Ettore Alesben Bianchi, ex docente di Costruzioni, all’ITG L.B.Alberti di Loano, martedì 21 agosto 2018, firmava su Trucioli l’articolo “belin che botta”. Il 2 settembre altro servizio titolato ” Il governo giallo-verde. Perino, i No Tav, i Si Tav. La Liguria, i treni e chi si fa travolgere tra Andora e Finale”. A corredo le tavole dove si evidenziava: Lo schema statico dei Ponti strallati, le oscillazioni torsionali del ponte di Tacoma e l’Ipotesi di ribaltamento, se si elimina uno strallo. In altre parole, Alesben aveva individuato il vero tallone d’Achille del ponte e la causa verosimile del disastro. Ora scrive il terzo articolo.
TOMMASO FREGATTI, MATTEO INDICE (Il 20/10/2018 su Il Secolo XIX e La Stampa): “Strage del ponte, trovato il tirante che si è spezzato: “Era corroso, prova decisiva” – Scoperto dagli investigatori fra le macerie, dimostra le cattive manutenzioni e sarà sottoposto a una super-perizia in Svizzera”. “Il reperto numero 132 , sotto sequestro dentro un hangar e in partenza per Zurigo dove sarà sottoposto a una super-perizia, non è un detrito qualunque. Ma con ogni probabilità la principale prova sulle cause del crollo del Ponte Morandi, che alla vigilia di Ferragosto ha provocato la morte di 43 persone. Agli occhi degli investigatori dimostra non solo che il cedimento è avvenuto per una rottura degli «stralli» (nome tecnico dei tiranti, anima in acciaio e guaina in calcestruzzo); ma che quella lesione è stata determinata da una grave corrosione, a sua volta collegata a manutenzioni carenti. La svolta è arrivata nel corso dell’incidente probatorio e, in base ai primi accertamenti, il tirante si è letteralmente «strappato» dalla sommità del sostegno, provocando il collasso dell’intera struttura. All’interno è stato scoperto, appunto, «un avanzato stato di corrosione» dei cavi, messo nero su bianco in una relazione per i pubblici ministeri Walter Cotugno e Massimo Terrile, titolari dell’inchiesta sul massacro. Il degrado della struttura diventa un nuovo elemento accusatorio nei confronti di Autostrade, che doveva eseguire controlli periodici sul viadotto. Soprattutto: dimostra in maniera forse definitiva come fosse impossibile avere il polso reale sulla tenuta del manufatto, senza condurre ispezioni dentro il rivestimento in cemento che proteggeva gli stralli. Era l’aspetto più critico del Morandi ed era stato segnalato per anni dai consulenti e dal personale stesso di Autostrade. Il reperto sarà inviato in un laboratorio svizzero, per essere sottoposto ad analisi speciali.”
Il viadotto Polcevera – Il ponte aveva una lunghezza di 1182 metri, era largo 18 metri, aveva un’altezza al piano stradale di 45 metri e tre piloni in c.a. che raggiungevano i 90 metri di altezza; la luce massima era di 210 metri. Si trattava di un ponte a trave strallata, dove gli elementi verticali sono cavalletti costituiti da due V sovrapposte: una ha il compito di allargare la zona centrale ove appoggia la trave strallata, mentre l’altra, rovesciata, sostiene i tiranti superiori. Ogni tirante è composto da 352 trefoli, ai quali ne furono aggiunti altri 112 per la precompressione del calcestruzzo.
Il viadotto Polcevera dell’autostrada A 10 attraversava l’omonimo torrente, a Genova, fra i quartieri di Sampierdarena
e Cornigliano. Progettato dall’ingegnere Riccardo Morandi, il ponte fu costruito fra il 1963 e il 1967 dalla Società Italiana per Condotte d’Acqua. È, per tale motivo, anche detto ponte Morandi o ponte delle Condotte. Le sue strutture in cemento armato sono state rimesse in causa poiché il naturale degrado del calcestruzzo non era mai stato messo in discussione da Morandi, una leggerezza che ha portato al collasso cinquant’anni dopo di alcune di esse impiegò per il viadotto sul Polcevera la stessa struttura a cavalletti bilanciati che aveva utilizzato pochi anni prima per la costruzione del Ponte General Rafael Urdaneta sul lago di Maracaibo, in Venezuela (poi parzialmente crollato nel 1964 per via dell’urto con una petroliera), e per la quale era divenuto famoso. Le forme delle pile a telaio intrecciato erano infatti viste nei primi anni sessanta come nuova e razionale forma strutturale destinata ad affermarsi. Durante la costruzione i costi aumentarono notevolmente rispetto a quanto preventivato. Il 1º marzo 1964 la Domenica del Corriere pubblicava un disegno del viadotto sul Polcevera, con il titolo “Genova risolve il problema del traffico”. Il viadotto Polcevera venne completato il 31 luglio 1967 e venne inaugurato il 4 settembre alla presenza del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il ponte fu soggetto a interventi di risanamento sin dagli anni settanta per via della fessurazione e del degrado del calcestruzzo e del creep dell’impalcato. Inoltre, per via di un’errata valutazione degli effetti di viscosità del calcestruzzo, che causò spostamenti differiti delle strutture dell’impalcato diversi da quelli previsti in fase progettuale, il piano viario del ponte si presentava con molteplici alti e bassi anziché orizzontale. Solo negli anni ottanta ripetute “correzioni di livelletta” portarono il piano viario a condizioni accettabili di semi-orizzontalità. La soluzione di costruire gli stralli in c.a,p. e non nel tradizionale acciaio si rivelò problematica, in quanto la precompressione su elementi così esili aveva avuto effetti solo modesti.
Verso il 1990, il pilone orientale del ponte fu rafforzato con nuovi cavi di sospensione in acciaio, affiancati agli stralli originari in cemento; non venne fatto altrettanto per gli altri due piloni. Il viadotto era ormai considerato obsoleto anche dal punto di vista della portata di traffico. Secondo lo studio della Società Autostrade il ponte portava 25,5 milioni di transiti l’anno, con un traffico quadruplicato negli ultimi 30 anni e “destinato a crescere, anche in assenza di intervento, di un ulteriore 30% nei prossimi 30 anni”. Ogni giorno sul Morandi ne passavano 75 mila.
Lo studio sottolineava come il volume del traffico, con code quotidiane alle ore di punta all’estremità per l’innesto sull’autostrada Serravalle, producesse “un intenso degrado della struttura sottoposta ad ingenti sollecitazioni”, con la necessità di una continua manutenzione. Lo studio ipotizzava che, nella variante della “gronda bassa“, il viadotto di Polcevera venisse demolito e sostituito da una nuova struttura poco più a nord. Il viadotto dell’autostrada A 10 Genova-Ventimiglia, oggi giorno, diventava una “camionale” per eccellenza. Il traffico dei mezzi pesanti che circola su di esso appartiene a quel tracciato europeo di transito che attraversa, nella parte sud, l’Europa e che va dal Portogallo ai paesi dell’Est [E80]
Fra gli ultimi interventi, nel 2014 alcuni lavori “di routine” da parte della Società Autostrade, e nel 2016 alcune opere di messa in sicurezza per il rifacimento di tutte le strutture in calcestruzzo e la sostituzione delle barriere bordo-ponte in entrambe le direzioni di marcia. Barriera New Jersey, il cui nome corretto è solamente barriera jersey, è un dispositivo di sicurezza modulare di calcestruzzo o di acciaio utilizzata per incanalare il flusso stradale, utilizzata anche in situazioni di emergenza. Il suo profilo è volto a minimizzare il danno ai veicoli in caso di contatto accidentale, mantenendo nel contempo la capacità di prevenzione dei salti alla corsia opposta e conseguente scontro frontale. Il risultato è ottenuto permettendo alle gomme del veicolo di salire sul piede a base inclinata, la cui pendenza obbliga la ruota e quindi il veicolo ad allontanarsi dalla barriera. Per questa caratteristica, nell’Ontario, Canada, sulle autostrade (400-series highways), è in corso la sostituzione delle barriere metalliche esistenti di tipo guard rail, con una variante (Ontario tall wall) delle barriere a profilo tipo jersey. Jersey perché prendono il nome dallo stato degli USA che le adottò per primo.
Forse il ponte di Genova sarebbe caduto lo stesso anche se ai bordi delle carreggiate e tra un senso e l’altro di marcia non fosse stato appoggiato tutto quel peso di 2 mila tonnellate di cemento, che non facevano parte della costruzione originale e che vennero installate soltanto successivamente sul ponte. Questo potrebbe aver anche contribuito a far crollare il Ponte Morandi, portando alla rottura dello strallo ed al disfacimento del pilone 9.
Questa installazione è ritenuta più sicura dei comuni guardrail. Il problema però è che quelli adibiti a barriera protettiva sono anche più pesanti degli stessi guardrail. Queste protezioni pesano in media 600 chili a metro, quindi 1,2 tonnellate per entrambe le direzioni. Moltiplicare il chilometro e quasi 200 metri del ponte porta ad un risultato di anche 1500 tonnellate in totale come sovrappeso. Cosa non prevista nel progetto originario ed alla quale bisogna anche considerare l’aumento del traffico negli ultimi decenni.
L’articolo del giornalista descrive che “il cedimento è avvenuto per una rottura degli «stralli» (nome tecnico dei tiranti, anima in acciaio e guaina in calcestruzzo); ma che quella lesione è stata determinata da una grave corrosione, a sua volta collegata a manutenzioni carenti” . Quando nel ’67 si è costruito il viadotto, con una tecnica che doveva essere innovativa, e lo era a quei tempi, la corrosione degli stralli, le eccessive deformazioni, e la perdita di tensione dei cavi di acciaio dentro le strutture di cemento armato precompresso, non erano conosciute come oggi. I viadotti di altri paesi, europei ed americani, sono sempre stati costruiti seguendo l’iter imposto dalla rivoluzione industriale e della tecnica delle costruzioni metalliche. La Rivoluzione industriale portò una profonda innovazione nel campo delle costruzioni, grazie anche alla nascita di nuovi materiali, resistenti a trazione oltre che a compressione.
L’eredità lasciata dall’esposizione di Parigi del 1889 è ancora oggi ben visibile: la Tour Eiffel che con la sua forma piramidale e le sue superfici ricurve si staglia ancora, per un’altezza di 320 m, nel profilo della città. Il XIX secolo segna la nascita della teoria dell’elasticità e la derivazione di molte delle principali soluzioni elastiche associate ad importanti fenomeni fisici: Nel 1850 il matematico e ingegnere francese De Saint-Venant sviluppò il tema della flessione di travi soggette a carichi trasversali. Non si aveva conoscenza di fenomeni di instabilità. I progetti si basavano prevalentemente sulle intuizioni di tecnici i quali avevano affinato le conoscenze con l’esperienza di precedenti realizzazioni. L’enorme progresso che si ebbe durante la prima metà dell’Ottocento riguardò non soltanto gli edifici. Significativi furono infatti anche gli avanzamenti nella costruzione di ponti metallici, favoriti dallo sviluppo delle linee ferroviarie e dalla messa a punto del ferro laminato.
Un momento significativo nella storia della costruzione dei ponti fu sicuramente rappresentato dalla realizzazione nel 1833 del Brooklyn Bridge, ponte “sospeso” progettato da John Roebling. In questo caso infatti, grazie all’effetto di sospensione realizzato mediante cavi costituiti da fili di acciaio galvanizzato, fu possibile raggiungere ben 1054 m di lunghezza, con una luce centrale di 486 m ed un altezza libera di 41 m. La fine del XX secolo ha visto l’introduzione di tecnologie e materiali del tutto nuovi per i ponti, che hanno permesso di coprire luci sempre più ampie come i 1991 m dell’Akashi Kaikyo in Giappone. Il ponte è costituito da 4 cavi d’acciaio assicurati ad ancoraggi fissati ad apposite piastre (una per ogni cavo) contenute all’interno di calotte di granito alte fino a 3 metri e poste agli estremi del ponte stesso. Ogni cavo è composto da 5657 m di filo d’acciaio galvanizzato con zinco al fine di renderlo resistente al vento e alla pioggia. Due piloni, posti a circa 300 metri dalle calotte, poggiano su cassoni grandi come 4 campi da tennis, e vengono utilizzati come punti di ancoraggio per i cavi grazie a piastre a sella poste sulle loro sommità. La base del ponte invece è costituita da travi di acciaio del peso di 4 tonnellate ciascuna assicurate a tiranti verticali (assicurati a loro volta a tiranti diagonali) il cui scopo è mantenerle in posizione.
La concessionaria “Autostrade” può essere tacciata di scarsa manutenzione ma non è responsabile della rottura dello strallo ad opera delle oscillazioni e dei fenomeni dinamici sui cavi d’acciaio annegati con la guaina di protezione nel calcestruzzo. La Toninelli & Company possono puntare solo il dito sugli effetti visivi del costrutto esterno ovvero su quello che implica la fessurazione e del degrado e del creep dell’impalcato che fu già oggetto di risanamento sin dagli anni settanta e su quanto influenzò un’errata valutazione degli effetti di viscosità del calcestruzzo, che causò spostamenti differiti delle strutture dell’impalcato diversi da quelli previsti in fase progettuale, il piano viario del ponte si presentava con molteplici alti e bassi anziché orizzontale. Solo negli anni ottanta ripetute “correzioni di livelletta” portarono il piano viario a condizioni accettabili di semi-orizzontalità.
Il problema del ponte è che gli ‘stralli’, sono stati costruiti in calcestruzzo all’interno del quale è stata annegata la guaina che conteneva i “ferri” in trazione. Le tecniche di allora, come del resto quelle di oggi giorno non sono in grado di “piazzare” sensori e telecamere all’interno del costruito che possano dare una idea precisa di come vengono assorbite le oscillazioni esterne; men che meno le deformazioni del calcestruzzo; forse la Toninelli & Company possegono la sfera di cristallo quella utilizzata dalla strega Amelia nei confronti di Paperon de’ Paperone.
Morandi fa leva sulla nuova tecnica per riproporre versioni ancora più sofisticate e ultraleggere delle tipologie strutturali di base: la travata isostatica Gerber, il telaio incernierato al piede, trave strallata su cavalletto bilanciato. Alla consueta disarticolazione in elementi lineari del pilone e dell’impalcato GERBER si aggiunge il sistema antenna-stralli, che rende le membrature più esili e l’insieme più imponente e spettacolare. Concettualmente gli stralli sono dei tiranti tesi artificialmente con martinetti idraulici, che sorreggono le travate e contemporaneamente le comprimono assialmente. Il complesso statico risulta quindi simile ad una trave in C.A. precompresso, ma con i cavi di compressione bene in vista. Nel ponte del Polcevera i cavi di strallo sono rivestiti in cemento per ovvie ragioni.
Nei travi, oltre alle normali sollecitazioni dei flessione e taglio, sono presenti anche sollecitazioni di Torsione e di Pressoflessione, di distorsioni, di ritiro, di cedimenti vincolari, detti semplicemente fenomeni dinamici, e di quei carichi definiti mobili. Oltre all‘incremento dinamico di carichi mobili dovuti ad azioni dinamiche [ϕ,coefficiente dinamico, che per le “Prescrizioni tecniche per la progettazione di ponti stradali secondo la normativa in vigore in Italia dall’agosto del 1991 (D.M. 4 maggio 1990, G.U. 29 gennaio 1991 e circolare n° 34233 del 25 febbraio 1991), vale 1.4 – (L – 10) : 150], occorre prendere in considerazione le azioni: longitudinale di frenata, centrifuga, vento, sismica, resistenza passiva dei vincoli, svio autoveicolo, e azioni variabili se questi hanno contatto con corsi d’acqua.
La conseguenza proprio della rottura degli stralli precompressi che tengono in equilibrio la struttura e che, in pratica, hanno innescato un effetto elastico (tipo frusta) sulla struttura del ponte e provocato la rotazione, l’inclinazione e in alcuni casi anche il ribaltamento delle porzioni di piano stradale durante la caduta. I soccorritori hanno infatti trovato una parte della strada «sottosopra» tra le macerie, con l’asfalto quindi rivolto al terreno segno che i piani stradale hanno avuto una rotazione di quasi 180 gradi durante la caduta. Segno quasi inequivocabile di un effetto di forze generato dalla rottura di uno o più stralli in contemporanea. Il presidente della commissione del ministero dei Trasporti ha chiarito che «non erano mai pervenuti segnali concreti di pericolo» relativi al ponte. In particolare Ferrazza si è riferito alla relazione del Politecnico di Milano che indicava la presenza di anomalie agli stralli del pilone 9: «Ho visto parte della relazione perché è contenuta nel progetto di sistemazione predisposto da Autostrade e inviato al ministero ad inizio anno e le cui opere sono state messe a gara a fine aprile. Ora ho chiesto l’acquisizione dell’intera relazione». Tuttavia Ferrazza ha chiarito che non si trattava di allarmi specifici ma la relazione del Politecnico era un «messaggio», che «è stato colto visto che erano in programma dei lavori». Se però Autostrade abbia fatto o meno altri studi su quei piloni dopo la segnalazione del Politecnico non è ancora chiaro. Ieri i vertici della società avevano spiegato che si trattava di problematiche poi risolte.
Il Ponte di Tacoma è un ponte sospeso costruito sul Tacoma Narrows (Washington) per la prima volta nel 1940. I lavori iniziarono il 23 novembre 1938 e la struttura fu poi aperta al traffico il 1 luglio 1940, prima di crollare il 7 novembre dello stesso anno. Presentava una lunghezza complessiva di 1524 (max. campata 850 m) metri per circa 12 metri di larghezza. Verso le 10 del mattino del 7 novembre 1940 iniziò la torsione del tratto centrale del ponte, che collasserà un’ora e dieci minuti dopo. Le immagini del disastro furono riprese da un docente di ingegneria che stava studiando i movimenti della struttura. Le cause del crollo sono da ricercarsi nelle oscillazioni torsionali, che inizialmente vennero attribuite alla risonanza, anche se recentemente sembra più probabile un fenomeno di instabilità aeroelastica autoeccitata dovuta al flutter []; questo perché il vento che avrebbe dovuto produrre oscillazioni della medesima frequenza di quelle del ponte, mancava della periodicità necessaria per instaurare il fenomeno della risonanza. Il ponte venne poi ricostruito nel 1950 con migliori accorgimenti, ma con una struttura molto simile.
1940 – Tacoma Narrow Bridge. Crolla per flattering. L’ingegnere italiano Giulio Krall attribuì il crollo alle “vibrazioni autoeccitate” indotte dal distacco periodico di vortici di von Kármán (fenomeno di instabilità aeroelastica detto anche flutter). Sotto l’azione di un vento costante di circa 42 nodi, la scia dei vortici di von Kármán trasmetteva alla struttura delle coppie torcenti pulsanti alla stessa frequenza torsionale del ponte, innescando così un fenomeno di risonanza con ampiezze via via crescenti e non compensate da un adeguato smorzamento.
Dai giornali dell’epoca [1940] “nonostante l’installazione dei cavi ancorati a riva, le oscillazioni continuarono e si resero maggiormente visibili durante le giornate particolarmente ventose. Sfortunatamente intorno alle ore dieci della mattina del 7 novembre del 1940, a poco più di cinque mesi dalla sua inaugurazione, il ponte si mise a oscillare e torcersi paurosamente per via delle forti raffiche di vento, tanto da essere immediatamente evacuato e chiuso al traffico; circa due ore dopo, a seguito delle vistose torsioni della campata centrale che raggiunsero i 70° di inclinazione, si ruppero alcuni tiranti, la struttura raggiunse il punto di rottura e la campata centrale collassò, precipitando in acqua . A documentare l’accaduto vi furono Leonard Coatsworth, un giornalista che rimase sul posto, e Barney Elliott, un commerciante di un negozio di apparecchiature fotografiche che riprese l’episodio con una sua cinepresa; entrambi riuscirono a salvarsi“
IL PONTE DI TACOAMA
Ettore Alesben Bianchi
ex docente di Costruzioni
c/o ITG L.B.Alberti – Loano