Il ritorno delle armi che non c’erano. Dalle menzogne su Saddam alla retorica nucleare odierna. La posta in gioco è il controllo del Medio Oriente.
di Franco Calcagno, dirigente scolastico
Nel marzo 2003, una coalizione a guida statunitense invadeva l’Iraq con il dichiarato obiettivo di eliminare le armi di distruzione di massa detenute da Saddam Hussein. Quelle armi non furono mai trovate. La loro esistenza non era altro che una costruzione narrativa utile a legittimare un intervento militare pianificato per ragioni più complesse: il controllo di un Paese strategico per posizione geografica, risorse energetiche e valore simbolico.

A distanza di oltre vent’anni, quella vicenda si impone come paradigma: la produzione di una minaccia come strumento di politica estera, la fabbricazione del nemico come premessa per l’intervento. Uno schema ricorrente nella storia delle potenze.
Oggi, lo spettro del nucleare riemerge in un contesto differente ma con dinamiche simili. Le preoccupazioni (o pretesti) legati al programma atomico dell’Iran, le paure diffuse sulla proliferazione nucleare in Corea del Nord, la minaccia russa agitata con cadenza regolare, pongono una questione chiave: quanto è reale la minaccia, e quanto è utile?
La guerra come rappresentazione- In geopolitica, la rappresentazione del pericolo è essa stessa uno strumento di potere. Nel caso dell’Iraq, la minaccia delle WMD (Weapons of Mass Destruction) fu costruita su basi fragili, ma sufficientemente plausibili per l’opinione pubblica di allora, desiderosa di ordine e sicurezza dopo l’11 settembre. Oggi, la minaccia nucleare gioca un ruolo simile: mobilita consensi, giustifica alleanze, orienta investimenti militari, reindirizza risorse.
Ma non si tratta solo di strategia mediatica. In Medio Oriente, ogni rappresentazione è parte di un conflitto più profondo: quello per il controllo dell’area più sensibile del pianeta, dove si intrecciano risorse energetiche, religione, rotte commerciali e popolazioni giovani e instabili.
Il Medio Oriente come baricentro geopolitico- Il Medio Oriente non è mai stato un problema “locale”. È una delle poche aree del mondo in cui nessuna potenza globale può permettersi l’irrilevanza. Le risorse naturali (non solo petrolio e gas, ma anche terre rare e snodi infrastrutturali), l’accesso a tre continenti, il controllo dei flussi migratori e dell’instabilità religiosa rendono ogni crisi regionale una questione di ordine mondiale.
L’Iraq, la Siria, lo Yemen, il Libano, la Palestina, il Golfo Persico sono teatri di guerra e, al tempo stesso, tavoli negoziali permanenti. Nessuna pace è duratura, nessuna guerra è puramente militare. L’instabilità è sistemica, perché sistemico è l’interesse delle potenze a mantenere margini di influenza in un’area troppo importante per essere lasciata agli equilibri locali.
Iran e Arabia Saudita: pacificatori o nuovi egemoni?- In questo scenario, Iran e Arabia Saudita rappresentano le due principali potenze regionali in competizione per l’egemonia. Teheran, con la sua rete di proxy sciiti, punta a costruire un “corridoio sciita” dal Golfo al Mediterraneo. Riad, garante sunnita e partner privilegiato dell’Occidente, reagisce con un mix di soft power religioso e investimenti geopolitici, sempre più svincolati dalla tutela americana.
Il riavvicinamento tra i due — agevolato dalla mediazione cinese — è da leggere più come spartizione che come riconciliazione. Non si tratta di pacificare l’area, ma di ridefinire le regole del gioco, in un contesto dove gli attori globali (USA, Cina, Russia) competono ormai apertamente. La “pace” saudita-iraniana è una tregua funzionale all’affermazione di nuove gerarchie regionali.
Troppe variabili per guerre limitate- L’idea di poter contenere l’instabilità mediorientale con operazioni militari mirate si è rivelata fallace. Il Medio Oriente è troppo frammentato, troppo armato, troppo cruciale per essere “risolto” con interventi chirurgici. Ogni attacco apre fronti imprevisti, ogni alleanza produce contro-equilibri, ogni guerra locale attira interessi globali.
Non a caso, le armi più potenti oggi sono le narrazioni, capaci di giustificare l’ingiustificabile e orientare le scelte delle opinioni pubbliche stanche ma facilmente impressionabili. La minaccia nucleare, come quella delle WMD in Iraq, funziona proprio perché è assoluta, inafferrabile, terrificante.
Il problema non è che le armi nucleari non esistano: è che potrebbero diventare l’ennesimo strumento di manipolazione strategica, utile più a costruire alleanze e sanzioni che a prevenire un reale conflitto.
La lezione di Saddam dovrebbe averci insegnato che una minaccia, quando troppo utile, rischia di non essere vera. O, peggio, di essere resa vera per giustificare ciò che era già stato deciso. Nel cuore del conflitto che si riaccende, nel labirinto di alleanze incrociate tra Iran, Arabia Saudita, Israele, Turchia e gli Stati Uniti, si staglia un grande assente sul piano militare ma non su quello diplomatico: l’Unione Europea.
L’Europa, pur priva di un esercito comune e spesso prigioniera delle sue lentezze decisionali, può oggi giocare un ruolo chiave come promotrice di un ritorno al tavolo delle trattative. In un contesto dove la diplomazia è stata soppiantata dai droni e dai bombardamenti mirati, la UE è chiamata a riaffermare il primato del dialogo, anche per preservare i propri interessi di sicurezza ed energetici. Non si tratta solo di mediazione: si tratta di affermare un modello di gestione multilaterale delle crisi, alternativo alla logica dell’imposizione armata.
Con la Russia nuovamente in campo a sostegno dell’Iran, come già accaduto in Siria, e con gli Stati Uniti tentati da nuove escalation militari, l’Europa ha l’opportunità – e forse il dovere – di proporsi come argine a una nuova stagione di destabilizzazione. Se davvero vogliamo portare la verità nelle scuole come valore civile, allora educare alla complessità geopolitica significa anche leggere le guerre per ciò che sono: strumenti di egemonia, spesso fondati su menzogne, su cui il pensiero critico deve imparare ad agire. E l’Europa può e deve essere il laboratorio di questa consapevolezza, dentro e fuori le aule.
Franco Calcagno