Quante volte sentiamo ripetere, soprattutto dal ‘megafono’ di Imperia Tv e sui mass media liguri: “Bisogna tirarsi su le maniche, serve coraggio, occorre rilanciare il turismo, la montagna offre tante opportunità…”. Insomma tanti buoni propositi a parole viene da dire. A Cosio d’Arroscia c’è chi mette in pratica i fatti, in questo caso decidendo di investire, rischiare, aprire inizialmente il ristorante e in un secondo tempo le camere. L’immobile è quello che ospitava l’albergo – ristorante Ilva, un’insegna conosciuta ed apprezzata per anni. Meta di buongustai dal palato nostrano. E nella stagione estiva i clienti ospitati in 17 camere e 22 posti letto. Ora a ricevere gli ospiti, a pranzo e cena, c’è Antonio Galante, cosiese doc, geometra e consulente di un’importante società immobiliare con sede a Milano e uffici a Imperia.
Una scelta davvero inattesa, a sorpresa, si direbbe quella di Galante. E’ stato vice sindaco e presidente della attivissima Pro Loco, ora consigliere comunale. “Per dedicare tutto il tempo necessario – esordisce – a un’attività per me abbastanza estranea, ma che grazie all’impegno di pubblico amministratore e nell’ente turistico, hanno fatto sbocciare in amore per realizzare nel mio paese qualcosa di concreto e spero duraturo. Credo di aver vissuto e girato il mondo, da Londra a Parigi, ad altri continenti, Africa compresa. Non mi sono montato la testa, non credo nell’onnipotenza, semmai nel viscerale amore che si può nutrire per la propria terra. Si, perdutamente innamorato, devoto di tutti ciò che ci hanno lasciato i nostri cari. A partire da mio nonno, mia nonna, mio padre, mia madre, gli zii. Il 2017 è stato un anno funestò, ho perso il papà, i nonni, uno zio. In compenso è maturato un proposito, quasi un voto. Devo assolutamente mettermi in gioco anche da operatore turistico, ristoratore. Ho due figlie piccole, Gaia e Giada, non vorrei mai fossero costrette a lasciare Cosio in cerca di lavoro, di un futuro migliore”.
E’ quanto hanno fatto tanti residenti durante gli ultimi decenni. Oggi poco più di 200 anime, secondo paese con la popolazione più anziana della provincia di Imperia. Parecchie decine di case vuote, molti cartelli ‘vendesi’ e qualche ‘affittasi’. Il reddito medio dichiarato meno di 12 mila € l’anno. Nel 1991 il paese aveva toccato il record dei 1096 abitanti con il picco decrescente del 20,7 % nel 1991 quando i residenti erano 350.
E la sfida, la lotta, la terapia dell’entusiasmo di Antonio Galante, 45 anni, è quella non solo controcorrente, ma lottare per la rinascita e il coraggio di mettersi alla prova. Cosio che, nonostante la perdurante crisi dello spopolamento montano, può contare su un bar – tabaccheria, negozio di alimentari, un agriturismo, un ristorante molto frequentato in particolare la domenica (ora sono due) e nei fine settimana, un apicoltore con decennale tradizione famigliare, stessa cosa per un mobilificio e due attività pastorizia con produzione di formaggi e specialità lattiere. Una mandria di mucche ed un gregge di capre. Insomma si potrebbe concludere che rispetto ad altre realtà (vedi la vicina Mendatica) Cosio non è fanalino di coda nelle valli ponentine.
“Abbiamo ricchezze e risorse naturali, ambientali – osserva Galante – che vanno assolutamente recuperate, troppi terreni in totale abbandono, poche opportunità di sviluppo, dunque di lavoro. La mia soluzione, ma non mi ritengo un mago, è far tesoro degli errori compiuti in passato. La cementificazione ha senz’altro deturpato e mortificato la fascia costiera, anche se in Riviera se la passano molto meglio di noi montanari; ma le sue malefiche conseguenze hanno coinvolto i nostri paesi. Basterebbe girare alcune zone oltre confine, per rendersi conto che da noi sono stati perpetrati veri e propri scempi al patrimonio architettonico, le cui caratteristiche andavano conservate, valorizzate ed avrebbero creato un giro d’affari virtuoso. Sappiamo, ad esempio, quale sia l’interesse di stranieri verso tutto ciò che è antico, tradizionale. Qui purtroppo, con rare eccezione, si è passati da un bruttura all’altra, è mancata insomma la cultura per conservare intatta storia, tradizione, accoglienza che significa proprio sfruttare tutto ciò che sa di antico”.
E’ rimasto, aggiunge Galante, il collante umano, la coesione, tutti per uno e uno per tutti. “A Cosio non si resta mai soli, trovi sempre qualcuno che ti da una mano…la dimostrazione è lo slancio in cui si organizzano alcuni eventi dove tutti si mettono in gioco, si collabora, si è orgogliosi di far bella figura, di promuovere il territorio”.
E’ la scommessa, vorremmo dire assai più difficile, che l’ex vice sindaco, ha deciso di fare aprendo un ristorante e successivamente dare ospitalità nelle camere. I primi lavori di ristrutturazione, dopo l’acquisto dello stabile, all’insegna della semplicità e della linearità del colore, il bianco candido dei muri, l’accenno ai tetti di ciappe per ricavare il locale destinato ai servizi igienici, a norma anche per handicappati, una dozzina di tavoli, un arredamento comodo, un servizio famigliare. L’oste, si diceva un tempo, che fa da cameriere, da cicerone, da sommelier (‘Ho frequentato il primo corso’), se il caso assaggiatore. Dietro i fornelli l’esperienza pluriennale di uno chef toscano. Giuliano Tommasini, maritato a Cosio (‘Ho conosciuto mia moglie mentre lavoravo a Pisa nell’hotel Royal Vittoria, in pieno centro, e dove sono rimasto 28 anni’). Un cuoco che non stravede per le mode culinarie moderne (‘Molta teoria, molta filosofia e poco pratica’). Suo braccio destro una signora del paese, Mariella, che ha imparato l’arte della cucina semplice e genuina dalla nonna e dalla mamma. E tra le animatrici delle specialità cosiesi alla Festa delle Erbe ed altri appuntamenti culinari in paese. E’ lei che si occupa di fare il pane, lasciando lievitare da sera a mattina, farina uno, niente miglioratori come è uso fare nelle panetterie. E pochi lo sanno, sono ben 74 gli ingredienti che possono essere utilizzati per pane, grissini, focaccia, pizze, dolci. In parte naturali ed in parte chimici. Chiamati anche additivi. Alcuni non propri salutari.
In cucina invece si può fare uso di insaporitori e difficilmente il cliente si accorge. Possono essere usati per cucinare le carni, il pesce, i sughi, i ripieni, offrendo un sapore gradevole se utilizzati con sapienza. Chef Tommasini è categorico: “Nelle mie pentole i miglioratori sono proibiti”. Sostanze, va detto, lecite, ammesse, non sappiamo, almeno noi profani, quali potrebbe essere le conseguenze nel tempo per la nostra salute. Del resto è quanto accade anche nell’agricoltura moderna, nella frutta, nella concimazione dei terreni, nelle coltivazioni idropiniche, basti pensare alle fragole. Ci sono diserbanti come glifosato di largo uso per non compromettere il raccolto nei campi.
“Il mio impegno – conclude Galante ristoratore da luglio 2018 – è di rispettare e privilegiare tutto il bagaglio culinario dei nostri monti, le specialità che si gustavano a Cosio, con l’innesto di qualche innovazione, ma materia prima locale, a km zero ogni qualvolta è possibile. Ad esempio ho scelto di servire solo vini della Valle Arroscia, poche etichette, si va dai 6 ai 15 € a bottiglia. Stesso discorso per l’olio extravergine. E poi lo stesso nome scelto è la prova del nove: ‘Cadò‘ in dialetto significa lavanda e la lavanda è un nostro vessillo”.
Cucinare per gli altri, per la ristorazione, stare dietro il fornelli, è uno dei mestieri più difficili ed impegnativi. Purtroppo con le nuove generazioni si è smarrita la valorizzazione dei gusti e dei sapori, il piatto rigorosamente nostrano, anche quello della ‘cucina povera’ e hanno concorso molti fattori. Fino agli anni ’60, gli anziani ricorderanno che c’erano ristoranti delle nostre valli e di montagna dove si faceva la coda, i clienti partivano dalle città, da lontano per assaporare vere e proprie prelibatezze del gusto e tornavano, il passaparola era più efficace di qualsiasi pubblicità. Oggi capita di ascoltare, soprattutto nelle emittenti televisive locali, leggere sui media, il termine eccellenza, inflazionato, assegnato in ogni dove da giornalisti anche popolari, affermati. Per poi scoprire che il cliente viene una volta e non si vede più.
La speranza è che il ‘Cadò‘ faccia tesoro del rodaggio iniziale, non tenga troppo conto delle lusinghe e dei complimenti, meglio una critica, un suggerimento, il consiglio di un intenditore’, anche se ripetiamo ormai non si può far molto affidamento su chi si siede a tavola. Forse l’unico indice è il ‘cliente affezionato’. Se lavori bene, pratichi un corretto rapporto qualità prezzo, se il pranzo o la cena si digerisce senza un ‘peso’ sullo stomaco o l’acidità, se alle parole fai seguire i fatti, possiamo dire di essere a metà dell’opera. Perché alla fin fine occorre saper perseverare sempre nella massima umiltà ed ospitalità. (l.cor.)