Divagazioni estive scaturite dalla serata albissolese in ricordo di Don Gallo con la partecipazione di Teresa De Sio.
Teresa De Sio, autrice e interprete di “Libero cercare” e Antonio Rossello
Le vacanze estive sono una scelta, non casuale, per queste mie divagazioni. Possono essere giornate in cui il lettore si concede una pausa di lettura meno frettolosa, ed è, dunque, più incline a riflettere sui mali del mondo. Comprende maggiormente le ragioni della differenza, per rispettare la non relatività della dignità umana, e provare empatia per il prossimo e di quelle categorie definite “fasce deboli” o “meno fortunate”. “Cartine al tornasole” di un’emarginazione, che è ancora ammessa da immutate regole del gioco. Fenomeno che primariamente non riconosce loro il diritto a essere soggetto socioculturale. Nei grossolani, e/o sofisticati, lager nelle città, nelle pieghe dell’era virtuale e digitale, credo ci sia ancora bisogno soprattutto di comunicare volti e storie. E le terribili stagioni. Con fiducia in se stessi. Attraverso brevi racconti. Con un compito specifico attribuito alla considerazione e alla constatazione di quanto costruisce e costituisce quelle terribili stagioni della vita. Che non si riducano a una mera glossa, in sui si perda di significato, e veda ridimensionato il suo ruolo più rilevante, l’affermazione del libero cercare di ogni individuo. Stagioni che non vanno e vengono a caso. Stagioni che tornano con lo stesso nome, ma siamo noi a viverle in modo diverso. Quali che siano, scheletri nell’armadio; in positivo un’estate d’amori impossibili; ozio o la scomparsa di un amico. Comprendere veramente è una cosa terribile, quasi una crocifissione. Ogni persona nasce al mondo come una pagina di libro intonso che le vicissitudini, e gli esseri umani, che le stanno intorno fanno a gara per imbrattare. Esula leggermente dal nostro discorso ogni ragguaglio semantico, e terminologico, delle tumultuose intonazioni della coscienza individuale, che possono ripercuotersi, attraverso un’impercettibile gerarchia nascosta, fino al cerchio interno del genere umano. Questo si rivela nelle più importanti fasi della storia umana, sulle quali può riflettersi il messaggio pirandelliano dello sfaccettarsi della Verità, e che spesso sono terribili stagioni. Ad esempio, la Libertà è un concetto dinamico, non statico. Conquistarla comporta un processo di presa di coscienza e di azione nell’individuo. Anche attraverso un passaggio doloroso. Questo, a livello antropologico e storico, è avvenuto in forma collettiva durante la Lotta di Liberazione. Quelle terribili stagioni. A guardarle all’inizio magari non si direbbe. Eppure alla fine fanno davvero male. Il futuro rappresenta del resto sempre qualcosa d’incerto, che sia oscuro o splendente, florido o sterile, ricco di sorprese belle o brutte. Lo descrive Vasco Rossi in “Vivere”:
“VIVERE!
e’ un po’ come perder tempo
VIVERE….e Sorridere dei guai
cosi’ come non hai fatto mai
e poi pensare che domani sara’ sempre meglio
OGGI NON HO TEMPO
OGGI VOGLIO STARE SPENTO!”
Terribili stagioni, che giungono come momenti della vita, da tempo, desiderati, all’apparenza facili e promettenti, un concentrato di felicità e prosperità, dove nulla parrebbe lasciato al fato, in cui aspirazioni e sentimento formano un legame indissolubile. Momenti che ci danno proprio l’idea che ce li siamo finalmente meritati, …e invece no. Momenti segnati da persone, contornati da cose o fatti, che – esemplificando per sanare la scollatura nominalistica che sussiste tra parole e realtà – sono, forse loro malgrado, e sebbene promissori di ogni bene, come fiori del male, o viceversa. Sbucano inaspettatamente dal vivaio della sorte, dando inequivocabilmente l’avviso che sia un giorno o un’occasione speciale. Altrimenti sono il lupo di cappuccetto rosso travestito da nonnina, suadente e ingannatore, che ti appare alle spalle, mentre al buffet, per l’occasione inbandito, é un puro piacere ogni fetta di dolce assaporata, non già i korn flakes che tal John Harvey Kellogg brevettò il 31 maggio 1884. Impressioni che riescono a porsi al centro e ad attirare l’attenzione. Sanno calarsi in un ruolo e recitare una parte. Anche per una personalità vissuta e matura, abbastanza compiuta da restarsene – in teoria -distaccata, alle volte è arduo non esserne ammaliati. Al canto ammaliatore delle Sirene, Ulisse almeno seppe trovare il giusto rimedio. Lungo calli, fra la gente, ascoltando con gli occhi, leggendo da fogli pasticciati, ho perciò scoperto che taluni, attraverso la complessa alchimia delle categorie emozionali, all’incanto di un suono mieloso, incorrono nei dardi dell’avversa fortuna. Essa, dama dalle istrioniche sembianze, seduttive e affascinanti, che scaldano l’atmosfera, sa coinvolgere ed euforizzare. Fare sentire importanti, unici e speciali. Si compiace di prendere per mano. E, gelosamente, trascinare a seguirla.Ovunque lei voglia, pretendendo morbosamente senza dare. Nella smania del potere senza responsabilità. Della bella vita. Anche grazie agli altrui sacrifici. Incontri che di lì a breve, terminata la suggestione delle sfumature semantiche procurate dai sensi, si rivelano quelli meno autentici, più nel personaggio, più nella maschera. Difficile da intendere se una maschera, creata per proteggersi da pregressi devastanti dolori, oppure uno schermo di finzione, per celare secondi fini. E sono tante le vesti. Che si dipanano in un affresco dipinto. Che fluiscono nei diversi stili dei divertessiment linguistici che le descrivono – nell’accezione migliore dei termini – che spesso e volentieri si fa fatica a trovare e mantenere. In un vorticoso e, non sempre, divertente parapiglia di promesse. Di sospetti e di rivelazioni. Si allignano nei tratti di personaggi alterni nella capacità di autocontrollo. Settari e settaroli negli atteggiamenti e nella mente. Non immuni dalla prassi di maneggiare-controllare-alterare. Tutti ascritti in una goldoniana commedia della varietà umana.
Un piccolo napoleone; troneggiante su sedicenti virtuosità, preconcetti e opportunismi malcelati. Con atteggiamenti pretesi da leader del gruppo e quindi decisamente onnipotente, con sprazzi di bizzarria. Quanto una Pippi Calzelunghe piuttosto disobbediente, capricciosa, dispettosa, furba. Sebbene dotata di una testolina vivace e risorse particolari, al punto da non lasciarsi abbattere emotivamente anche nei momenti più critici.
La vanità di una Greta Garbo? O gli splendori barocchi della “Vedova allegra”? Amanti frivole della propria immagine. Inclini a far di tutto per migliorarla, tra profumi e belletti, l’oro e l’argento. Il cielo può attendere, mentre qui sembra ammiccare la frustrazione che spinge compulsiva all’acquisto, alle vacanze, alla dolce vita spensierata che se ne va. L’eterno liceale: un Harry Potter. La fierezza con cui persegue i suoi ideali e la perseveranza che lo spinge ad affrontare le peripezie del mondo, non si attaglia con l’intelligenza, che si arroga un che d’intellettualistico, d’inconcludente, vale a dire una spocchia, un vezzo coltivato sui libri, un gusto per l’affabulazione fine a se stessa e, per sfoghi clamorosi, fino alla pantomima alquanto nauseante..O altro? Nell’attuale civiltà delle immagini, a usare formule classificatorie, come comprensibile mezzo di difesa dalle trappole, spesso si incorre in un ludico e, talvolta, persin sadico funambulismo. Impossibile sarebbe descrivere la piena multiforme, e inderogabile, degli atteggiamenti umani, in un gioco non certo innocuo ma terribile. Tra ambiguità che vanno dalla mimesi apparente del reale a nonsenses grotteschi, e assurdi, come il vuoto pneumatico in cui si vive. Non vorrei che l’imbecille di turno interpretasse queste mie considerazioni avulse dalla vita. Vissuta nelle terribili stagioni. Per sfuggire quindi, al pericolo di cadere in un arido schematismo, non rimane altro da fare che rimettersi alla propria dimensione umana e sentimentale. Quindi saggiata l’illusione, comincia un percorso in discesa, dove la gioia viene sostituita dalla delusione, perché tutto svanisce e la speranza che ritorni ad essere come prima, fa tollerare tutta una serie di comportamenti negativi che provocano dolore. Certezze costruite negli anni che si vanificano, rendendo estranei a se stessi, cioè alla propria identità, oltre che staccati, estraniati in mezzo agli altri, anche dal prossimo più prossimo che, salvo rari casi, non riconosce e non comprende. Evidenze che, come estremo rifugio, come rivelazione di un cupio dissolvi, mettono di fronte alla possibilità di un 8 settembre, di sconfitta, di resa, di un tutti a casa in cui il sogno non esiste più. E può essere necessaria la troncatura, per evitare lo sfinimento, e gli strumenti cui ricorrere per perpetuarla inadeguati: fatalmente imperfetti. La terribile sofferenza nella quale ci si trova toglie ogni energia. Il ritmo irregolare, e incalzante, della disperazione. Dopo il cammino faticoso di risalita dall’abisso impervio, varcata, con gran pena e determinazione, la soglia agognata del ritorno in sé, così da lontano – ecco – appaiono, liberati da un fardello che opprimeva, i panni sciatti e poco edificanti di quella terribile stagione che, carpita l’iniziale inavvedutezza, per poi logorare in profondità, cagionò rogne materiali, complicazione delle vicende umane, oltre che offuscamento della creatività. Un ritrovarsi in parti del testo di “Salirò”, il brano musicale scritto e interpretato, per il suo quinto album del 2002, dal romano Daniele Silvestri:
“e invece sto sdraiato
senza fiato sfatto come il letto su cui prima m’hai lasciato
e resto distrutto
disperato ancora un po’
ma prima o poi ripartirò.
E salirò salirò…”
Seppur grande sia stata la sofferenza esistenziale, un animo perennemente anelante al ricongiungimento a un rigoglioso podere di serenità, torna suo malgrado a rassegnarsi: “Se la tua condizione ti sembra brutta, pensa a chi sta peggio di te.” (Distici di Catone, II – III sec.).
Gli invincibili sono coloro che cadono e poi trovano la forza di rialzarsi.
Qui la necessità di un continuo mettere in discussione il proprio status con coraggio, e allo stesso tempo con un’astuzia da colomba, il cui candore è tanto più disarmante quanto più si rivela strategico. Le terribili stagioni appartengono dunque a piccole, e grandi, storie di vita vissuta, narrate o taciute dai protagonisti. Ci sono campane fuse dopo le battaglie e campane che proseguono con i loro rintocchi. In uno dei più antichi testi della tradizione ebraica, il Talmud, è consolidata la credenza secondo la quale il mondo sussiste soltanto per merito delle azioni dei Giusti, uomini e donne, definiti hasidim o tzadikim, che vivono in mezzo a noi, tra le nazioni del mondo. La leggenda vuole, infatti, che, in qualsiasi momento della storia, ci siano, al mondo, trentasei Giusti che non ammettono alcune forme di ingiustizia. Grazie a loro, all’amore che nutre per essi, Dio non distrugge il mondo. Nessuno sa chi siano e neppure loro lo sanno. Ma sanno riconoscere la sofferenza altrui, prendendosela sulle proprie spalle. Hanno la dote di vedere le terribili stagioni. Nel bene e nel male, s’imparano tutte dalla strada, dalla miriade assortita di incontri e addii, nelle altrettante puntate di malattie fisiche e psichiche, violenze familiari, alcolismo e droga. Fra le montagne russe dell’adolescenza e la fragilità della vecchiaia. Una finestra sulle incommensurabili forme di disagio, ed emarginazione sociale. Lo dimostrano ampiamente centinaia di episodi. Non si contano i dibattiti, i convegni, che tentano di far breccia nei muri dell’atarassia più sterile. Al gremitissimo incontro con le scrittrici Max Manfredi, Teresa De Sio e Viviana Correddu, introdotto da Renata Barberis, con la presentazione del libro “Il gallo siamo noi” (Chiarelettere), avvenuta lunedì 3 agosto ad Albissola Marina, nell’ambito della prestigiosa rassegna estiva ‘Parole ubikate in mare’ promossa dalla libreria Ubik di Savona, hanno partecipano alcuni membri della Comunità genovese di San Benedetto al Porto. Sono mille le facce del disagio, con le quali questa struttura di accoglienza si confronta quotidianamente dalla sua nascita, e che vedono i volontari prendersi cura dei bisognosi, degli ultimi. Le fasce deboli appunto, all’interno di un’area metropolitana dove il diritto ad vita decorosa non è un fatto acquisito. Un argine alla genesi delle disgrazie di cui la cronaca si occupa, anno dopo anno. Una serata dedicata alla testimonianza delle terribili stagioni delle autrici, le quali hanno riversato nelle pagine del libro le innumerevoli sfumature della fatica di esistere di persone, la cui quotidianità è costellata di solitudine, povertà, ed emarginazione, ma anche ricca di flash inerenti il fondatore Don Gallo, le cui battute ironiche e i commenti vivaci, coloravano di propositiva leggerezza ogni luogo ove giungeva la sua presenza, anche la stessa Piazza della Concordia , nelle passate edizioni dell’evento. Interventi indimenticabili, i suoi. Immuni da prolassi di identità, né personale né politica, da parte di uno che credeva ancora fermamente che esistessero persone giuste, in grado di operare per il meglio e fare qualcosa per gli altri. Un dovere religioso ma soprattutto civico. In controtendenza. Perché, anche nelle stagioni più terribili, così succede qui da noi: si demanda, si aspetta un qualsiasi salvatore, piovuto come rugiada dall’attonito cielo nel rispettoso silenzio, mentre si continuano ad accettare i sì e i no senza battersi troppo. Si osservano i piatti della bilancia, ponendosi sull’ago, con gesti vitali ridotti al puro istinto di conservazione. Intanto, affianco agli irriducibili dell’immobilismo, tante volpi che ammirano l’uva solo per criticare il contadino.
Scomparso poco più di due anni orsono, il “gallo” era un prete di strada fuori dagli schemi, antagonista delle ingiustizie e della cultura dominante e di regime, i cui gli insegnamenti sono ancora impressi nella memoria di chi l’ha conosciuto. Espressione di un bisogno di conversione della cultura. Quale risposta al fenomeno del non-allineamento dei singoli o dei gruppi. Giovani invischiati nella spirale delle dipendenze o nelle maglie della prostituzione. Anime fragili. Certo le vicende che sono state riportate sono la fotografia di una realtà sicuramente scomoda, impossibile da ignorare, un’emergenza sociale che Don Gallo affrontò con azioni concrete, sostegno materiale ma soprattutto psicologico, rivelandosi il motore che ha innescato più di una rinascita. Ritratti inediti non solo del disagio, ma anche della possibilità concreta di un nuovo inizio. Storie semplici e, proprio per questo, straordinarie. Racconti di liberazione. Situazioni, che da principio sembravano una missione impossibile, alla fine del tutto cambiate. Grazie alla sua forza di volontà e al carisma, ma pure all’ottimismo e alla gioia di vivere, di questo sacerdote atipico. Grazie ancora a quegli amici veri e unici che non ti chiedono mai nulla in cambio, ripagati talvolta dalla soddisfazione di veder rispuntare la voglia di essere, nel mondo, protagonisti della propria vita. Anche, Teresa De Sio, esponente di spicco nel panorama della musica d’autore al femminile, artista dal forte slancio, che più volte ha cantato i problemi del nostro Paese, ha rinnovato i sensi del proprio rapporto con Don Gallo. Della comunanza d’intenti e vedute con lo stesso. Al punto di avere un brano dal titolo “Don Gallo” nel suo album dal titolo “Tutto cambia”, uscito nel 2011. In un’opera dedicata all’Italia, ad un popolo di buona volontà, capace dunque di cambiare e in positivo il corso degli eventi, l’essenza del “prete di frontiera” non poteva mancare. Più volte la vita ha fatto incrociare Teresa e Don Andrea. Dalla volta in cui andata ad assistere ad un suo spettacolo, ne rimase letteralmente folgorata da colui che considera uno degli individui più spericolati e più anticonformisti che abbia mai conosciuto.
Avuta la possibilità di intervenire dal pubblico, mi è venuto spontaneo chiedere alla cantautrice partenopea se nelle due strofe finali:
“E’ un libero cercare
una parola leggera
che dica tutto col peso di niente
e che ci sembri vera.
E benvenuto sia
ogni abbaglio del cuore,
e benvenuto sia
anche l’errore.”
della sua “Libero cercare”, scritta vent’anni fa in tempi non sospetti , vi fosse più di un accenno al suo grande amico, ai suoi sguardi magnetici e alle sue parole sempre bellissime e intrise di coraggio.
La dedica di Teresa De Sio
La risposta è stata affermativa. In una società dove impera una pesante forma di autismo, per pigrizia, scarsa empatia, e perché c’è poca voglia di occuparsi del prossimo, basterebbe la reale volontà di dedicare anche pochi minuti della nostra frenetica quotidianità per ascoltare chi ci sta accanto. Senza appelli alla logica talmudica, a salvare questo paese saranno soltanto le persone di alto spessore morale, quelle che ancora credono in qualche cosa, in primis nelle passioni. Le terribili stagioni si superano con la speranza. Apprestandosi a scoprire con gioia quello che la vita ha preparato per noi giorno dopo giorno: i fatti di sempre oppure qualche nuovo compito, con cui forse aprirsi a nuove vedute. Accettando tutto con fiducia e gioia, convinti che predisponendo tutto per il bene, vi sia la strada per l’onore e per la gloria. Quest’ultimo stadio, in ogni caso, non dipende soltanto dallo zelo dell’uomo ma da un dono superiore e sublime emanato da Dio.
Antonio Rossello