Eccola ai suoi bei dì, piazza Borelli: qualche panchina e le giovani palme a vegetare. Nient’altro? E no! C’è un monumento nel mezzo: un monumento vivo e vivace: la comunità dei cittadini.
Stanno lì, in un lontano pomeriggio festivo, stanno lì tutti assieme a chiacchierare, a discutere, di politica forse o di sport o più semplicemente di niente, attenti però a tener vivi i loro rapporti sociali e morali e le consuetudini comuni.
Le panchine ai lati sono vuote. Troppo defilate. Qualcuno tra i più vecchi si è portato le sedie da casa e le ha piazzate di sghimbescio anch’esse nel bel mezzo della piazza, per non perdersi un attimo di quel soffio di vita in comune.
Il senso della comunità, la gioia delle relazioni, esistevano ancora in quei tempi: a Borghetto come in tutte le altre cittadine. Col tempo ha iniziato a sgretolarsi. Adesso è valore ormai perso! Ora ci sono solo fazioni e violente ideologie.
Poi le palme si sono elevate come le navate di un duomo. La piazza ha cambiato nome, ed è stata dedicata alla Libertà. Grande valore anche questo e impegnativo.
Oddio bella, bella la nostra piazza non lo è mai stata, con quei vialetti di traverso, e con la ferrovia a limitarne l’orizzonte, ma piacente sì, e piacevole.
Sotto le cupole dei palmizi la vita è continuata a scorrere tranquilla, tra i ciattezzi dei più anziani tirati avanti per intere giornate, tra i filarini estivi dei giovani ed i giochi, ahimè sempre troppo brevi dei bambini.
Ora le colonne del tempio hanno ceduto. Le navate sono crollate. Il punteruolo rosso ha subdolamente invaso i palmizi: ha voluto combattere la sua battaglia e a lui è toccata la palma del vincitore.
Nel mezzo delle aiuole sconvolte restano i moncherini delle palme abbattute e i resti delle fronde. C’è un gran vuoto intorno e un paesaggio rarefatto a cui l’occhio fatica ad abituarsi.
Da quel vuoto emergono con più evidenza sagome spettrali.
Vagano intorno nere e ferrigne come inquietante pattuglia: miliziani sembrano, su un campo di battaglia. I prigionieri appesi come selvaggina abbattuta.
Richiamano alla mente le rime di Ugo Foscolo, nei suoi Sepolcri, tormento dei miei anni liceali:
…. vedea per l’ampia oscurità scintille
balenar d’elmi e di cozzanti brandi
fumar le pire igneo vapor, corrusche
d’armi ferree vedea larve guerriere
cercar la pugna…
I bambini avvicinandosi ad essi, trotterellando, si bloccano d’istinto e prendono un giro più largo.
Forse la mia è solo suggestione e superficialità. Un giorno qualcuno mi spiegherà il senso di quelle figure: sarò lieto di ascoltarlo e capire.
Su un altro lato della piazza, incombe, incongruo, il bianco cimiteriale del monumento a cosa? Alla Resistenza? … alla ferma opposizione a chi intendesse violentare la Costituzione Italiana? Così hanno detto. Addirittura!
A prima vista mi era sembrato un bel manufatto riportandomi alla mente, celentanamente parlando, la canzone: “Una carezza in un pugno, che tra l’altro è anche un bel motivo. Poi invece me ne è stato chiarito il senso.
Per quanto mi riguarda, vuole ricordarci una volta di più, che la lotta, la guerra tra fazioni avverse, o presunte tali, deve sempre e comunque essere continua.
Resterà, sempiterno e unico al mondo, il monumento alle fiche, inteso come il gesto scurrile che riproduce. Gran vanto per il paese.
Guerra e lotta in una piazza consacrata alla Libertà: ha un senso?
Non c’è pace sotto alle palme ma neppure sotto al gelso. Qui però si passa dalla tragedia alla farsa. Una via di mezzo no eh!
C’è un angolo dell’antica Borghetto che cerca con tutte le sue forze di sopravvivere. Di resistere, così come venne edificato otto secoli fa. Ce la mette tutta e in fondo ha sopportato l’ invasione dei saraceni, le distruzioni dei sanculotti di Napoleone e l’alluvione delle seconde case.
E’ l’ultima delle torri originarie rimaste, la torre cosiddetta della casetta, più comunemente nota come Casa rossa con le scale di fianco e uno scorcio di mura ad accompagnarla.
Qualche anno fa era stata messa in sicurezza, ma ben presto abbandonata lì mezzo ingessata e rugginosa.
Si era cercato si onorarla mettendole davanti i due alberi simbolo del paese: l’ulivo e il gelso. Andava bene. Ho sempre sperato in una sistemazione definitiva che rinnovasse, non lo splendore certo, ma la suggestione dell’antico borgo.
Poteva diventare, nel suo piccolo intendiamoci, un simbolo del paese. Invece le cose sono andate diversamente: nessuno se ne è più curato.
Da un po’ di tempo in qua è addirittura diventata sfondo all’esposizione di croste pseudoartistiche o di sceneggiate pecoreccie.
Ora, bivaccano a lei di’intorno, aggrappati a tavole e cassoni, i simulacri impagliati di villani sbevazzanti. Oltre ai resti di una malinconica barcuccia sfondata e polverosa.
Che ” l’erba del vicino sia sempre più verde” è un modo di dire fin troppo abusato. Tuttavia, assai spesso è verità.
Ai confini con Loano ci sono i ruderi di un vecchio ponticello romano posto sul tracciato di quella che fu la via Julia Augusta. Non è gran cosa, ma tenuto bene con alberi di ulivi intorno e piccole palme. Lo rendono un paesaggio piacevole e senza tempo, presso al quale ci si ferma volentieri.
La torre della casetta che, se ben curata, avrebbe un impatto scenografico di cui potrebbe avvantaggiarsi tutto il paese, deve rimanere lì negletta. Sembra creare solo imbarazzo a chi ne dovrebbe aver cura.
San Matteo, che tra l’altro è patrono del nostro Borgo ce lo aveva pur detto:
Non date ciò che è santo ai cani
e non gettate le vostre perle ai porci,
perchè non le calpestino
e rivoltandosi vi sbranino…
(Matteo.7.6)
E il Comune intanto che dice? Che fa il Comune?
Ora avrà le sue belle gatte da pelare va bene, dopo lo sconquasso in cui lo ha scaraventato l’ultima giunta. Ma tra poco ci sarà qualcun altro alla guida e allora un appuntino sarebbe opportuno che se lo prendesse.
Sarà una pia illusione? Continuerà la noncuranza della giunta passata, ben rappresentata tra l’altro dalla composizione che campeggia in bellavista nell’atrio del Comune stesso?
Renzo Patetta