Scrive Lucio Magri nel suo “Sarto di Ulm”: sono infatti diventato comunista, per ragioni d’età, quando la temperie del fascismo e della Resistenza si era chiusa da un decennio, anzi dopo il XX congresso del PCUS e i fatti d’Ungheria, e dopo aver letto oltre a Marx, Lenin e Gramsci anche Trockij e il marxismo occidentale eterodosso.
Non posso dunque dire: l’ho fatto per combattere meglio il fascismo, oppure dello stalinismo e delle “purghe” non sapevo nulla. Ci sono entrato, perché credevo, come ho continuato poi a credere, a un progetto radicale di cambiamento della società di cui occorreva sopportare i costi”.
A 95 anni dalla Rivoluzione d’Ottobre, da cui giorno che John Reed definì come “ I dieci giorni che sconvolsero il mondo”, prendo a prestito le parole di Magri per cercare di argomentare ciò che ho cercato di descrivere nel titolo: non deporre il filo rosso del ragionamento.
Argomenterò questa mia necessità seguendo il filone indicato da un grande pensatore marxista, Eric J. Hobsbawn nel suo “Il Secolo Breve, 1914-1991”, riprendendo letteralmente dal suo testo una citazione di Marx del 1859 : “ Nella produzione sociale dei loro mezzi di sussistenza gli esseri umani entrano in relazioni determinate e necessarie, indipendenti dalla loro volontà, relazioni produttive che corrispondono a uno stadio determinato nello sviluppo delle forze produttive materiali…In una certa fase del loro sviluppo le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con le relazioni produttive esistenti, ossia, ciò che non è altro che l’espressione legale di queste, con le relazioni di proprietà entro le quali esse si erano mosse precedentemente. Da forme di sviluppo della forze produttive queste relazioni si sono trasformate nelle loro catene. Entriamo allora in un’epoca di rivoluzione sociale”.
Ecco descritto, profeticamente in anticipo, il conflitto tra le forze di produzione e la sovrastruttura sociale, istituzionale ed ideologica che, dalla Rivoluzione d’Ottobre in avanti, aveva trasformato una economia agraria in una economia industriale avanzate, dentro alle grandi temperie del ‘900 tra le quali si è collocata, al centro, la grande tragedia della Seconda Guerra Mondiale e poi il dipanarsi complesso e difficile di quella che è stata definita “Guerra Fredda”.
I problemi che “l’umanità” o piuttosto i bolscevichi si erano posti nel 1917 non erano risolubili nelle loro circostanze di tempo e di luogo, o lo erano solo molto parzialmente.
Oggi ci vorrebbe un grado di fiducia molto alto per sostenere che è visibile una soluzione nel futuro prossimo per i problemi scaturiti dal crollo del comunismo sovietico o per affermare che ogni soluzione che si offrirà nella prossima generazione potrà rappresentare un punto di progresso.
La situazione che si trova di fronte a noi appare chiara: con il crollo dell’URSS l’esperimento del “socialismo reale” è terminato. Infatti, anche dove sono sopravvissuti regimi comunisti come in Cina essi hanno abbandonato l’idea originale di una economia controllata dal centro e pianificata dallo stato in una società completamente collettivizzata, oppure l’idea di una economia cooperativa senza mercato né proprietà privata.
Non possiamo però cedere senza combattere la battaglia delle idee rispetto alle tesi di Huntington e Fukuyama : la storia non è finita!
Il punto sul quale ragionare ancora, proprio oggi nella ricorrenza della data della presa del potere da parte dei bolscevichi, riguarda il fatto che l’esperimento sovietico non era stato concepito come alternativa globale al capitalismo, ma come risposta specifica alla situazione peculiare di un paese come la Russia.
Il fallimento della rivoluzione mondiale, tra la fine degli anni’10 e l’inizio degli anni’20 nell’immediato indomani della seconda guerra mondiale, portò così all’emergere della linea del “socialismo in un paese solo” e, quindi, all’assunzione di quel compito di alternativa globale, sulla base del quale l’URSS ottenne comunque notevoli risultati, a partire dalla costruzione degli altri Partiti Comunisti e della vittoria nella seconda guerra mondiale.
L’esito, però, è stato quello già rilevabile nel vizio d’origine (Plechanov scrisse: che la Rivoluzione d’Ottobre potrà portare, nel migliore dei casi, ad un “Impero cinese tinto di rosso”).
L’impossibilità di rappresentare, da parte del comunismo sovietico, una alternativa globale al capitalismo ha così portato, alla fine, al rivelarsi di una economia senza sbocchi e ad un sistema politico al riguardo del quale non è possibile esprimere certamente un giudizio positivo.
Il nocciolo della nostra riflessione deve però risiedere, oggi come oggi (dopo almeno due decenni di arresto di qualsiasi tentativo di sviluppo in avanti di un pensiero “critico”, al di fuori dalle logiche della globalizzazione e dell’altermondismo, ma considerando tutti gli sviluppi verificatisi sul terreno dell’economia, dell’innovazione tecnologica, del ruolo degli “Stati-nazione”, della diversità e complessità dei livelli di sviluppo nell’ambito del pianeta) nel cercare di comprendere fino a che punto il fallimento dell’esperimento sovietico abbia messo in dubbio l’intero progetto del socialismo tradizionale, cioè il progetto di una economia basata essenzialmente sulla proprietà sociale e sulla direzione pianificata dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio.
Si tratta di aprire un vero e proprio filone di pensiero, tante volte enunciato, ma mai praticato: si tratta di separare la questione del socialismo in generale da quello dell’esperienza specifica del “socialismo reale”, con coraggio e curiosità intellettuale.
Proprio l’incapacità dell’economia di tipo sovietico a riformarsi in un “socialismo di mercato”, come pure si è tanto di fare dimostra con chiarezza come il fallimento del socialismo sovietico non intacchi la possibilità di esplorare la possibilità di altri tipi di socialismo, intesi – davvero – come alternativa di società e quindi di espressione di una cultura politica assolutamente autonoma ed in grado di affrontare le grandi contraddizioni dell’oggi, dal punto di vista della difficoltà della condizione sociale delle grandi masse.
Non mi addentro nell’analisi delle visioni profetiche di cui pure disponiamo (Hilferding sulla finanziarizzazione, Luxemburg sul “socialismo o barbarie”, Gramsci sull’egemonia, tanto per fare soltanto alcuni esempi).
Concludo ribadendo, appunto: non deponiamo il filo rosso del ragionamento.
Franco Astengo