Dei piloni e delle altre opere d’arte nei boschi di Ormea ho detto e scritto tutto il possibile. Nel mio libro, una settantina di pagine almeno sono dedicate ai piloni, ne ho disegnato una pianta al 25.000 che qualcuno conosce. Ma il vero punto è la loro difesa. E questa dipende dalla messa in sicurezza e dal restauro: dove la messa in sicurezza può essere fatta da tutti con poca spesa, mentre il restauro costa caro e, se è fatto male, è peggio che non farlo. Ormea ha trecento piloni, di cui almeno cento di grande valore. Tutti abbandonati a se stessi, molti crollanti, qualcuno già crollato.
Il Comune non ha quattrini e, in ogni caso, se anche li avesse dovrebbe mettere le mani su opere d’arte appartenenti a privati che non se ne curano.
Dunque la sopravvivenza dei piloni dipende proprio dai privati. I quali, evidentemente, non hanno tempo, né voglia, né denaro da spendere e quindi non fanno nulla: senza rendersi conto che, in fondo, si tratta di un patrimonio da difendere nell’interesse di tutti. E’ inutile, sciocco e controproducente piagnucolare su Ormea che sta morendo quando poi, potendo fare qualcosa per difenderla, non si fa nulla. E questa non è strategia dell’amministrazione, ma strategia popolare. Resta il fatto che questo patrimonio si sta perdendo, solo per colpa dei cittadini di Ormea che, viceversa, potrebbero fare tutto ciò che serve. Esclusivamente nel loro interesse.
Le altre iniziative possibili e impossibili
Delle altre iniziative possibili ho già riferito diverse volte: sono almeno la ferrovia Ceva-Ormea, la ricostruzione del castello e un mezzo di risalita che, superando i Termini, scenda alla val Corsaglia, all’estremo opposto, per rendere possibili gli sport invernali. Tutte e tre hanno in comune un solo elemento: richiedono un’iniziativa privata. La ferrovia, perché nulla sarà mai possibile se qualcuno non creerà una società per gestirla, rischiando in prima persona in base alle proprie capacità professionali. La ricostruzione del castello per la stessa ragione, perché si dovrà combattere contro il criterio tipicamente italiano in forza del quale un edificio crollato non può essere ricostruito, pena un’accusa di arte lesa: chissà perché, una chiesa del Seicento abbattuta da un terremoto l’anno scorso può essere ricostruita, mentre un castello del Mille abbattuto dai francesi alla fine del settecento no. A me sembra un’idiozia, ma non posso farci nulla. So che in altri Paesi intere strutture sono state ricostruite, a finalità turistiche e non solo, a incominciare da Carcassonne: ma se ne parlo con gli addetti ai lavori, al meglio vengo guardato con benevolo compatimento. Sono convinto che una battaglia contro questo modo di ragionare vada fatta, ma anche qui per avere successo occorre un privato che abbia capacità, voglia, coraggio e denaro. L’impianto di risalita verso la val Corsaglia è un’altra ovvietà, la neve resta a lungo solo sul versante a settentrione: altrimenti Ormea non potrà mai diventare una base di partenza per sport invernali.
Detto questo c’è poco da aggiungere, salvo che su un fatto: guai ad Ormea se non sarà attenta alle pale eoliche, perché queste causano al paesaggio danni irreparabili, a meno di curarli con la dinamite. E non credo che a Ormea ci siano esperti di questo genere di cose. Ma non si può vendere all’Italia il posto di montagna incantato, con i boschi che hanno coperto ogni cosa, e poi rovinare tutto con le pale eoliche.
Filippo Bonfiglietti