Trucioli

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Quando da Spotorno ‘volammo’ sulla luna, 56 anni fa. E il bar Sirio faceva sognare


Il 56° anniversario del primo allunaggio, dal romanzo Alba dei miracoli.

di Teresio Asola*
Il pomeriggio di mercoledì 16 luglio andammo al televisore del bar del molo prima di scendere in spiaggia (tanto niente bagno, prima delle 16,30): davano il lancio di Apollo 11 da Cape Kennedy, commentato da Tito Stagno e Ruggero Orlando, davanti a seicento milioni (arrotondati in eccesso da Ruggero Orlando) di telespettatori di quaranta paesi, un quinto della popolazione mondiale. Quel bar era perfetto: il suo nome stellare, Sirio, faceva sognare spazi siderali prima ancora di entrare.
L’Apollo, partito in orario, arrivò in orbita lunare sabato 19. Sentivamo gli aggiornamenti da una radiolina portatile per evitare di consumare troppi caffè e gelati nel bar stellare. Nel frattempo eravamo diventati esperti nei meccanismi del volo spaziale: lo sfruttamento dei campi di attrazione della Terra e della Luna, lo sforzo per strappare il veicolo alla gravità terrestre, all’andata, e lunare, al ritorno, il galleggiamento in orbita fra i due momenti.
Domenica 20 luglio 1969 – dopo una cena anticipata alle diciotto – tornammo tutti (tranne nonna che aspettò a casa con Tombolino) al bar Sirio, sul molo caldissimo di Spotorno. La gente discuteva. Famiglie intere erano assiepate sotto l’unico televisore in bianco e nero, appollaiato su un ripiano alto. Ci sedemmo a un tavolino vicino a un ventilatore.
Al «Telegiornale» Vittorio Citterich raccontò con voce emozionata il modulo lunare e Apollo 11 già separati, Collins in volo solitario sul Columbia, l’Eagle di Armstrong e Aldrin in discesa verso la superficie lunare, e il sovietico Luna 15 forse in fase di allunaggio. C’era tensione per l’accelerata finale della corsa alla Luna, iniziata con gli annunci di Kennedy nel ’61 e nel ’62.
Dopo Carosello cominciò la diretta televisiva di 25 ore dallo Studio Tre della Rai di via Teulada a Roma con Andrea Barbato, Tito Stagno, Piero Forcella e, in collegamento da Cape Kennedy, Ruggero Orlando. Di tutti conoscevo l’ultimo, per il saluto con la mano e la frase «qui Nuova York vi parla Ruggero Orlando». Ma adesso era a Houston. Un miliardo di spettatori nel mondo. In Italia, tutti gli abbonati Rai e molti più villeggianti nei bar. Nello studio 3 Rai di via Teulada c’erano 250 giornalisti e tecnici e 500 invitati pronti a fumare migliaia di sigarette e bere altrettanti caffè.
Il cicaleccio di prima della diretta si affievolì un poco, nel bar, facendo rimbalzare da un angolo all’altro reazioni disparate.
«Bel coraggio, ci vuole.»
«Ma se muoiono?»
«Mamma, mi dai cinquanta lire per il flipper?»
«Una birra al tavolo, grazie!»
«Se muoiono, non cadono dall’alto.»
«La Luna non è abbastanza in alto?».
Rise tutta la sala.
«No, non volevo dire quello. Avranno dei begli stipendi.»
«Mah, non so. Nessuna compagnia ha avuto il coraggio di assicurarli, così hanno firmato e distribuito ai parenti centinaia di autografi, vendibili per recuperare soldi, dovesse accadere qualcosa.»
«Uno di loro tre suona e canta» azzardò uno per farsi bello, tutto serio, grattandosi la pelata.
«Fatti furbo» lo zittirono in tre.
«Fatevi furbi voi. Mai sentito What a wonderful world?»
«Quello è un altro Armstrong. Eh, il caldo fa male».
Un miliardo di persone come noi ascoltavano o s’infervoravano in discussioni analoghe, per dissipare l’emozione e rallentare il battito cardiaco. Mezzo addormentato per l’ora tarda e intontito dal fumo e dai trenta gradi di temperatura, fui risvegliato dai commenti.
Eagle aveva acceso il motore e iniziato la discesa. Gli astronauti si accorsero che il sito dell’allunaggio si presentava più roccioso di come appariva sulle fotografie.
«Ma cosa dicono?» domandai a papà, mezzo americano essendo stato cooperatore in guerra.
«Non capisco niente, masticano fagioli» si giustificò «è la lontananza, la voce arriva ingarbugliata».
Si seppe solo che Armstrong aveva preso il controllo manuale del modulo. Poco dopo le 22 e un quarto vi fu un batti e ribatti concitato dei giornalisti.
«Ehi, ma che dicono?» chiesi.
«Zitti che non capiamo Orlando» sibilarono voci sparse nel locale, all’unisono.
«Eppure parla italiano» disse papà.
Tito Stagno annunciò trionfante («ha toccato», sparò) l’allunaggio del Lem.
Grande applauso, in studio e nel bar stellare.
Ruggero Orlando replicò da Houston: «Qui ci pare che manchino ancora 10 metri».
Da più nuvole di fumo del Sirio si levò un «Ooh» di disappunto.
Stagno s’infuriò e negò scuotendo il capo, sul viso un sorriso da commerciante: «No Ruggero, da due metri e mezzo non si passa a dieci».
Orlando: «Ha toccato in questo momento».
Secondo applauso liberatorio, condiviso platealmente anche da Stagno, che aggiunse: «Era effettivamente atterrato alle 22,17 precise quando io l’ho detto ma il motore è stato spento un pochino più tardi».
Orlando: «Sai, quella piccola differenza… probabilmente… avevano toccato il suolo lunare con dei fili che prolungano le gambe».
Ridemmo, io e Liuba. Era meglio delle comiche, o di quando ci si giustificava a scuola per un compito dimenticato a casa. Poi, breve silenzio.
La voce di Amstrong che annunciava alla sala controllo di Cape Canaveral «Eagle ha toccato…» mise tutti d’accordo.
Ci fu un «Ooh!» collettivo di giubilo, sollievo, incredulità, meraviglia. Eravamo sulla Luna.
Stupì il come, spiegato poco dopo: Armstrong aveva manovrato in manuale perché si era accorto che rischiava di finire in un cratere o di schiantarsi contro un masso. Capito (più preciso del computer di bordo) dalla conformazione del suolo di andare «lungo di due secondi», col cuore a 150 battiti e l’8% di carburante disponibile tolse l’automatico e raddrizzò la rotta: non fossero allunati in una manciata di secondi, sarebbero dovuti tornare indietro senza toccare la Luna. Erano stati i nervi d’acciaio di Armstrong a condurre la navicella a toccare, sei chilometri oltre il previsto.
«Qui Base della Tranquillità, Eagle è atterrata» disse Armstrong. Al bar Sirio di Spotorno, dove si poteva sentire una zanzara volare nel fumo denso di cento sigarette, nessuno sapeva cosa fosse Base della Tranquillità. Pensai a quanto dovesse essere felice il mio coetaneo John John Kennedy, che nel momento in cui io quasi piangevo (per il fumo di sigaretta), vedeva realizzato il sogno del papà John. Mi venne la pelle d’oca. Pensai alla maestra, che l’anno prima ad aprile ci aveva parlato di John Kennedy in occasione della morte di Martin Luther King.
Per un attimo distolsi lo sguardo dal televisore e mi voltai verso la finestra a osservare la Luna, in alto, che tramontava, verso le 22,30: falce di luna luminosissima nel cielo della notte bollente di mezza estate. Mi augurai che Apollo 11 non fosse in bilico in fondo alla discesa della mezzaluna. Risi del pensiero poco scientifico, che il maestro Scoffone non avrebbe approvato: “Proprio io, che da grande farò l’astronauta” pensai.
Pochi minuti dopo ci alzammo dal tavolino per tornare a casa, negli occhi le immagini sfocate di una Luna che non ricordavo di aver visto prima di scendere sulla Terra in groppa alla cicogna.
Teresio Asola (da Alba dei miracoli)

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