti del terremoto del Friuli. Cani da guardia del potere. Era l’epoca nella quale una campagna di stampa faceva tremare i vertici dello Stato e costringeva alle dimissioni un presidente della Repubblica. Era l’epoca nella quale un sindaco, guarda caso quello di Genova, poteva essere costretto ad andarsene in seguito a un’inchiesta, coraggiosa e determinata, dei cronisti del Decimonono, sui conti truccati dell’Expo 1992. L’epoca nella quale i lettori facevano la coda alle edicole: operai e studenti, avvocati e portuali, docenti universitari e casalinghe, dirigenti d’azienda e impiegati, medici e portantini, nessuno escluso. Del giornale, di quel modo di fare il giornale, libero e indipendente, non si poteva fare a meno. Ce n’era almeno uno in tutte le case. Erano gli anni in cui un Presidente del consiglio dei ministri voleva tutte le mattine nella “mazzetta” dei quotidiani anche il “Secolo di Genova”, come era solito ricordare.
di LUCIANO ANGELINI*
Cesare Brivio Sforza, morto a Milano, venerdì 15 febbraio, all’età di 80 anni, è stato l’Editore di quel Secolo XIX. Un giornale, il “suo” giornale, nel quale ha riversato la sua passione per la carta stampata, rivendicandone prestigio, autorevolezza e soprattutto indipendenza. “Noi siamo editori puri“, era il suo mantra. E non mancava di sottolinearlo con fermezza, quasi con ostinazione, in ogni rara uscita pubblica, lui che preferiva essere più che apparire, in ogni convention, in ogni dibattito e negli incontri più significativi con i suoi dipendenti, giornalisti e poligrafici. Questa era la specificità, il fiore all’occhiello del Decimonono. Quasi una rarità. Perché quasi nessuno poteva dire la stessa cosa: alcuni quotidiani erano organi di partito, i più finanziati in modo occulto, molti altri erano invece di proprietà di grandi gruppi industriali (Montedison, Eni, Fiat, Sir, cementieri e palazzinari) o finanziari, che i giornali, i direttori e i giornalisti li compravano e li vendevano in base agli interessi e alle rispettive esigenze economiche e politiche, come descrisse Giampaolo Pansa. E Brivio aveva la forza, la determinazione e la responsabilità di ribadire ogni qual volta fosse necessario di non avere altri interessi se non quello di Editore del Secolo XIX. E a lui spetta la primogenitura della risposta ad un imprenditore che gli aveva chiesto come si poteva acquistare il giornale: “All’edicola”.
Cesare Brivio Sforza, discendente per parte paterna di una casata nobiliare milanese, per parte materna era erede della dinastia Perrone. Amava le auto veloci (il padre, Antonio, era stato uno dei più famosi piloti italiani degli anni Trenta, rivale di Tazio Nuvolari all’Alfa Romeo e vincitore della Mille Miglia del 1936, ma alla nascita del figlio la moglie gli impose di lasciare le gare), aveva la passione per i cavalli coltivata e praticata negli ippodromi fin dall’età giovanile (come driver partecipò a 477 corse vincendone 122), e poi come proprietario della prestigiosa scuderia Razza Latina a Barbaricina, nel Pisano.
Ma c’era il giornalismo e il mondo dell’editoria nel suo Dna. Alla metà degli anni Settanta, dopo un’esperienza al Giorno, toccò a lui in prima persona il compito di guidare il Secolo XIX nella nuova roccaforte di Via Varese. I cugini Giulio Grazioli e Carlo Perrone erano più defilati. Grazioli (di lui si ricorda solo la frase con la quale esordì in un delicato incontro sindacale: “Bambole non c’è una lira“) uscì presto di scena facendosi liquidare il suo 33 per cento della Sep, quota passata negli anni ’90 al gruppo tedesco Passau Verlag e poi rivenduta a Carlo Perrone.Un’operazione rivelatasi il “cavallo di Troia” per mettere Brivio in minoranza ed escluderlo di fatto dalla governance del giornale: una frattura insanabile, una ferita mai rimarginata.
Un passo indietro per ricordare che al suo arrivo in via Varese si era da poco conclusa la dirompente e, per la borghesia genovese, spesso traumatizzante, stagione di Piero Ottone, direttore del Secolo fra il 1968 e il 1972, quando fece il grande ritorno all’amato Corriere della Sera, accogliendo la proposta di Tonino Leonardi, uno dei tre proprietari del giornale, Giulia Maria Mozzoni Crespi e Mario Crespi, e andando allo scontro con il leggendario Indro Montanelli. Alla guida era rimasto come vice Marco Cesarini Sforza con Alessandro Perrone direttore da Roma. Una breve parentesi. A Cesare Lanza e poi Vittorio Bruno toccò la fase di transizione in attesa del nuovo corso affidato nel 1978 al prestigio di Michele Tito.
In pochi anni Ottone aveva rivoluzionato (“I tempi dell’Arcadia sono finiti”, esordì al momento dell’ingresso in redazione) il sonnacchioso e ingrigito giornale di Piazza De Ferrari trasformandolo in un quotidiano moderno, scalpitante, a tratti provocatorio, con una redazione rinnovata e ringiovanita (Antonio Ferrari, Francesco Cevasco, Francesco Margiocco, Luisa Forti, tutti destinati a prestigiose carriere), la grafica più vivace e ariosa di Umberto Torlizzi, titoli più aggressivi.
I successi di vendita e il prestigio guadagnato andavano consolidati e sviluppati. Brivio puntò subito su due obiettivi: una struttura aziendale solida e autorevole e una squadra giornalistica sempre più qualificata. Personaggi come Angelo Artioli al marketing e alla pubblicità, Gianni Terzolo all’amministrazione e Amedeo Massari al commerciale (ruolo poi affidato a Rodolfo Meoli) furono per anni i punti di forza che sorreggevano la macchina aziendale. C’era una perfetta comunità d’intenti perché con sei edizioni provinciali ed una nazionale, inserti speciali, iniziative promozionali vincenti (come non ricordare la lunga colonna dei 10 mila partecipanti alla Marcia dell’Amicizia dal Monte Fasce a Recco, organizzata da Amedeo Massari e dal suo affiatatissimo staff dell’ufficio diffusione), si consolidasse il completo radicamento nella realtà regionale. Non per caso Il Secolo XIX sotto la direzione Rognoni fece segnare con il 38,6 per cento il più alto indice di lettori sul totale della popolazione adulta. Un record oggi impensabile.
Un lungo viaggio, durato fino all’inizio del Terzo millennio, in cui “il dottor Brivio”, come tutti lo chiamavano, dai fattorini ai suoi più stretti collaboratori, aveva visto avvicendarsi alla guida del giornale direttori di grande esperienza e autorevolezza, da Michele Tito con a fianco il rampante Giulio Anselmi, avviato ad uno straordinario percorso professionale, a Tommaso Giglio, Carlo Rognoni con Arturo Meli condirettore, Mario Sconcerti, Gaetano Rizzuto. Un’esperienza affascinante e talvolta complicata, alla quale ho partecipato con ruoli diversi, fino alla condirezione, con tutti i direttori da Michele Tito, un autentico maestro, all’amico Gaetano. Non mancavano i momenti di tensione, come era inevitabile ma nessuna pressione. Solo il desiderio di far sentire, quasi in punta di piedi, la sua presenza e partecipazione alla vita del giornale.
Era il giornale dei collaboratori di prestigio: Giorgio Galli, Corrado Augias, Carlo Galli, una giovane Lucia Annunziata dagli Stati Uniti, Ferdinando Imposimato, Vittorio Emiliani, tanto per ricordarne alcuni tra i più noti. E degli inviati d’alto livello: Giuliano Crisalli, Roberto Badino, Renato Pasquario, Ivo Carezzano, Luisa Forti, Franco Manzitti, Mario Bottaro, Maria Latella, Claudio Sabelli Fioretti, Piero Sessarego. Erano gli anni delle grandi iniziative editoriali La mia Terra, La mia gente, Ciao Mondo, affidate alla bravura e competenza di Guido Arato, e Tesori della Liguria, una raccolta curata da Vittorio Sgarbi. Altissimo il gradimento dei lettori. Così come per il volume, affidato alla sapiente penna di Sergio Paglieri, dedicato ai cento anni del Decimonono, iniziativa di grande successo che legò sempre più i liguri al “loro” giornale, da Sarzana a Ventimiglia, come Brivio auspicava e sollecitava. Perché era forte, da uomo amante delle sfide, il suo impulso nel sostenere e seguire di persona le battaglie a colpi di copie con i rivali della Stampa nel ponente e della Nazione nello Spezzino. Non era, né poteva essere nelle sue intenzioni, vedere un giorno il “suo” giornale assorbito dalla concorrenza e con le cronache fotocopia. Altri tempi. Altri editori.
Con Cesare Brivio alla guida dell’azienda e Carlo Rognoni direttore (Arturo Meli e Gaetano Rizzuto i suoi vice) il Secolo XIX riuscì a toccare il record storico della sua diffusione con oltre 155 mila copie giornaliere vendute, e con punte di oltre 200 mila copie la domenica. Traguardi conquistati (e ormai irraggiungibili a fronte delle attuali 40 mila copie) anche grazie a forti investimenti per rafforzare le redazioni e le edizioni provinciali in tutta la Liguria e nel Basso Piemonte: Savona, affidata alla coinvolgente energia di Bruno Bini, aveva fatto da apripista con ottimi risultati diffusionali, seguita da Sanremo e Imperia (Roberto Salvatori), Chiavari (Federico Canale, una vera istituzione), e La Spezia con Bruno Della Rosa e il giovane Riccardo Sottanis. Complessivamente, l’azienda arrivò a occupare oltre 500 dipendenti tra giornalisti, tipografi, personale amministrativo e ausiliario. Un organico destinato progressivamente a prosciugarsi per stati di crisi, veri o presunti, prepensionamenti ed esodi incentivati: operazioni solo in parte giustificate con l’introduzione della tecnologia e bilanci da riequilibrare. Decisioni non facili per chi, come il “dottor Brivio”, fin troppo sollecitato da direttori generali spregiudicati e alieni dalla storia e dallo stile del Decimonono, conosceva uno ad uno i suoi dipendenti.
Brivio non si fece trovare impreparato o indeciso nell’affrontare la sfida del rinnovamento tecnologico. Nei primi anni Ottanta ci fu la prima rivoluzione: addio alla stampa a caldo, alle fumiganti linotype, ai torchi, alle righe di piombo, ai telai per l’impaginazione. Grandi investimenti e grandi innovazioni. L’incombere della tecnologia imponeva una solida ristrutturazione dell’azienda, soprattutto nella parte più legata alle macchine. Nelle redazioni arrivarono i primi computer Seledi con l’ingegner Fabio Viviani responsabile del Centro elettronico. Lo sviluppo proseguì fino alla più moderna video-impaginazione affidata al proto Delli Noci erede del suo “maestro” Adriano Ramagli. Altra tappa onerosa ma necessaria fu quella per la realizzazione del modernissimo nuovo Centro stampa a Multedo e mandare in pensione l’antica rotativa che sbuffava da decenni nei sotterranei di via Varese. Un’operazione di cui andava fiero e che seguì passo passo a fianco del direttore dello stabilimento, Aldo Di Carlo.
Il Secolo XIX fu anche il primo giornale a realizzare l’integrazione tra la stampa scritta e la televisione. L’esperimento di Tivuesse, avviato nel 1977 e affidato a Nino Pirito per la parte spettacoli, a Sandro Grimaldi per le cosiddette news, e con un’aggressiva redazione composta da Enrico Pedemonte, Ada Lorini, Beppe Barnao, Elisabetta Vassallo e Federico Buffoni, è entrato nella storia dell’informazione italiana. Un’esperienza indelebile, non solo per chi l’ha vissuta, anche se dovette poi passare di mano di fronte processo di concentrazione, poi di monopolio, dell’emittenza privata.
Del suo giornale, ogni mattina, leggeva tutto fino all’ultima riga. E non di rado si fermava in ufficio fino alla sera tardi oppure, quando era fuori sede, telefonava al caporedattore di notte per conoscere le notizie più importanti della giornata e le scelte per la prima pagina. Con i suoi collaboratori era garbato, rispettoso nei toni. Mai sopra le righe. Con discrezione si informava delle vicende personali dei suoi collaboratori e dipendenti e, come spesso è avvenuto nel corso di trent’anni, sapeva dare il suo riservato sostegno. Il Secolo XIX era la sua seconda famiglia. Un Editore puro. Un Editore vero. L’ultimo.
Luciano Angelini*
già condirettore del Secolo XIX