E’ l’Uomo la misura del mondo! Non a caso per i Greci l’uomo era «la misura di tutte le cose».
di Giuseppe Testa
Ringrazio Maurizio Molan, dal cui libro “Altezza è mezza bellezza?” (che consiglio come lettura curiosa e documentata), ho tratto questo spunto e da cui ho estratto alcuni brani di seguito. Facile oggi misurare, pesare, contare ecc. con le nuove tecnologie! Non era così in passato.
Le unità di misura erano legate all’Uomo, cosi come parti dell’uomo erano legate alle funzioni che servivano allora. Scrive a questo proposito lo studioso Giovanni Semerano (biografia in fondo pagina): il termine accadico “manu” voleva dire contare, ed è col tempo è passato a significare mano, cioè lo strumento (con dita) con cui l’antico contava. La stessa parola è arrivata nel mondo anglosassone come “moon” (cioè luna)… perché con la luna si contavano i cicli indispensabili per l’agricoltura. Lo trovo fantastico: lo stesso etimo che percorre due strade diverse ed oggi definisce due cose così diverse, e che nasconde il significato iniziale! In fondo allego i titoli di alcuni saggi di Semerano, e vi invito alla lettura, benchè impegnativa.
A parte questo esempio legato all’etimologia (ce ne sono tanti altri), l’Uomo ha sempre usato se stesso per misurare il mondo che gli stava intorno. In ogni luogo in cui si trovava poteva avere a disposizione un “metro campione”, comunque approssimativo in quanto, si sa, non siamo tutti uguali (fisicamente).
Nel suo cammino evolutivo l’Uomo ha sempre avuto l’esigenza di misurare con maggiore precisione. Oggi usiamo il metro ed i suoi multipli (dopo vedremo perché e da quando), ma il sistema americano (United States customary units) impiega ancora il pollice, il piede, la iarda e il miglio.
È singolare che ancora oggi si utilizzino nomi di parti del corpo umano come unità di misura, ma non dobbiamo dimenticare che le più antiche unità di misura derivavano proprio da alcune di esse.
Il cubito, per esempio, è un’unità di misura egizia, adottata sia dai Greci che dai Romani e utilizzata fino al Medioevo, pari alla lunghezza dell’avambraccio fino alla punta del dito medio, ed è generalmente ritenuto corrispondente a 18 pollici (45,72 cm) o a sei palmi o a due spanne.
Anche la spanna è un’unità di misura utilizzata nella metrologia greca. Essa indica la distanza tra la punta del pollice e quella del mignolo della mano aperta con le dita allargate quanto più possibile, é corrisponde a circa 20 cm. Il concetto di spanna è entrato nell’uso gergale a indicare una misura grossolana, approssimativa, sinonimo di «a occhio», «grossomodo».
Per fare un altro esempio di misure “umane”, vediamo che nel centro storico di Firenze, in Via de’ Cerchi, a poche decine di metri da Palazzo Vecchio, si trova sulla parete di un palazzo una scanalatura della lunghezza di 58 cm. È la misura del braccio fiorentino, utilizzato in passato per misurare le stoffe. Nell’incavo era possibile tarare il proprio strumento di misura per evitare le frequenti liti e controversie tra venditore e acquirente. Sembra che l’espressione avere il braccino corto, che utilizziamo ancora oggi riferendoci a una persona molto avara, non indichi tanto la difficoltà che la sua mano troverebbe nel raggiungere il portafoglio, quanto il fatto che i venditori di stoffe accorciassero veramente il braccio inteso come unità di misura. Ricordiamo che il braccio è utilizzato ancora oggi per misurare le profondità marine.
Per i Romani stesso discorso, fa testo il piede con multipli e sottomultipli:
dito- digitus 1 / 16 1,85 cm
oncia- uncia 1 / 12 2,47 cm
palmo- palmus 1 / 4 7,41 cm
piede- pes 1 29,64 cm
cubito- (gomito)
cubitus- 1½ 44,46 cm
passo semplice- gradus 2½ 0,74 m
passo doppio- passus 5 1,48 m
pertica- pertica 10 2,96 m
atto- actus 120 35,52 m
stadio- stadium 625 185 m
miglio- Miliarium 5000 1,48 km
lega leuga 7500 2,22 km
Una ulteriore curiosità: tra le misure di lunghezza tuttora in uso che non fanno parte del sistema internazionale ricordiamo la iarda (in inglese yard), che è pari a 0,9144 m e corrisponde a 3 piedi o a 36 pollici. Pare fosse la distanza tra la punta del naso e quella del pollice (a braccio teso) del re Enrico I d’Inghilterra (1068-1135)
Erano quindi i re con le loro misure a ispirare i sistemi metrici di una nazione. Questo spiega perché il piede, unità di misura largamente impiegata dal Medioevo a oggi, ha avuto valori differenti a seconda delle aree geografiche. Il piede standard di Parigi si chiamava “pied de roi” ed equivaleva a 32,5 cm, mentre il piede inglese, pari a 30,5 cm, era più corto. Il dettaglio ha un importante riflesso per quanto riguarda la valutazione della statura di Napoleone Bonaparte, denigrato dai nemici per la sua bassezza ma di fatto “misurato” con il “piede” sbagliato. Queste considerazioni sulle diverse unità di misura ci confermano la difficoltà, nel corso dei secoli, di avere a disposizione sistemi di misurazione omogenei. C’è una data della fine del ‘700, poco citata nei libri di storia, che possiamo considerare fondamentale non solo per la scienza, ma anche per la vita pratica e quotidiana di ogni uomo: il 7 aprile 1795 (18 germinale, anno III). Quel giorno la Convenzione Nazionale, l’assemblea esecutiva e legislativa operante durante la Rivoluzione francese, promulgò una legge che introdusse in Francia il Sistema Metrico Decimale (SMD), un sistema completo di misurazione che non riguardava solo il metro, ma l’insieme dei nuovi pesi e misure “. Il sistema metrico decimale fu il frutto di un lungo ed elaborato lavoro che ebbe come protagonisti personaggi del calibro di Condorcet, Talleyrand e Prieur. Il SMD voleva dare una risposta concreta alla principale tra le doléances, espresse dai cittadini nei famosi cahiers del 1788: «Che non vi siano più sul territorio due pesi e due misure», una locuzione che ancora oggi utilizziamo nel linguaggio comune. Significa usare criteri diversi per valutare (ingiustamente) situazioni simili.
Come osserva Denis Guedj: «In piena rivoluzione francese iniziava una straordinaria avventura scientifica: la ricerca di un’unità di misura universale. La misura di tutte le misure sarà il metro, la decimilionesima parte di un quarto di meridiano terrestre, una piccolissima striscia di terra; ma che darà anche la misura di una nuova visione del mondo». Per assurdo il regime rivoluzionario francese, pur rivalutando l’essere umano, gli toglieva il privilegio di essere la misura di tutte le cose, affidando questo incarico alle misure “terrestri”.
Giovanni Semerano, filologo, è stato l’allievo dell’ellenista Ettore Bignone all’Università di Firenze, dove ha seguito gli insegnamenti di Giorgio Pasquali, del semitologo Giuseppe Furlani, di Giacomo Devoto e di Bruno Migliorini. È autore della monumentale opera Le origini della cultura europea (Olschki, Firenze 1984-1994). Per la Bruno Mondadori ha scritto. L’infinito: un equivoco millenario (2001) e Il popolo che sconfisse la morte. Gli etruschi e la loro lingua (2003).
Lo studio di Giovanni Semerano rientra nel ciclo dei suoi lavori che mirano a confermare l’intuizione storica secondo cui un vincolo di fraternità culturale lega da cinquemila anni l’Europa all’antica Mesopotamia, l’attuale Iraq, dove fiorirono le inarrivabili civiltà di Sumer, di Akkad, di Babilonia. L’elemento di congiunzione tra Oriente e Occidente è Sargon: il fondatore della dinastia di Akkad, nel III millennio a.C. Il testo, brillante e chiaro, offre inoltre ricche informazioni nell’in-tento di proporre una diversa chiave interpretativa a una superata classificazione linguistica, la famiglia del così detto indoeuropeo. Al lettore vengono esposti originali punti di vista, egli sarà certamente sollecitato dall’idea di percorrere inesplorati sentieri filologici seguendo i passi del più indipendente fra gli studiosi contemporanei che il mondo scientifico italiano possa offrirci.
Giuseppe Testa